Si entra in chiesa chiacchierando e si continua a farlo: prima della Messa la chiesa sembra un cantiere di lavoro e subito dopo il canto finale diventa una piazza. Cristo è realmente presente in chiesa, nel tabernacolo, nel segno del pane eucaristico, anche prima e dopo la celebrazione: che ne abbiamo fatto della sacralità del luogo dove si raduna l'assemblea attorno a questa Presenza?
del 18 giugno 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
           La festa del Corpus Domini, che celebra la presenza reale di Cristo nell'Eucaristia, è occasione per riflettere sul senso della partecipazione alla Messa. Recentemente ho letto alcune opere dell'allora Cardinale Ratzinger sulla liturgia.
          Le percorre un’idea di fondo: l'incontro con Cristo durante celebrazione. La stessa questione dell'orientamento dell'altare e dell'assemblea celebrante, alla quale Ratzinger dedicò alcune riflessioni che suscitarono una certa polemica, quasi che il futuro Papa indicasse la necessità di ritornare a celebrare con le spalle rivolte al popolo come prima del Vaticano II, nasce proprio dall'esigenza di affermare con forza quell’idea. La celebrazione liturgica non può essere considerata solo l’incontro conviviale della comunità cristiana: il riferimento fondamentale della comunità che celebra è il Risorto. Tutti gli attori della celebrazione liturgica sono perciò rivolti a Lui, a Lui guardano, verso di Lui camminano, in forza della Sua presenza si incontrano, grazie a Lui fanno comunione.           Queste indicazioni sul significato profondo della liturgia che spesso Benedetto XVI ripete possono invitare le nostre comunità ad affrontare con maggior impegno il tema del rapporto tra dimensione orizzontale e dimensione verticale nella celebrazione.
           Prima della riforma liturgica del Vaticano II nella liturgia prevaleva la dimensione verticale: il mistero dell'incontro con il Risorto. Va detto però che, vuoi per l'uso del latino, vuoi per la mancanza di una vera catechesi sulla liturgia (dipendente anche dalla povertà della teologia liturgica di allora), il senso del “mistero” era vissuto a volte con connotazioni quasi magiche, che si sovrapponevano all'incontro davvero personale con Cristo. Col Vaticano II la Chiesa ha recuperato la dimensione orizzontale dell'azione liturgica: l'incontro della comunità che celebra. Le nostre Messe domenicali sono momenti di festa gioiosi, dove la convivialità – lo scambio tra le differenti articolazioni della comunità – si può davvero toccare con mano. Questo aspetto è un arricchimento che il Concilio ha portato nella liturgia: tuttavia esso troppe volte cammina di pari passo con l'impoverimento della dimensione verticale. Tanto che, assistendo a certe celebrazioni, viene spontaneo domandarsi se l'assemblea liturgica abbia davvero coscienza di essere alla presenza di Dio: sa di essersi radunata a celebrare perché convocata da Dio, non solo per incontrare gli altri componenti della comunità, ma prima di tutto per incontrare il Risorto?
           Questa è una questione fondamentale delle liturgie oggi. Che si traduce in atteggiamenti. Un esempio è lo stacco radicale tra la celebrazione, il suo prima e il suo dopo. Si entra in chiesa chiacchierando e si continua a farlo: prima della Messa la chiesa sembra un cantiere di lavoro e subito dopo il canto finale diventa una piazza. Cristo è realmente presente in chiesa, nel tabernacolo, nel segno del pane eucaristico, anche prima e dopo la celebrazione: che ne abbiamo fatto della sacralità del luogo dove si raduna l’assemblea attorno a questa Presenza?           Per non parlare poi della “creatività” liturgica, che spesso diventa la giustificazione e il contenitore di insopportabili soggettivismi dei vari attori della liturgia. A volte c'è addiritura il rischio che qualche prete, faccia della Messa non il palcoscenico di Dio, ma il proprio, personalissimo palcoscenico, amplificando a dismisura i propri spazi (compreso quello dell'omelia), esasperando la propria presenza e vanificando in questo modo il ministero importante e delicato della presidenza della celebrazione liturgica.
           Ricordo con una certa angoscia alcune Messe ai campi estivi nei miei primi anni di sacerdozio dove c’era di tutto e di più. La sobrietà e la verità del rito venivano puntualmente violate dall’aggiunta di ritualismi artificiosi a dir poco banali, sceneggiate oltretutto malfatte. Già, perché l’idea era e spesso è ancora, che “partecipare” vuol dire fare a tutti i costi qualcosa… e via che si moltiplicano i gesti, le parole, gli oggetti che si sovrappongono al rito. “Partecipare”, nella celebrazione, significa anzitutto accogliere un dono, mettersi in ascolto, dire non le parole nostre, ma le parole di Dio e quelle che da secoli dice la comunità dei credenti.
Sandro Vigani
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