9. Il padre esige che si faccia festa.

9. Il padre esige che si faccia festa.

da L'autore

del 01 gennaio 2002

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9. Il padre esige che si faccia festa.

Il padre disse ai servì: «Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l'anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E cominciarono a far festa.

Dare proprio il meglio.

Per me è chiaro che il figlio più giovane non ritorna a una semplice vita di fattoria. Luca descrive il padre come un uomo molto facoltoso con grandi sostanze e molti servi. Per accordarsi con questa descrizione, Rembrandt veste riccamente lui e i due uomini che lo stanno osservando. Le due donne sullo sfondo si appoggiano a un arco che sembra più la parte di un palazzo che di una fattoria. Lo splendido abbigliamento del padre e l'aspetto prospero dell'ambiente sono in netto contrasto con la lunga sofferenza così visibile nei suoi occhi quasi ciechi, nel volto addolorato e nella figura ricurva.

Il Dio che soffre a causa del suo immenso amore per i propri figli è lo stesso Dio che è ricco di bontà e misericordia e desidera rivelare ai suoi figli la ricchezza della sua gloria. Al figlio il padre non lascia nemmeno la possibilità di scusarsi. Previene la sua supplica con un perdono spontaneo e non presta ascolto alle sue argomentazioni perché del tutto irrilevanti alla luce della gioia per il suo ritorno. Ma c'è di più. Non solo perdona senza fare domande e accoglie gioiosamente il figlio perduto, ma non può aspettare per dargli una vita nuova, una vita in abbondanza. Dio è così desideroso di dare la vita al figlio che ritorna, da sembrare quasi impaziente. Niente è abbastanza bello. Gli deve essere dato proprio il meglio. Mentre il figlio si è preparato ad essere trattato come un garzone, il padre esige che gli venga dato il vestito riservato agli ospiti di riguardo; e, sebbene il figlio non si senta più degno di essere chiamato figlio, il padre gli mette un anello al dito e i calzari ai piedi per onorarlo come suo figlio prediletto e reintegrarlo come suo erede.

Ricordo molto bene gli abiti che indossavo durante l'estate dopo il conseguimento del diploma di scuola media. Pantaloni bianchi, cintura enorme, camicia sgargiante e scarpe luccicanti; tutto esprimeva quanto mi sentissi bene con me stesso. I miei genitori erano stati molto contenti di comprarmi questi nuovi abiti e ostentavano un grande orgoglio per il loro figlio. Da parte mia, mi sentivo fiero di essere il loro figlio. Mi ricordo specialmente quanto fu bello indossare le scarpe nuove. Da quei giorni, ho viaggiato molto e ho visto come la gente affronti la vita a piedi nudi. Ora comprendo ancora meglio il significato simbolico delle scarpe nuove. I piedi scalzi indicano povertà e spesso schiavitù. Le scarpe sono per i ricchi e i potenti. Le scarpe proteggono dai serpenti; danno sicurezza e forza. Trasformano le prede in cacciatori. Per molta povera gente procurarsi le scarpe significa un salto di qualità nella vita sociale. Un vecchio spiritual afro-americano esprime tutto questo in modo suggestivo: «Tutti i figli di Dio hanno le scarpe. Quando andrò in cielo indosserò le mie scarpe; camminerò per tutto il cielo di Dio».

Il padre veste il figlio con i simboli della libertà, la libertà dei figli di Dio. Non vuole che qualcuno di loro sia garzone o schiavo. Vuole che indossino l'abito d'onore, l'anello dell'eredità e le calzature del prestigio.

È come un'investitura con cui viene inaugurato l'anno di grazia di Dio. Il pieno significato di quésta investitura e inaugurazione è specificato nella quarta visione del profeta Zaccaria:

Poi [il Signore] mi fece vedere il sommo sacerdote Giosuè, ritto davanti all'angelo del Signore... Giosuè infatti era rivestito di vesti immonde e stava in piedi davanti all'angelo del Signore, il quale prese a dire a coloro che gli stavano intorno: «Toglietegli quelle vesti immonde». Poi disse a Giosuè: «Ecco, io ti tolgo di dosso il peccato; fatti rivestire di abiti da festa». Poi soggiunse: «Mettetegli sul capo un diadema mondo». E gli misero un diadema mondo sul capo, lo rivestirono di candide vesti alla presenza dell'angelo del Signore. Poi l'angelo del Signore dichiarò a Giosuè: «Dice il Signore degli eserciti: Se camminerai nelle mie vie e osserverai le mie leggi, tu avrai il governo della mia casa, sarai il custode dei miei atri e ti darò accesso fra questi che stanno qui. Ascolta, dunque, Giosuè sommo sacerdote... rimuoverò in un sol giorno l'iniquità da questo paese. In quel giorno... ogni uomo inviterà il suo vicino sotto la sua vite e sotto il suo fico».

Quando ho letto il racconto del figlio prodigo con in mente questa visione di Zaccaria, la parola «presto», con cui il padre esorta i servi a portare al figlio il vestito più bello, l'anello e i calzari, esprime molto più che un'impazienza umana. Rivela l'ansia divina di inaugurare il nuovo Regno che è stato preparato dall'inizio dei tempi.

Non c'è dubbio che il padre voglia una festa prodiga. L'uccisione del vitello fatto ingrassare per una occasione speciale, mostra quanto il padre intendesse abbandonarsi, senza remore, all'ondata dei suoi sentimenti e offrire al figlio una festa come mai era stata celebrata prima. La sua gioia esuberante è evidente. Dopo aver ordinato di preparare ogni cosa, esclama: «Facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» e subito cominciarono a far festa. C'è cibo in abbondanza, musica e danze e i lieti rumori della festa si possono udire molto lontano da casa.

Un invito alla gioia.

Mi rendo conto di non essere abituato all'immagine di Dio che dà una grande festa. Sembra contraddire la solennità e la serietà che gli ho sempre attribuite. Ma quando penso ai modi con cui Gesù descrive il Regno di Dio, un banchetto gioioso ne costituisce spesso il centro. Gesù dice: «Molti verranno dall'oriente e dall'occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel Regno dei Cieli». E paragona il Regno dei Cieli a un banchetto di nozze offerto da un re per suo figlio. I servi del re vanno a chiamare gli invitati con le parole: «Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e i miei animali ingrassati sono già macellati e tutto è pronto; venite alle nozze». Ma molti non se ne curano. Sono troppo presi dai loro affari. Proprio come nella parabola del figlio prodigo, Gesù esprime qui il grande desiderio di suo Padre di offrire ai propri figli un banchetto e la sua impazienza di celebrarlo, anche se coloro che sono invitati si rifiutano di venire. Questo invito al banchetto è un invito all'intimità con Dio. Ciò è chiaro specialmente all'Ultima Cena, poco prima della morte di Gesù. In quell'occasione, egli dice ai discepoli: «Io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio». E, alla fine del Nuovo Testamento, la vittoria finale di Dio è descritta come uno splendido banchetto di nozze: «... Ha preso possesso del suo regno il Signore, il nostro Dio, l'Onnipotente. Rallegriamoci ed esultiamo, rendiamo a lui gloria, perché sono giunte le nozze dell'Agnello... Beati gli invitati al banchetto delle nozze dell'Agnello!».

I festeggiamenti appartengono al Regno di Dio. Dio non solo offre perdono, riconciliazione e guarigione, ma vuole elevare questi doni a fonte di gioia per tutti coloro che li testimoniano. In tutte e tre le parabole che Gesù racconta per spiegare perché egli mangi con i peccatori, Dio gioisce e invita gli altri a gioire con lui. «Rallegratevi con me», dice il pastore, «perché ho trovato la mia pecora che era perduta». «Rallegratevi con me», dice la donna, «perché ho ritrovato la dramma che avevo perduto». «Facciamo festa», dice il padre, «perché questo mio figlio era perduto ed è stato ritrovato».

Tutte queste voci sono le voci di Dio. Dio non vuole tenersi la gioia per sé. Vuole che tutti vi partecipino. La gioia di Dio è la gioia dei suoi angeli e dei suoi santi; è la gioia di tutti coloro che appartengono al Regno.

Rembrandt dipinge il momento del ritorno del figlio minore. Il figlio maggiore e gli altri tre membri della famiglia del padre mantengono le distanze. Capiranno la gioia del padre? Si lasceranno abbracciare dal padre? E io? Avranno il coraggio di mettersi alle spalle le loro recriminazioni e partecipare ai festeggiamenti? E io?

Di quel che accade posso vedere soltanto una scena, mentre quello che avverrà dopo lo devo indovinare. Ripeto: E loro? E io? So che il padre vuole che tutti quelli che lo circondano ammirino i nuovi abiti del figlio che è tornato, che si uniscano a lui intorno alla mensa, che mangino e danzino con lui. Non è una faccenda privata. È qualcosa che tutti in famiglia devono celebrare con gratitudine.

Ripeto di nuovo: E loro? E io? E una domanda importante perché riguarda - per quanto possa sembrare strano - la mia riluttanza a vivere una vita gioiosa.

Dio si rallegra. Non perché i problemi del mondo sono stati risolti, non perché tutto il dolore e la sofferenza umani sono giunti alla fine, e nemmeno perché migliaia di persone si sono convertite e ora lo stanno lodando per la sua bontà. No, Dio si rallegra perché uno dei suoi figli che era perduto è stato ritrovato. Ciò a cui sono chiamato è partecipare a quella gioia. E la gioia di Dio, non la gioia che offre il mondo. E la gioia di vedere un figlio che cammina verso casa in mezzo a tutte le distruzioni, le devastazioni e l'angoscia del mondo. È una gioia nascosta, quasi invisibile come il suonatore di flauto che Rembrandt ha dipinto sul muro sopra la testa dell'osservatore seduto.

Non sono abituato a rallegrarmi delle piccole cose, nascoste e poco notate dalla gente intorno a me. Sono generalmente pronto e preparato a ricevere cattive notizie, a leggere di guerre, violenze e crimini e a essere testimone di conflitti e disordini. Mi aspetto sempre che i miei visitatori parlino dei loro problemi e del loro dolore, delle loro sconfitte e delle loro delusioni, delle loro depressioni e della loro angoscia. In qualche modo mi sono abituato a vivere con la tristezza, e così non ho più occhi per vedere la gioia e non ho più orecchie per sentire la contentezza che appartengono a Dio e che vanno scoperte negli angoli nascosti del mondo.

Ho un amico così profondamente unito a Dio che riesce a vedere gioia dove io mi aspetto solo tristezza. Viaggia molto e incontra un'infinità di persone. Quando torna a casa, mi aspetto sempre che mi racconti della difficile situazione economica dei paesi che ha visitato, delle grandi ingiustizie di cui ha sentito parlare e del dolore che ha visto. Ma, anche se è molto informato dei grandi sconvolgimenti del mondo, raramente ne parla. Quando comunica le sue esperienze, parla delle gioie nascoste che ha scoperto. Parla di un uomo, di una donna o di un bambino che gli hanno portato speranza e pace. Parla di piccoli gruppi di persone che sono fedeli e leali tra loro, in mezzo a tutta la confusione del mondo. Parla delle piccole meraviglie di Dio. A volte mi accorgo di essere deluso perché voglio sentire "notizie da prima pagina", storie emozionanti ed eccitanti di cui poi parlare tra amici. Ma lui non risponde mai al mio bisogno di sensazionalismo. Continua a dire: «Ho visto cose molto piccole e molto belle, qualcosa che mi ha dato tanta gioia».

Il padre del figlio prodigo si abbandona totalmente alla gioia che il figlio ritrovato gli procura. Devo trarre qualche lezione da tutto questo. Devo imparare a "rubare" tutta la gioia vera che è possibile afferrare e porla ben in vista perché gli altri la vedano. Sì, lo so che non tutti ancora si sono convertiti, che non c'è ancora pace nel mondo intero, che ancora non è stato eliminato tutto il dolore, ma tuttavia vedo persone che cambiano e tornano a casa; sento voci che pregano, noto momenti di perdono e assisto a molti segni di speranza. Non devo aspettare che tutto vada bene, ma posso festeggiare ogni piccolo indizio del Regno che sia a portata di mano.

Questa è una vera disciplina. Richiede di optare per la luce anche quando molte sono le tenebre che mi spaventano, optare per la vita anche quando le forze della morte sono tanto visibili, e optare per la verità anche quando sono circondato da menzogne. Sono così portato a lasciarmi impressionare dalla naturale tristezza della condizione umana da non riuscire più a testimoniare la gioia che si manifesta in tanti modi modesti, ma molto concreti. Il premio per chi sceglie la gioia è la gioia stessa. Vivere con i disabili mentali mi ha convinto di questo. C'è tanto rifiuto, dolore e fragilità tra noi, ma una volta che si sceglie di affermare la gioia nascosta in mezzo a tutta la sofferenza, la vita diventa una festa. La gioia non nega mai la tristezza, ma la trasforma in terreno fertile per una gioia maggiore.

Sicuramente sarò considerato un ingenuo, un uomo non realista e sentimentale, e sarò accusato di ignorare i "veri" problemi, i mali strutturali che stanno alla base di molta miseria umana. Ma Dio gioisce quando un peccatore pentito ritorna. Statisticamente non è molto rilevante. Ma sembra che a Dio i numeri non interessino mai. Chissà che il mondo non sia salvato dalla distruzione grazie a una, due o tre persone che hanno continuato a pregare mentre il resto dell'umanità ha perso la speranza e si è lasciata andare!

Dalla prospettiva di Dio, un atto nascosto di pentimento, un piccolo gesto di amore disinteressato, un momento di vero perdono, sono tutto ciò che è necessario perché dal suo trono corra incontro al figlio che ritorna e i cieli si riempiano di suoni di gioia divina.

Non senza dolore.

Se questa è la via di Dio, allora vengo sfidato ad abbandonare tutte le voci di condanna e disapprovazione che mi portano alla depressione e a consentire invece che le "piccole" gioie rivelino la verità del mondo in cui vivo. Quando Gesù parla del mondo, lo fa in termini molto realistici. Parla di guerre e rivoluzioni, terremoti, peste e carestie, persecuzione e incarceramenti, tradimento, odio e assassini. Non c'è alcun indizio che questi segni delle tenebre del mondo scompariranno per sempre. Tuttavia la gioia di Dio può essere nostra anche in mezzo ad esse. E la gioia di appartenere alla famiglia di Dio, il cui amore è più forte della morte e che ci permette di essere nel mondo quando già apparteniamo al regno della gioia.

Questo è il segreto della gioia dei santi. Da sant'Antonio del deserto, a san Francesco d'Assisi, a Frère Roger Schultz di Taizé, a Madre Teresa di Calcutta, la gioia è stata il segno degli uomini e delle donne di Dio.

Tale gioia si può scorgere sui volti di tante persone semplici, povere e spesso sofferenti che vivono oggi in mezzo a grandi sconvolgimenti economici e sociali, ma che possono già sentire la musica e le danze della casa del Padre. Io stesso ogni giorno vedo questa gioia sui volti degli handicappati mentali della mia comunità. Tutti questi uomini e donne santi, siano vissuti in altre epoche o appartengano al nostro tempo, sanno riconoscere i tanti piccoli ritorni che hanno luogo ogni giorno e si rallegrano con il Padre. In qualche modo hanno penetrato il significato della vera gioia.

Per me è sorprendente sperimentare quotidianamente la differenza radicale tra cinismo e gioia. I cinici cercano le tenebre ovunque vadano. Indicano sempre pericoli imminenti, motivi disonesti e macchinazioni nascoste. Definiscono ingenua la fiducia, romantiche le premure e sentimentalistico il perdono. Beffeggiano l'entusiasmo, ridicolizzano il fervore spirituale e disprezzano l'atteggiamento carismatico. Si considerano uomini coi piedi per terra, che vedono la realtà per quello che è veramente e non si lasciano ingannare da "emozioni fuorvianti". Ma sminuendo la gioia di Dio, la loro oscurità è causa di altra oscurità.

Coloro che sono riusciti ad assaporare la gioia di Dio non negano le tenebre, ma scelgono di non vivere in esse. Affermano che della luce che splende nell'oscurità ci si può fidare più che dell'oscurità stessa e che pochissima luce può disperdere molta oscurità. Si indicano a vicenda lampi di luce qui e là, e si rammentanoa vicenda che essi rivelano la presenza nascosta ma reale di Dio. Scoprono che esistono persone che si guariscono le ferite reciprocamente, si perdonano le offese, condividono i loro beni, promuovono lo spirito di comunità, festeggiano i doni che hanno ricevuto e vivono nella costante anticipazione della piena manifestazione della gloria di Dio.

Ogni momento di ciascun giorno ho la possibilità di scegliere tra cinismo e gioia. Ogni mio pensiero può essere cinico o gioioso. Ogni parola che pronuncio può essere cinica o gioiosa. Ogni azione può essere cinica o gioiosa. Sono sempre più consapevole di tutte queste possibili scelte e scopro sempre più che ogni scelta a favore della gioia rivela a sua volta un di più di gioia e offre una ragione ulteriore per fare della vita una vera festa nella casa del Padre.

Gesù ha vissuto appieno questa gioia della casa del Padre. In lui possiamo vedere la gioia del Padre. «Tutto quello che il Padre possiede è mio», dice, compresa la gioia illimitata di Dio. Questa gioia divina non annulla il dolore divino. Nel nostro mondo, gioia e dolore si escludono a vicenda. Quaggiù, gioia significa assenza di dolore e dolore assenza di gioia. Ma distinzioni del genere non esistono in Dio. Gesù, il Figlio di Dio, è l'uomo delle sofferenze, ma anche l'uomo della gioia completa. Un barlume di questa verità lo possiamo cogliere quando constatiamo che nel momento della sua maggiore sofferenza, Gesù non è mai separato dal Padre. La sua unione con Dio non viene mai meno, nemmeno quando "si sente" abbandonato da Dio. La gioia di Dio appartiene alla sua condizione di figlio, e questa gioia di Gesù e del Padre suo viene offerta a me. Gesù vuole che io abbia l'identica gioia che lui stesso gode: «Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena». Come figlio di Dio che è ritornato e vive nella casa del Padre, sta a me affermare la gioia di Dio. Raramente c'è un minuto nella mia vita in cui non sia tentato dalla tristezza, dalla malinconia, dal cinismo, dall'umor nero, da pensieri cupi, da riflessioni morbose e da ondate di depressione. E spesso consento loro di soffocare la gioia presente nella casa di mio Padre. Ma quando credo veramente di essere già ritornato e che mio Padre mi ha già vestito con mantello, anello e calzari, posso rimuovere dal mio cuore la maschera della tristezza, scacciare la menzogna sul vero me stesso e affermare quindi la verità con la libertà interiore del figlio di Dio.

Ma c'è di più. Un figlio non rimane un bambino. Un figlio diventa un adulto. Un adulto diventa padre e madre. Quando il figlio prodigo torna a casa, torna non per rimanere un bambino, ma per affermare la sua condizione di figlio e diventare lui stesso un padre. Come figlio di Dio che è ritornato ed è invitato a riprendere il proprio posto nella casa del Padre, la sfida ora, o meglio, la chiamata, è diventare io stesso il Padre. Sono intimorito da questa chiamata. Per lungo tempo ho vissuto con la convinzione che tornare alla casa di mio Padre fosse la chiamata definitiva. Mi ci è voluto molto lavoro spirituale per far si che il figlio maggiore e il figlio minore che sono in me tornassero indietro e ricevessero l'amore accogliente del Padre. Il fatto è che, sotto molti aspetti, sto ancora ritornando. Ma più arrivo vicino a casa, più si fa chiaro che esiste una chiamata che è al di là della chiamata a tornare. E la chiamata a diventare il Padre che accoglie a casa e chiede che si faccia festa. Avendo ricuperato la mia condizione di figlio, ora devo rivendicare la condizione di padre. Quando ho visto per la prima volta il Figlio prodigo di Rembrandt, non avrei mai immaginato che diventare il figlio pentito sarebbe stato soltanto un passo sulla via per diventare il padre che lo accoglie dandogli il benvenuto. Ora capisco che le mani che perdonano, consolano, guariscono e offrono un banchetto festoso devono diventare le mie mani. Diventare il Padre è dunque, per me, la sorprendente conclusione di queste riflessioni su Il ritorno del figlio prodigo di Rembrandt.

Henri. J.M. Nouwen.

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