Nel 1882, parlando con il canonico Colomiatti, don Bosco disse dell'Arcivescovo di Torino Lorenzo Gastaldi:
- Ormai ci manca solo che egli mi pianti un coltello nel cuore.
Una affermazione gravissima, capace di bloccare la “causa di beatificazione” di chiunque l'abbia pronunciata. Eppure gli esperti della Santa Sede, dopo averla esaminata al microscopio per lungo tempo, dichiararono ugualmente che le virtù di don Bosco erano eroiche: tutte le virtù, anche la pazienza. In quelle parole non trovarono un insulto al suo Arcivescovo, e neppure un atto di rabbia o di impazienza. Soltanto lo sfogo umanissimo di un povero prete giunto al limite (non “oltre il limite”) della sopportazione.
In questo capitolo narriamo avvenimenti in passato giudicati “scabrosi”, e perciò taciuti o sorvolati dai biografi di don Bosco.
Noi crediamo che oggi i cristiani siano cresciuti, diventati adulti. Crediamo che non determini scandalo, ma sia invece costruttivo conoscere come anche i più grandi “uomini di Dio” abbiano sbagliato. Come in nome di Dio abbiano potuto non solo soffrire ma anche far soffrire. Perché sulla faccia della terra siamo tutti poveri uomini, qualunque sia la divisa che ci copre o i gradi che portiamo sulle maniche.
La freddezza di mons. Riccardi.
Il contrasto con il suo Arcivescovo, lungo, umiliante, tormentoso come una corona di spine, don Bosco lo ebbe durante gli anni delle sue più splendide realizzazioni.
Monsignor Fransoni morì in esilio, a Lione, nel 1862. Aveva ordinato prete don Bosco, aveva visto nascere e crescere la sua opera, l'aveva sempre appoggiato. Aveva chiamato l'oratorio “la parrocchia dei ragazzi che non hanno parrocchia”.
Per beghe politiche, solo nel 1867 Torino ebbe un nuovo Arcivescovo, monsignor Riccardi dei conti di Netro. Aveva sette anni più di don Bosco, e gli era molto amico. Quando ricevette la nomina per Torino era vescovo di Savona. Don Bosco andò a fargli visita ed egli gli gettò le braccia al collo. Gli disse che conosceva la sua notevole capacità di lavorare tra i giovani, e il bene che stava facendo con i suoi preti nel “piccolo seminario” di Mirabello. Veniva a Torino con un piano preciso: affidargli la rigenerazione dei piccoli seminari di Giaveno e di Bra, e la ristrutturazione del seminario di Chieri.
Nel primo incontro che ebbero a Torino, però, qualcosa si ruppe. Don Bosco gli manifestò che aveva fondato una Congregazione religiosa fin dal 1859, e che la Santa Sede le aveva dato una prima approvazione con il “decreto di lode” nel 1864. Mons. Riccardi cadde dalle nuvole. Disse un po' agitato:
- Pensavo che la vostra istituzione fosse diocesana, e quindi dipendente solo da me. Pensavo che voi avreste lavorato totalmente nella mia diocesi.
Lo stupore e l'amarezza di mons. Riccardi sono comprensibilissime: in un momento in cui, dopo tante traversie, si cercava di riunire le forze della diocesi, di fare unità e quadrato attorno al vescovo, don Bosco sembrava sfuggire. Egli puntava a una missione più grande, e guardava ormai più alla Chiesa che alla diocesi di Torino.
La freddezza di mons. Riccardi verso don Bosco e la sua opera aumentò nei tre anni seguenti.
Quando era stato chiuso il seminario metropolitano, molti chierici si erano rifugiati a Valdocco, altri al Cottolengo. Questo aveva attirato molte simpatie su don Bosco, facendo apparire l'oratorio come cittadella provvidenziale, rifugio alle giovani speranze del clero torinese.
Ora la situazione cambiava radicalmente. L'11 settembre 1867 l'Arcivescovo scrisse a don Bosco:
“Per i miei chierici diocesani, non permetto più che facciano scuola e ripetizione, o sorveglino nelle camerate o come prefetti. Questo per favorire i chierici nei loro studi. Ho pure stabilito di non dare gli Ordini Sacri se non a quelli che sono in seminario”.
Per don Bosco cominciarono tempi bui: molti chierici, che non avevano intenzione di rimanere sempre con don Bosco, lasciarono l'oratorio e passarono in seminario. Quelli già legati a lui con voti, pensavano con apprensione quando mai avrebbero potuto diventare preti.
Don Bosco si recò a parlare a mons. Riccardi, e si espresse con una certa vivacità:
- Secondo i suoi ordini, i giovani preti devono andare al Convitto ecclesiastico, i chierici
in seminario. E don Bosco deve rimanere solo in mezzo a tutti i suoi ragazzi?
L'Arcivescovo rimase fermo nella sua posizione. Fortunatamente la corda non rimase tesa a lungo. Il 1° marzo 1869 un decreto della Santa Sede (sollecitato vivamente da don Bosco) approvò ufficialmente la Società Salesiana. Un altro decreto diede per dieci anni a don Bosco la facoltà di dare le “lettere dimissorie” ai chierici entrati nell'oratorio prima dei 14 anni. Questo significava che chi era cresciuto all'oratorio fin da ragazzo, poteva essere presentato da don Bosco a ricevere gli Ordini con un suo attestato di garanzia (- lettere dimissorie), anche se non aveva frequentato il seminario.
Mons. Riccardi morì nell'ottobre del 1870.
“Voi lo volete e io ve lo do”.
Pio IX apprezzava molto don Bosco, e lo consultò per la scelta del nuovo Arcivescovo di Torino. Don Bosco propose mons. Lorenzo Gastaldi, vescovo di Saluzzo. Gli era molto amico, e la sua Congregazione aveva ricevuto molti aiuti da lui. Pio IX, che conosceva il carattere molto vivo di Gastaldi, non era del parere. Ma don Bosco insistette, e il Papa (stando alla testimonianza di don Amadei) accolse la proposta dicendo:
- Voi lo volete, e io ve lo do. Vi lascio l'incarico di far sapere a mons. Gastaldi che adesso lo faccio arcivescovo di Torino, e fra un paio d'anni lo farò qualcosa di più. (Era un cenno abbastanza esplicito alla porpora cardinalizia).
Don Bosco telegrafò immediatamente a mons. Gastaldi:
“Eccellenza, ho l'onore di parteciparle per primo che sarà nominato Arcivescovo di Torino”.
Appena don Bosco tornò da Roma, mons. Gastaldi volò a Torino. “Incontrato don Lemoyne, l'abbracciò e salì con lui. Non poteva star fermo, era in preda a vivissima impazienza. Ed ecco comparire don Bosco. Il Vescovo lo prende per mano, lo accompagna, e rimane a lungo con lui in intimo colloquio” (M.B., voi. X, p. 446). Con un'ombra di imprudenza, sul finire del colloquio don Bosco gli lasciò capire che alla nomina aveva contribuito anche lui. Gli comunicò le parole precise del Papa: “Ora Arcivescovo, e fra due anni qualche cosa di più”. Monsignore troncò: “Lasciamo fare alla divina Provvidenza”. Era un atto di umiltà, ma c'era già un velo di suscettibilità.
L'amicizia di don Bosco con Gastaldi si poteva veramente dire a prova di bomba. La mamma del vescovo aveva lavorato per molti anni all'oratorio, e considerava don Bosco come un figlio (don Bosco e mons. Gastaldi avevano la stessa età).
Quando don Bosco cercò di avere da qualche vescovo una lettera di raccomandazione perché Roma approvasse la Congregazione, mons. Gastaldi ne scrisse una bellissima:
“Do testimonianza che l'arcivescovo Fransoni, mentre era nel triste esilio di Lione, affermò di considerare questa Congregazione come una benedizione speciale del Cielo, poiché, mentre i seminari diocesani erano chiusi, in essa poterono prepararsi al sacerdozio molti giovani” (7/ luglio 1867).
Dieci mesi dopo riscriveva: “Qui il misericordioso Iddio spande in misura sovrabbondante le sue benedizioni, qui si vede una missione particolare per la gioventù. Il sottoscritto ha visto come per miracolo sorgere in seno alla Congregazione una chiesa colossale (il santuario di Maria Ausiliatrice), che forma la meraviglia di chi la esamina, e che per la spesa di oltre mezzo milione di lire sostenuta da poveri Sacerdoti nullatenenti, è come un portento il quale prova che Iddio benedice questa Società”.
Nel suo volume Memorie storiche, aveva scritto del quartiere di Valdocco: “Questo territorio si mostra evidentemente benedetto da Dio per i vari istituti di carità e pietà che vi sono sorti. Basta dire che quivi si ammirano la Piccola Casa della Provvidenza e l'oratorio di san Francesco di Sales”.
Don Bosco si rivolse a lui sempre come un amico fraterno. Giunse a mandargli il progetto edilizio del santuario di Maria Ausiliatrice perché lo rivedesse, e accettò alcune modifiche da lui suggerite.
Fu un grande Arcivescovo.
A Torino, mons. Gastaldi fu un grande Arcivescovo.
Monsignor Due, vescovo d'Aosta, tracciò di lui questo profilo: “Era nato per essere Vescovo. L'ascendente del carattere, il vigore dei progetti e della volontà, l'estensione della scienza, la facilità della parola, il fervore della pietà, l'attaccamento alla dottrina di Roma, l'amore appassionato per le anime e per la santa Chiesa, tutto preannunciava in lui il capo di un popolo”.
Per un'idea più globale, occorre integrare queste parole con quelle di mons. Re, vescovo di Alba, che depose sotto giuramento: “L'Arcivescovo, insieme con molte buone qualità, aveva pure un' idea un po' esagerata della propria autorità e della propria scienza, oltre a un carattere pronto, per cui talora precipitava nelle sue decisioni e difficilmente poi si induceva a recedere dalle medesime, per timore di diminuire il prestigio della sua autorità”.
I tempi dei caotici entusiasmi risorgimentali erano passati. Il Concilio Vaticano I aveva dato un forte colpo di timone verso la “centralità” della Chiesa. Ogni diocesi si riorganizzava in forma decisa attorno al proprio vescovo, che dipendeva direttamente dal Papa.
Mons. Gastaldi fu un grande riorganizzatore dell'archidiocesi di Torino. Ridiede vita e disciplina al seminario. Accentrò nelle sue mani tutte le forze ecclesiastiche della città. Nelle lettere pastorali fece sentire ai fedeli i problemi vivi della Chiesa, e chiamò a una maggiore robustezza di vita di fede. Citiamo solo due esempi.
Dalla pastorale del 1873: “Nello scorso anno passarono all'altra vita oltre 40 sacerdoti diocesani, e ordinammo soltanto 14 nuovi sacerdoti! Che ne dite, carissimi fratelli e fedeli? Che cosa rimarrà del Clero da qui a pochi anni, se voi non Ci venite in aiuto e non Ci fornite tutti i mezzi con i quali provvedere questa archidiocesi, in cui è un mezzo milione d'anime, di quanti sacerdoti (e s'intende sacerdoti degni di tal nome) le sono necessari?”.
Dalla pastorale del 1877 sull'educazione delle fanciulle: “L'educazione che si limita a coltivare la sensibilità religiosa delle ragazze, a rendere loro amabile quanto c'è di sentimentale nelle pratiche della fede; che si accontenta di immagini che rappresentano Maria Vergine ben messa nei capelli, luminarie, ornamenti dell'altare, splendore di funzioni, melodie, fragranza di incensi e prediche, le quali svegliano le simpatie del cuore; ma non va mai all'atto del sacrificio, dell'abnegazione, dell'umiltà, del perdono per amore di Gesù, non potrà mai dirsi cristiana che in un senso imperfettissimo, non farà mai delle fanciulle realmente cristiane, realmente imitatrici di Gesù Cristo”.
Ebbe una forte e virile devozione alla Madonna. La vigilia della sua morte volle recarsi al santuario della Consolata dicendo: “Andiamo a trovare la nostra cara Madre, andiamo a metterci sotto il suo manto. Sotto il manto di Maria è consolante vivere e morire”.
Quando la notizia della sua morte (25 marzo 1883) giunse in Vaticano, il cardinale Nina, protettore ufficiale della Congregazione Salesiana, fu preso da grande tristezza. “Pensavo - scrisse poi - che gli ultimi atti della sua attività pastorale, commessi a sfregio dei poveri miei Salesiani, avrebbero ostacolato la sua canonizzazione”. Non si pensa alla canonizzazione di una mezza figura.
L'errore fondamentale di don Bosco.
Perché allora tra don Bosco e Gastaldi si scatenò una amarissima tempesta? Perché la tensione divenne così grave che si dovette fare un processo in Vaticano, e il Papa stesso dovette intromettersi?
Don Bosco commise un errore fondamentale, e lo pagò carissimo. In una lunghissima lettera spedita da Borgo San Martino all’Arcivescovo il 14 maggio 1873, toccò tutte le Corde per persuaderlo a tornare il caro amico di un tempo. Ma tra il resto scrisse queste infelici righe: “Desidero che Ella sia informata come certe note, chiuse nei Gabinetti del Governo per opera di taluno, si fanno correre per Torino. Da queste note consta che se il canonico Gastaldi fu vescovo di Saluzzo, lo fu a proposta di don Bosco. Se il vescovo divenne Arcivescovo di Torino è pure sulla proposta di don Bosco”.
L'errore fondamentale di don Bosco fu di credere che parole e atteggiamenti di questo tipo suscitassero riconoscenza, mentre in mons. Gastaldi non potevano che provocare un'estrema suscettibilità.
Al tempo della lettera citata, gli interventi dell'Arcivescovo avevano già raggiunto punte dolorose. Ma don Bosco sbagliò ugualmente a scrivere quelle parole: per quella strada avrebbe sempre più irritato mons. Gastaldi. L'avrebbe già dovuto capire nei primissimi giorni, quando aveva commesso quello stesso errore, anche se in forme assai contenute. Subito dopo la nomina gli aveva suggerito, non richiesto, il nome di un provicario, il teologo Bertagna. Gli era accanto al momento dell'entrata in città (26 novembre 1871), e aveva assicurato di avergli ottenuto dalle autorità anticlericali di Torino un'entrata solenne (che invece non si realizzò). Atteggiamenti di un amico, per una persona non suscettibile, ma atteggiamenti da “padrino” per chi ha una suscettibilità oltre la norma (come avrebbe testimoniato mons. Re).
Appena giunto in duomo e salito sul pulpito, mons. Gastaldi affermò con forza che “la sua elezione era un tratto inaspettato della divina Provvidenza, al quale non aveva contribuito nessun favore umano. Era lo Spirito Santo, e solo lui che l'aveva posto a capo dell'Archidiocesi torinese”. Egli ripetè queste parole più volte nello stesso discorso, e con vigore insolito. Era un segno chiaro che voleva scuotersi dalle spalle “ogni protezione”. Ed era anche segno che non gradiva la voce che era stato don Bosco ad ottenere la nomina (voce che stava correndo per la città). Il canonico Sorasio, presente al discorso, mormorò:
- La va male per don Bosco! La va male!
Don Amadei scrive che quello fu “il primo lampo della terribile e imprevista tempesta”. Ma la lettera del 14 maggio 1873 scatenò la tempesta completa. Mons. Gastaldi non digerì mai quelle cinque righe. Persino a un amico qualunque è difficile far accettare la battuta: “Ti ho fatto ottenere io la croce di cavaliere”. A un arcivescovo come Gastaldi “che aveva un'idea un po' esagerata della sua autorità”, quelle parole dovettero essere fiele. Ancora quattro anni dopo, al teologo Tresso, ex-allievo affezionato di don Bosco che cercava di riportare pace, disse con accento amaro:
- Si vanta di avermi fatto nominare vescovo; anzi, mi scrisse una lettera rinfacciandomi ciò; ma io l'ho inviata a Roma, affinché vedano il bel santo in cui ripongono tanta fiducia.
Le responsabilità dei giornali.
I giornali anticlericali fiutarono la possibilità di mettere mons. Gastaldi contro don Bosco, e in ogni occasione ci diedero dentro. Il Fanfulla del 16 ottobre 1871 scriveva: “Per la nomina dei vescovi nelle diocesi italiane si è ricorso alle proposte di don Bosco di Torino, chiamato espressamente a Roma”. A Milano, qualche giornale definì don Bosco: “Il piccolo Papa del Piemonte” (e un Arcivescovo, si sa, deve dipendere dal Papa). La Gazzetta di Torino, l'8 gennaio 1874, scrisse: “Trovasi a Roma il celebre don Bosco. Egli gode grandi entrate al Vaticano, e il Papa lo vede assai bene. Anche presso il Governo egli ha larghezza d'entratura”. Nel numero del 6-7 maggio 1876, la Lanterna del Ficcanaso giunse a scrivere che l'Arcivescovo aveva proibito a don Bosco di dire Messa perché “aveva troppe aderenze a Roma”, si sottraeva alla sua autorità ed estorceva eredità ai moribondi. E concludeva: “Vedremo chi sarà più potente, se don Bosco o monsignor Gastaldi”.
Questi accenni della stampa (e moltissimi altri che non è possibile elencare) versarono molto aceto sulle ferite.
Messo soltanto in questi termini, però, il dissidio tra don Bosco e Gastaldi sarebbe travisato. In esso giocò assai la grande popolarità di don Bosco e la troppa suscettibilità di Gastaldi “che non voleva fare a Torino il vicario di don Bosco” (parole dette al teologo Belasio nel 1876). Ma ebbero un ruolo altrettanto importante diversi altri elementi che cercheremo (con la massima brevità) di districare dalla matassa che in dodici anni si arruffò sempre più.
Il tempo della potenza e dell'ultrapotenza.
L'Arcivescovo fece grandi cose per la riorganizzazione della diocesi. Ma il prezzo umano con cui fece pagare queste realizzazioni fu assai alto: sospensioni, durezze, decisioni discutibili, modi odiosi.
Con il passare degli anni, il suo “temperamento forte” si accentuò ancora di più. Il canonico Sorasio, segretario di Curia, che dovette in quel tempo avallare certi interventi pesanti, scriverà nel 1917 al Cardinale prefetto della Congregazione dei Riti: “Dio mi perdoni. Quello era il tempo della potenza e dell'ultrapotenza, per non dire altro”.
Sospendeva con una certa facilità i suoi preti dalla facoltà di dir Messa e di confessare (pene gravissime in campo ecclesiastico). Molti intentarono cause a Roma contro di lui. Nel febbraio del 1878, presso la Santa Sede, c'erano una trentina di cause tra mons. Gastaldi e sacerdoti della diocesi di Torino.
Nei primissimi tempi (quando la corda non era ancora troppo tesa) don Bosco intercedette per un canonico di Chieri, un po' cocciuto ma bravissima persona. L'Arcivescovo lo sospese ugualmente dalla Messa e dalla confessione. A Chieri fu uno scandalo, e il poveruomo dovette andarsene per la vergogna fuori città.
Il caso più clamoroso fu forse quello del teologo Bertagna (lo stesso che don Bosco aveva suggerito come provicario). Dopo 22 anni che insegnava teologia morale al Convitto Ecclesiastico, ne fu esonerato improvvisamente nel settembre 1876. Sopportò in silenzio, si rifugiò nel suo paese di Castelnuovo, mentre il Convitto veniva chiuso d'autorità. Anche per l'umiliazione, don Bertagna si ammalò gravemente. In seguito, nel 1879, il vescovo di Asti mons. Savio lo chiamò e lo fece suo Vicario Generale. Era giustamente stimato uno dei teologi moralisti più autorevoli del suo tempo. Nel 1884 il cardinaie Alimonda (successore del Gastaldi) lo consacrò suo vescovo ausiliare e lo fece rettore del seminario arcivescovile.
Padre Luigi Testa, gesuita molto ascoltato a Roma, scriveva in quel tempo: “Ho aggiustato molte divergenze tra mons. Gastaldi e varie potenti persone. A Roma si è stanchi e arcistufi di tutte queste cose dell'archidiocesi”.
Sarebbe tuttavia superficiale pensare a mons. Gastaldi come a un mangiafuoco. Come persona era umile, generoso, amorevole. Aveva, come si dice, “un cuor d'oro”. Ma appena, per gli affari che cominciava a trattare, si sentiva investito della sua autorità di Arcivescovo, gli capitava ciò che nella storia della Chiesa (credo sia lecito dirlo) si è riscontrato in non poche persone: diventava autoritario, inflessibile. Queste persone diventano “spietate in nome di Dio”. Si sente in loro più il rappresentante dell'Onnipotente che del falegname-Figlio di Dio che si è fatto servo dei servi, addetto al pediluvio degli altri servi, e s'è lasciato mettere in croce.
Primo elemento: l'indisciplina.
La stessa inflessibilità, resa più dura dal timore di apparire in faccia alla diocesi “una creatura di don Bosco”, la usò con la giovane e ancora approssimativa Congregazione Salesiana.
Il primo elemento che prese di petto fu l'“indisciplina” dell’oratorio. Era “disgustato del fervore vulcanico dell'oratorio e della Società Salesiana - scrive Pietro Stella -, ch'era tenuta saldamente in pugno da don Bosco, ma che a estranei poteva apparire un complesso clamoroso e caotico di forze disorganizzate che in un domani, forse imminente, avrebbe potuto richiedere dolorosi interventi da parte della legittima autorità”.
Anche altri, in Torino, avevano avuto un'impressione negativa di quel clima di serena familiarità che costituiva invece la gioia di don Bosco. Mons. Gaetano Tortone, incaricato d'affari della Santa Sede presso il Governo di Torino, in una lunga relazione aveva scritto nel 1868: “Provai un'impressione ben penosa al vedere nelle ore di ricreazione quei chierici frammisti agli altri giovani che imparano la professione di sarto, falegname, calzolaio, ecc., correre, giocare, saltare, con poco decoro. Il buon don Bosco, contento che i chierici stiano con raccoglimento in chiesa, poco si cura di infondere in essi quei sentimenti di dignità dello stato che vogliono abbracciare”. Secondo monsignor Tortone, don Bosco avrebbe dovuto insegnare ai chierici a “tenere le distanze” dai volgari sarti e calzolai. Non c'era cosa più lontana dalla sensibilità di don Bosco.
Un altro motivo di tensione.
A questa “indisciplina”, pare che mons. Gastaldi abbia pensato di mettere rimedio di persona. E qui riferiamo due episodi un po' misteriosi, che non siamo riusciti a spiegare fino in fondo, e che svelano forse un altro motivo di “tensione”.
Subito dopo l'entrata del nuovo Arcivescovo a Torino, don Bosco si ammalò gravemente a Varazze (come abbiamo già narrato). Mons. Gastaldi chiese notizie, e appresa la serietà della malattia domandò a don Cagliero:
- Quanti siete fermi e risoluti nella vocazione?
- Più di centocinquanta.
- E se papà don Bosco venisse a morire?
- Cercheremo uno zio che gli succeda.
- Va bene, va bene. Ma speriamo che Dio lo conservi.
“Parve a don Cagliero - commenta l'Amadei - che qualora don Bosco fosse morto, Monsignore ritenesse che i salesiani si sarebbero rivolti a lui per direzione”. Questa fu l'impressione anche del canonico Marengo, a cui don Cagliero raccontò l'incontro, e che commentò: “Meno male che lei non ha detto di più. Una proposta sarebbe stata dannosa per la Congregazione”.
Quando don Bosco tornò guarito da Varazze, l'Arcivescovo andò a salutarlo. Il canonico Anfossi, presente a Valdocco, racconta che mentre i ragazzi cercavano di improvvisare un breve ricevimento in onore di mons. Gastaldi, “vidi l'Arcivescovo discendere dalla scala con passo concitato, sicché a stento don Bosco gli teneva dietro. Non badò agli evviva dei ragazzi. S'infilò nella carrozza senza salutare nessuno e se ne andò. Dissi a don Bosco: " La festa non è finita bene. C'è stata qualche cosa? “ E lui rispose: " Che cosa vuoi mai! l'Arcivescovo vorrebbe essere egli a capo della Congregazione, e questo non si può, ad ogni modo si vedrà.
Che cosa propose di concreto mons. Gastaldi? Che don Bosco ritornasse sui suoi passi, si accontentasse di fare dei salesiani una Congregazione diocesana sotto la sua alta direzione? È l'opinione più probabile. Ma forse non sarebbe azzardato pensare che accarezzò il progetto di diventare il capo effettivo della Congregazione Salesiana. Scriverà al card. Bizzarri nel 1874: “Don Bosco ha talento speciale per allevare i giovani secolari, ma non pare possegga compitamente questo talento per educare giovani ecclesiastici”. Lui sentiva di possederlo questo talento, di poter prendere in mano saldamente le briglie della Congregazione e di “mettere le cose a posto”. Don Bosco, ormai logoro, avrebbe continuato a essere il bravo “papà” dell'oratorio.
Tramontate comunque queste possibilità, si mise a esigere dai salesiani una disciplina ferrea, che presto divenne persecutoria. Ogni imperfezione, ogni indugio, venne da lui bollato come “disobbedienza”, “ribellione”, “indisciplina”.
Scendere in molti particolari sarebbe di cattivo gusto: le beghe sono sempre soltanto beghe.
L'approvazione definitiva delle Regole.
Il 30 dicembre 1873 don Bosco partì per Roma.
Si dibatteva presso la Santa Sede, dopo spossanti rinvii e ripensamenti, una questione vitale per la Congregazione Salesiana: l'approvazione definitiva delle Regole.
Il Papa nominò una commissione di quattro cardinali.
Le discussioni, e le successive correzioni del testo, si prolungarono fino ad aprile. Mons. Gastaldi intervenne contro l'approvazione, scrivendo al card. Bizzarri la sua opinione che già abbiamo riferito: don Bosco era capace a educare giovani, non a dirigere chierici e preti.
All'inizio di aprile ci fu la votazione finale della commissione cardinalizia: tre voti favorevoli, uno contrario. Pio IX, informato che mancava un voto a risolvere il dibattito, disse:
- Quel voto lo metto io.
Era il 3 aprile. Dieci giorni dopo venne pubblicato il decreto dell'approvazione definitiva delle Regole salesiane. La Congregazione era ora saldamente alle dipendenze del Papa, che concedeva per dieci anni a don Bosco la facoltà di presentare qualunque salesiano agli Ordini (“lettere dimissorie”).
Ma a Torino le cose non cambiarono.
Le liste dei “provvedimenti punitivi”.
Il 16 dicembre 1876 don Bosco dovette esporre in una lettera al card. Ferrieri i principali “punti di attrito”. Eccone la lista:
- nel settembre 1875 don Bosco venne sospeso dalla facoltà di confessare (il vicario, canonico Zappata, commentò in uno scatto d'ira: “Ma queste sono cose che si fanno con gli ubriaconi!”). Don Bosco dovette lasciare Torino perché i giovani erano soliti confessarsi da lui. L'Arcivescovo non espose mai i motivi di questo provvedimento;
- proibizione nelle case salesiane di predicare Esercizi Spirituali a maestri esterni;
- ritiro del permesso di predicazione ad alcuni preti salesiani;
- rifiuto di partecipare alle celebrazioni più solenni dell'oratorio, e proibizione di invitare altri prelati (anche la spedizione dei primi missionari si era celebrata senza la presenza di un vescovo);
- rifiuto di amministrare la Cresima ai ragazzi dell'oratorio e proibizione che altri vescovi l'amministrino.
“Queste misure suppongono gravi motivi - commentava don Bosco nella lettera - che noi non conosciamo. E danno scandalo in città”.
Il 25 marzo 1878, don Bosco fece conoscere un nuovo elenco di “provvedimenti punitivi” al cardinale Oreglia:
- don Bosco viene minacciato di sospensione immediata dalle confessioni se scriverà qualcosa di sfavorevole all'Arcivescovo, eccetto nelle lettere al Papa, al Cardinale Segretario di Stato, al Cardinale che deve interessarsi dei religiosi;
- parecchi sacerdoti salesiani sono stati “sospesi” e lo sono ancora dopo otto mesi;
- viene rifiutata l'ordinazione ai chierici salesiani che gli vengono presentati, con grave danno per le case e le missioni salesiane.
Ma anche mons. Gastaldi mandava i suoi “elenchi” a Roma. “Il succedersi senza tregua di denunzie per qualunque cosa Monsignore considerasse poco onorevole sul conto di don Bosco e della sua Congregazione - scrive don Ceria - ne insinuava il discredito presso cardinali che non avevano conoscenza dei fatti”.
Il cardinale Ferrieri, per esempio, per tutta la vita contrastò i salesiani, persuaso che fossero “un'accolta posticcia e provvisoria di persone”.
Ma ciò che più fece soffrire don Bosco fu il fatto che anche Pio IX, da sempre amico e grande protettore, si andò raffreddando nei suoi riguardi. “Quel d'pingere di continuo don Bosco come uomo testardo e quasi facinoroso influì anche sull'animo del Papa”, scrive don Ceria.
Pio IX morì il 7 febbraio 1878. Don Bosco, che si trovava a Roma e bussava a destra e a sinistra per poter avere udienza, non potè più rivederlo.
Il nuovo Papa mette alla prova don Bosco.
Il nuovo Papa, eletto il 20 febbraio, fu Leone XIII. Don Bosco ebbe la prima udienza da lui il 16 marzo. La relazione che scrisse subito dopo è trionfale: il Papa accetta di essere iscritto tra i Cooperatori, riconosce che nelle opere salesiane c'è il “dito di Dio”, invia benedizioni calorose ai missionari. Su un punto solo la relazione è sbrigativa: sulle “vertenze nostre con l'Arcivescovo di Torino, disse che attendeva una relazione ufficiale della Congregazione dei Religiosi”.
Nella relazione privata che fece ad alcuni salesiani, don Bosco parlò meno trionfalmente. “Fece capire chiaramente quanto aveva sofferto: udienze impedite, lettere intercettate, segrete e palesi opposizioni da più parti, parole dure e mortificanti”.
Papa Leone, evidentemente, era al corrente delle gravi controversie che pendevano sul capo di quel prete di Torino, e se lo trattava ufficialmente con i guanti, andava cauto per vederci chiaro. Attorno a lui, gli avversari di don Bosco erano molti e agguerriti.
Uno dei suoi amici più fidati, in quel momento, era il cardinale Alimonda, che cercò un mezzo per “provare” a Leone XIII la santità di don Bosco. Una prova difficile, in cui brillasse tutto il valore di quel povero prete.
In Roma si tentava di costruire un santuario al sacro Cuore di Gesù. Nonostante l'impegno personale del Papa, l'appello ai vescovi di tutto il mondo, le collette fatte in molte nazioni, i lavori si erano fermati a fior di terra.
Papa Leone ne era avvilito. Fu in quel momento che intervenne il cardinale Alimonda: - Santo Padre, io proporrei un modo sicuro per riuscire nell’impresa.
- Quale?
- Affidarla a don Bosco.
- Ma don Bosco accetterà?
- Santità, io conosco don Bosco, e la sua piena e illimitata devozione al Papa. Quando Vostra Santità gliela proponga, sono certissimo che accetterà.
Don Bosco in quel momento stava affogando nelle spese. Costruiva due chiese: a Torino (S. Giovanni Evangelista) e a Vallecrosia (Maria Ausiliatrice), ed era impegnato nella fabbricazione di tre case: Marsiglia, Nizza, La Spezia. Aveva 65 anni.
Il 5 aprile 1880 Papa Leone lo fece chiamare. Avanzò la proposta e gli disse che se avesse accettato avrebbe fatto cosa “santa e gratissima” al Papa. Don Bosco rispose:
- Il desiderio del Papa è per me un comando. Accetto l'incarico che Vostra Santità ha la bontà di affidarmi.
- Ma io non potrò darvi denaro.
- E io non lo chiedo. Chiedo solo la sua benedizione. E se il Papa lo permette, accanto alla chiesa edificheremo un oratorio festivo con un grande ospizio, dove possano essere avviati alle scuole e alle arti e mestieri tanti, poveri giovani, specialmente di quel quartiere abbandonato.
- Va bene. Benedico voi e con voi tutti quelli che concorreranno in quest'opera santa.
Processo in Vaticano.
Le faccende con l'Arcivescovo, in quei mesi, deteriorarono ancora. Don Bosco, per difendere la sua Congregazione, dovette portare la causa in Vaticano, dove si procedette a un regolare processo.
La nipote dell'Arcivescovo, Lorenzina Mazé de la Roche, quando si trattò della beatificazione di don Bosco, depose sotto giuramento: “A cominciare dall'anno 1873 vi furono delle vertenze dolorose tra don Bosco e mons. Gastaldi, mio venerato zio. Io appresi tali dissidi e dalla voce pubblica e dalle confidenze che don Bosco faceva a me e a mia madre, per esortarci a trovare modo di informare direttamente mons. Arcivescovo delle dicerie che si propagavano specialmente in mezzo al Clero, anche per mezzo della Stampa, con danno per entrambe le parti. Queste vertenze furono una spina costante al cuore di mia madre e al mio.
In tutti i discorsi tenuti con mia madre e con me su tale proposito, si vedeva quanto don Bosco intensamente pativa di tutte queste prove. Ma in tutto ci parlava dell'Arcivescovo con tanto rispetto e carità da restarne edificate.
Sul mio diario di quegli anni trovo registrate queste mie parole: " Perché cambiò così lo zio Monsignore? Ah! chi ha fatto il tristo uffizio di suscitare tale discordia, dovrà certo averne un gran rimorso ".
A me risulta che uno dei principali suscitatori di tali dissesti era il Segretario di mio zio Arcivescovo, cioè il Teologo Tommaso Chiuso, già defunto da vari anni, ed è a lui che alludo nelle surriferite parole. Invitata ben sovente a mensa da mio zio Arcivescovo, udivo il di lui Segretario avere soventi frizzi e sarcasmi diretti a quei di Valdocco, oppure: son quei di laggiù.
Registrai nel mio diario queste parole di don Bosco: " Si ha bensì tutta la volontà di essere forti, di farsi coraggio nelle avversità, ma a forza di accumulare disgusti su disgusti il povero stomaco si risente e si rompe ". Mai vidi in vita mia don Bosco cambiare fisionomia, ma quella volta, alternativamente mentre parlava, diveniva pallido e poi infiammato in volto.
D'altra parte posso e devo attestare che anche il mio zio Veneratissimo, parlando con me si dimostrava dolente più che con le parole, con l'espressione di pena, che i suoi rapporti attuali con don Bosco non fossero più simili a quelli dell'inizio dell'oratorio”.
La causa tra don Bosco e l'Arcivescovo si discusse in Vaticano il 17 dicembre 1881. Vi partecipavano 8 cardinali. Due votarono per l'Arcivescovo, quattro per don Bosco. Il Papa, udita la relazione, bloccò il dibattito. “Bisogna salvare l'autorità - disse al cardinale Nina protettore ufficiale dei Salesiani -. Don Bosco è così virtuoso che a tutto si adatta”. Era una seconda carta che il Papa intendeva giocare per misurare la santità di don Bosco.
Calice amaro per don Bosco.
Fissò lui stesso le condizioni per la “Concordia”, con una calibratura di parole che si riscontra solo in documenti di fine diplomazia. La sostanza però era chiarissima al di là di ogni sottigliezza: don Bosco doveva scrivere una lettera chiedendo perdono all'Arcivescovo, e l'Arcivescovo rispondere che era felice di mettere una pietra sul passato.
Don Bosco mandò giù amaro. Radunò il Capitolo della Congregazione e lesse il testo della “Concordia”. Rimasero tutti costernati. Qualcuno propose di chiedere tempo per pensarci sopra. Fu don Cagliero a spezzare ogni nodo con la sua franchezza:
- Il Papa ha parlato e bisogna obbedire. Il Papa ha deciso così perché conosce don Bosco e sa di potersi fidare. Non bisogna aspettare niente: obbedire e basta.
Don Bosco scrisse la lettera. Ricevette la risposta: “Di cuore concedo l'implorato perdono”.
Subito dopo, però, don Bosco scrisse al card. Nina una lettera da cui si può misurare il “rospo” che aveva dovuto ingoiare, e le conseguenze amare che erano in pieno svolgimento: “Dalla Curia si decantano le umiliazioni che hanno fatto fare a don Bosco. Queste dicerie, dilatate male, male interpretate, abbattono i poveri salesiani. Già due maestri direttori di case domandano di ritirarsi da una Congregazione che loro pare diventata il ludibrio delle autorità. Altri nostri preti e chierici fanno la medesima domanda. Tuttavia io voglio serbare rigoroso silenzio, secondo che ho già scritto all'Eminenza vostra”.
Sereno e distrutto.
Leone XIII, papa grandissimo nella storia della Chiesa, ebbe da questo momento gesti di squisita gentilezza per don Bosco. Sarebbe stato lui a nominare don Giovanni Cagliero primo Vescovo salesiano, e a concedere i “privilegi” che resero la Congregazione “esente” non per dieci anni ma per sempre dall'autorità dei Vescovi nella delicata questione delle Ordinazioni.
Ma quando era stato eletto Papa aveva trovato in Vaticano un ambiente ostile a don Bosco, e con due gesti ne misurò la santità.
Per provare se una pietra contiene oro si getta nel crogiolo a temperatura di fusione. Se esce oro, è pietra di valore, se no è scoria. Don Bosco fu provato così. Da lui uscì oro, oro di altissimo valore. Ma la sua umanità fu bruciata, incenerita. “A partire dal 1884 - citiamo da Morand Wirth - don Bosco non era più che l'ombra di se stesso”.
Chiedere perdono all'Arcivescovo che l'aveva flagellato per dieci anni gli costò moltissimo. Non era nato, ripetiamo, per porgere l'altra guancia. Se lo imponeva, ma con uno sforzo violento. La costruzione della Chiesa del Sacro Cuore, che avrebbe ingoiato un milione e mezzo di lire, lo obbligò negli anni del declino fisico a fatiche disumane.
Don Bosco accettò per fede nel Vicario di Cristo, e per amore alla sua Congregazione che aveva bisogno assoluto della stima del Papa.
Dalle due prove, don Bosco uscì sereno e distrutto. Per questo la sua Congregazione fiorì in grande: nacque da un prete crocifisso.
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