Ad Auschwitz sparavano ai bimbi per gioco...

Giornata della memoria. Alberto Sed: parlare ai ragazzi, la mia rivincita sul male. Per tanti anni sono stato in un silenzio assoluto e non ho parlato con nessuno: non ho parlato con mia figlia, non ho parlato con mia moglie. Tutto quello che avevo passato l'ho tenuto per me...

Ad Auschwitz sparavano ai bimbi per gioco...

 

Per anni ha taciuto sull’orrore vissuto ad Auschwitz, perché quel ricordo era insopportabile. Poi, incoraggiato da un giornalista ha deciso di raccontare nel libro “Sono stato un numero” il dolore della perdita della madre e delle sorelle, barbaramente uccise dai nazisti e le torture patite nei campi di concentramento. E’ la storia di Alberto Sed, 84 anni, ebreo romano. Oggi spende tutte le energie nel trasmettere ai ragazzi nelle scuole quanto da lui vissuto. In occasione dell'odierna Giornata della memoria, Paolo Ondarza lo ha incontrato per raccogliere la sua straordinaria testimonianza:

 

R. – Per tanti anni sono stato in un silenzio assoluto e non ho parlato con nessuno: non ho parlato con mia figlia, non ho parlato con mia moglie. Tutto quello che avevo passato l’ho tenuto per me.

 

D. – Lei, ad un certo punto, sollecitato dall’invito di un giornalista, direttore della rivista “Il Carabiniere”, ha deciso di raccontare l’orrore che ha vissuto in un libro, a partire dal suo ingresso nel campo della morte di Birkenau, insieme a sua madre e alle sue sorelle...

 

R. – Quando sono arrivato lì mi hanno diviso da mia sorella, mi hanno tagliato i capelli, mi hanno spogliato di tutto e mi hanno dato un numero al braccio: 5491.

 

D. – Quando ha realizzato realmente dov’era finito?

 

R. – La mattina, quando sono andato a lavorare, non capivo. Dicevo: “Ci hanno portato in Germania per lavorare?”. Sentendo, però, due francesi che parlavano, ho chiesto loro: “Che si fa qui?” E loro: “Sei venuto ieri? Sei venuto da solo?” Ed io: “No, sono venuto con mia madre e mia sorella”; “Sono in grado di lavorare?”. “Lavorare? Bisogna vedere di che lavoro si tratta… Mia madre è una brava cuoca e mia sorella è specializzata nel ricamo”, e loro: “Sì, abbiamo capito, ma vedi quel fuoco lì? Sai cos’è?” “Certo, che lo so – rispondo io - sono i camini che riscaldano le baracche, perché fa freddo”. “Hai indovinato, ma sai con cosa le hanno riscaldate? Con tua madre e tua sorella. Qui devi pensare solo a te stesso, perché anche volendo amare gli altri non lo potrai fare, non te lo permetteranno, se lo farai ti riempiranno di botte e ammazzeranno prima te e poi loro. Adesso ti diciamo cosa succede qui dentro. Vedi quelli con le fasce sul braccio? Sono i capi. Qualunque cosa ti dicano, fallo senza reclamare, perché se dici ‘no’ ti riempiranno di botte e, non potendo più lavorare, andrai a finire subito nei forni crematori. Hai visto i cani? Soprattutto la domenica li vedrai più spesso, perché scommettono su chi è più veloce ad uccidere le persone. In cinque minuti ti fanno a pezzi. Non passare vicino ai reticolati dell’alta tensione, perché i nazisti lanciano i cani contro di te, per vedere chi è più veloce nello spingerti contro i reticolati e farti morire. Inoltre non guardare mai i nazisti in faccia, perché pensano che tu li voglia sfidare. Devi evitare di prendere le botte, perché come prendi le botte sei finito”.

 

D. – Perché chi veniva pestato era messo nelle condizioni di non poter più lavorare?

 

R. – Certo, non ci riusciva più. Te ne davano tante e tutti i giorni era così. Quella era la selezione quotidiana. Viene il tedesco che guarda chi è in grado di lavorare e chi può andare ai forni crematori. Ti dà una spinta: se barcolli e vai per terra, vai a finire nei forni crematori.

 

D. – Nel campo lei ha poi saputo della tragica fine di sua madre e sua sorella: nei forni crematori; ha anche saputo di un’altra sorella sbranata dai cani sotto gli occhi divertiti dei nazisti e di un’altra ancora: sopravvissuta ai crudeli esperimenti dei nazisti. Per quanto riguarda lei, nel lager sopportò tanto dolore tra faticosi lavori e mansioni terribili come alloggiare i bambini che arrivavano al campo sui carretti che li avrebbero condotti nei forni crematori...

 

R. – Quando mi hanno mandato ai trasporti, ero addetto a selezionare le persone. Dovevo togliere i bambini dalle braccia delle loro madri: tutti i bambini che non sapevano camminare, e portarli sul carrettino. Tutti insieme finivano poi nei forni crematori dove venivano uccisi. Ad un mio compagno di prigionia addetto alla stessa mansione che si trovava in fila davanti a me, un nazista con una pistola in mano ha chiesto di tirare in aria un bambino. Lui inizialmente si è rifiutato, poi il soldato gli ha intimato: “Hai capito quello che ti ho detto? Ti ho detto di tirarlo in aria; se non lo vuoi fare tu, lo farà il compagno dietro di te”. Lui ha preso il bambino, l’ha lanciato per aria, e i soldati hanno fatto il tiro a segno con la pistola contro quell’innocente. Mi è rimasto talmente impresso che quando è nata mia figlia e mia moglie mi diceva: “vieni prendila in braccio” e io inventavo sempre qualche scusa per non prenderla, perché ero ossessionato da quel ricordo.

 

D. – Il sadismo dei nazisti vi costringeva a partecipare alla morte di vittime innocenti...

 

R. – Un tedesco a una madre che aveva un bambino in braccio che piangeva ha detto: “Fate stare zitto questo ragazzino: mi dà fastidio!” La donna non sapeva nemmeno cosa le stesse dicendo. Chissà di che nazionalità era: ungherese, polacca...? Non so. Il bambino le fu ucciso in braccio con un cazzotto in viso.

 

D. – Lei era di costituzione robusta, questo l’ha salvata. Per avere più cibo – e stiamo parlando di qualche buccia di patate o di mele, ma la fame era insopportabile – lei accettò anche di fare il pugile negli incontri domenicali tra i prigionieri del lager, che servivano ad intrattenere gli aguzzini, ad intrattenere i gerarchi...

 

R. – Scommettevano denaro. Venivano gli addetti ai trasporti, che erano robusti, erano grossi di costituzione e scommettevano soldi su chi potesse vincere negli incontri di pugilato.

 

D. – Insomma eravate costretti anche ad intrattenerli i nazisti...

 

R. – Eravamo obbligati e non potevamo mettere bocca su niente. Ho visto per esempio un prete, finito nel campo per aver fatto scappare dei partigiani. Un giorno, non so come, si mise la veste per celebrare la Messa. I tedeschi se ne accorsero e gli dissero: “Vuoi dire la Messa? Vieni con noi a dire la Messa!” Avevano una specie di piscina e ce lo buttarono dentro, dopo averlo riempito di calci. Lui cercava di aggrapparsi al bordo della vasca, disperato, per salvarsi. Loro lo rispingevano dentro: lo abbiamo visto morire, con la disperazione in volto. Non lo dimenticherò mai quel viso: sa quando sono riuscito ad entrare in una piscina? Dopo 20-25 anni, per giocare con una mia nipotina. Per tanti anni, però, non appena pensavo alla sola idea di piscina, ero terrorizzato.

 

D. – Come si riesce a tornare a vivere, dopo essere passati per questo inferno?

 

R. – Io ho avuto una grande soddisfazione dal mio libro e dall’incontro con i ragazzi nelle scuole. Per me era inimmaginabile che, trascorsi tanti anni fuori da Auschwitz, tutti questi ragazzi mi facessero vivere una "rivincita" su Auschwitz. Questa per me è una bellissima rivincita sul male. Sono quattro o cinque anni che sono affascinato, innamorato di tutti questi ragazzi, per le lettere che mi scrivono. I ragazzi recepiscono. Ho capito che attraverso il mio racconto di grande sofferenza per loro la vita è cambiata. Molti di loro, abituati a litigare per un telefonino – perché ne vorrebbero uno da cento invece che uno da cinquanta euro - si sono resi conto del valore della vita e che non è possibile litigare per delle sciocchezze.

 

 

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