6. Vocazione, consigli e carisma

Grazie alla loro donazione totale essi sono, in maniera invisibile, qua e là forse anche visibile, lievito...

6. Vocazione, consigli e carisma

da L'autore

del 01 gennaio 2002

Se si deve parlare delle forme analoghe della vita di vocazione nella Chiesa, allora è molto più importante stabilire la loro radice senz'altro comune che non le diversità, le quali vengono facilmente esagerate per poter differenziare efficacemente l'una dall'altra ogni specie di “spiritualità” dei diversi stati.

Per non oscurare e livellare ogni cosa con un costruire ed un comporre a piacimento, ci si dovrà attenere sempre all'immagine biblica e al suo rilievo. In essa è subito evidente la prima analogia già ripetutamente trattata: il singolo in quanto tale, chiamato a favore della Chiesa e del mondo; da lui è esigita disponibilità totale insieme alla rinuncia di ogni legame limitante.

Poi il singolo in quanto membro della Chiesa, la quale come corpo e sposa di Cristo (marianamente) vive della stessa disponibilità a Cristo e comunica il proprio Spirito a tutti coloro che vivono in essa, nel contenuto di grazia dei sacramenti (in questo anche del matrimonio), della parola di Dio nella Scrittura e nell'annuncio di tutta la vitalità dell'agape nella Chiesa.

Questa distribuzione dello Spirito di vita della Chiesa ai singoli non avviene soltanto mediante “vocazioni” in senso originario, ma si introduce qui il concetto di “carisma». Esso vuol dire conferimenti di grazia che al tempo stesso prendono il singolo a servizio per la totalità e gli “misurano” un servizio particolare (metron, analogia: Rom. 12, 3-6), secondo “disposizioni” che scaturiscono dal Capo (emerisen: Rom. 12, 3; edoken: Ef. 4, 11; didotai: I Cor. 12, 7s; etheto I Cor. 12, 28) le quali, quantunque ampiamente stabilite (Rom. 12, 3-8), lasciano tuttavia la libertà di “aspirare ai carismi migliori”.

La distribuzione dei carismi, in tutti i passi in cui Paolo ne parla, riguarda primariamente l'organismo vitale della Chiesa; e in tutti questi passi è visibile un po' come un passaggio scorrevole tra l'ufficio gerarchico e quello carismatico; per il nostro contesto è sufficiente dire che l'ufficio gerarchico possiede sicuramente un aspetto carismatico: in quanto funzione intraecclesiale (certamente di natura particolare) per la quale viene anche comunicata una particolare grazia di ufficio (mediante l'imposizione delle mani).

Con questo il sacerdozio entra in una doppia luce: può rientrare, in quanto “vocazione personale”, in quello spazio originario della chiamata che fonda la Chiesa; ma può anche avere il suo baricentro nello spazio intraecclesiale-generale-carismatico, come un ufficio in esso eccellente.

A questo punto corre una linea divisoria difficilmente determinabile rispetto alla quale si decide quanto l'ufficio sacerdotale appartiene alla vita originaria di vocazione (quindi accanto all'obbedienza anche povertà e verginità) e quanto, come carisma intraecclesiale, può accordarsi anche con la vita matrimoniale.

La prassi odierna (obbedienza severa, celibato indiviso, e povertà poco accentuata) non rappresenta in questo punto nulla di semplicemente soddisfacente e sarebbe oltremodo sostenibile biblicamente se ci si immaginasse per esempio un sacerdozio del futuro suddiviso in due forme di vita chiaramente distinte l'una dall'altra: qui una vita a partire dalla indivisibilità dei consigli, dalla vocazione originaria da parte di Cristo, là una vita ecclesiale normalmente legata al matrimonio con una attribuzione di funzioni prevalentemente ecclesiali, che naturalmente dovrebbe prestare attenzione ad una idoneità carismatica.

La linea di confine tra “vocazione” e “carisma”, guardando la cosa dalla parte del soggetto, corre chiaramente là dove l'assenza terrena (ecclesiale-mondana) di scopi prende le distanze dal legarsi, terreno e umanamente valutabile, a degli scopi. Assenza di scopi significa: consegna dell'esistenza intera a Dio, a sua libera disposizione, cosa nella quale colui che si dotta non vuole neppure sapere per che cosa il suo dono verrà usato.

Chi nella Chiesa e nel mondo si converte grazie alla contemplazione e alla penitenza di una carmelitana? Lei non lo sa e non desidera da Dio una resa dei conti. Dove sarà posto un Gesuita o un Domenicano? Lui non lo sa e, alla fine, gli è indifferente. Egli sta a disposizione. Dove c'è questo atteggiamento può esserci vocazione. Ma dove un cristiano vuole compiere un servizio determinato, la cui importanza è apparsa evidente a lui stesso, e a nessun altro, li può esserci carisma.

Naturalmente anche nell'ambito delle vocazioni possono esserci dei carismi, i quali però non hanno la stessa urgenza della vocazione. La vocazione è un atto tra Dio in Cristo e l'uomo che offre la sua intera esistenza. Se quest'uomo diventerà benedettino piuttosto che certosino o prete secolare è un problema di importanza del tutto minore.

I grandi ordini, radicati nelle vocazioni fondamentali di un fondatore si trovano all'interno della Chiesa come spazi carismatici disponibili; forse il Signore che chiama ne indica uno in particolare, forse lascia ampia libertà di scelta al chiamato. A questo punto giocano un essere attratto naturale-soprannaturale, una preferenza, una coscienza di idoneità. Più di tutte è la vita puramente contemplativa ad esigere una specie di vocazione particolare, ma anche questa solo relativamente.

La stessa cosa può valere per vocazioni ai nuovi istituti secolari i quali uniscono la vita in una professione secolare con la vita di perfetta disponibilità a Dio in conformità ai “consigli” del Signore. Queste vocazioni, per quel che riguarda il fondamento teologico, non differiscono in nulla dalle altre vocazioni autentiche. Essi fanno ugualmente una scelta totale come ad esempio i monaci, e rinunciano per di più ad alcune facilitazioni che offre la vita del chiostro (vita comunitaria regolata, minor pericolo per la verginità, più facili condizioni per l'obbedienza che in una professione secolare, ecc.).

E se in alcuni istituti secolari una finalità umana (come anche in alcune congregazioni) appare collegata con la fondazione, allora bisogna ricordare una volta di più che senza una donazione totale a Dio, profonda e libera da finalità, tali fondazioni porteranno solo poco frutto.

Questo deve essere tenuto fermo con tutta incisività di fronte ad una giovane generazione che pensa secondo canoni tecnici, la quale vuol misurare ciò che è cristianamente sensato sulla base di ciò che è umanamente funzionale. Che “scopo” ha il fatto che Maria (che ha scelto la parte migliore) sta tutto il giorno seduta ai piedi di Gesù e lo ascolta? Istituti secolari che sanno guardare in profondità non fanno perciò nessun affidamento su successi calcolabili.

Essi pongono i loro membri, in quanto persone “consacrate” che stanno a disposizione di Dio, in mezzo al mondo non cristiano senza raccomandare loro anche un determinato apostolato organizzato, nel senso dell'Azione Cattolica: grazie alla loro donazione totale essi sono, in maniera invisibile, qua e là forse anche visibile, lievito, in un modo che forse non è molto lontano dall’“Apostolato” di un monastero di contemplativi.

Con questo presupposto la vocazione ad un istituto secolare sta ugualmente vicina alla fonte di ogni autentica vocazione allo stesso modo di quella a qualsiasi altro ordine. Essa si trova là dove viene emanato il proclama di 4, Gesù a “tutto l'universo” e “ad ogni singolo in particolare”, proclama del fatto che Gesù vuole condurre al Padre “il mondo intero”.

Qui non si fa per niente parola della' Chiesa: il singolo che si decide di “offrire tutta la sua persona alle fatiche della redenzione” (esercizi, 95) sta come rappresentante della Chiesa accanto al Signore; e Chiesa, in senso puramente soteriologico, è la totalità di coloro che offrono tutta là propria persona al Signore a favore dell'intero universo.

Una Chiesa vista in questo modo è molto meno di un recinto statico di pecore messe al sicuro, ma piuttosto l'irradiamento dinamico della luce di Cristo dentro lo spazio oscuro del mondo, è un concetto di passaggio tra il Dio- Uomo e l'“universo intero”. Il monastero è “città posta sul monte”, modello, guardando alla figura esterna, della Chiesa statica. L'istituto secolare è lievito che scende in profondità, poco o per nulla constatabile, non protetto nei confronti del mondo

Ci si guardi dal considerare i “consigli evangelici” come una delimitazione nei confronti del mondo “cattivo” e “ordinario”; essi o sono un puro essere esposti, un cristiano essere consegnati, un eucaristico esser divisi (e ciò vale anche e proprio per la verginità) oppure non sono proprio nulla. Nessuno, che consideri rettamente ciò, vorrà sostenere che il cammino degli istituti secolari sia “più facile” di quello degli ordini religiosi o del sacerdozio, oppure sia un compromesso con il mondo.

Naturalmente è possibile, secondariamente, addurre una quantità di punti di vista, facenti riferimento ad uno scopo, per l'attualità degli istituti secolari. Soprattutto il fatto che essi si avvicinano ad ambienti che in generale non sono accessibili al prete e al religioso e proprio per questo hanno maggiormente bisogno di cura; il fatto che essi possono prestare grandi servigi per l'etica professionale delle attività secolari mediante una competenza professionale; il fatto che i membri non vengono assorbiti, come i padri e le madri di famiglia, dai doveri familiari, che devono badare di meno a problemi finanziari, e che sono quindi più disponibili nel senso della carità; che essi nei tempi della persecuzione che verranno saranno forse il grande (unico rimasto) aiuto per la Chiesa.

Finalmente il fatto che i loro membri in quanto laici autentici, che al tempo stesso vivono secondo i consigli, sono di grande aiuto nel colmare l'abisso tra gli stati ecclesiali; eccetera.

Hans Urs von Balthasar

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