Anoressia, figlia di una cultura malata

Forse fino ad alcuni anni fa si poteva accusare il mondo della moda come unico responsabile per la proposta di modelli di bellezza che spinge all'anoressia, ma oggi è evidente che il problema riguarda tutta la cultura...

Anoressia, figlia di una cultura malata

 

Ormai non serve più chiedere a psicologi e psichiatri, ma basta fare un giro tra amici e conoscenti per vedere quante sono le ragazze e ragazzine che oggi soffrono di anoressia. Il problema è dilagante e serve a poco, ormai, puntare il dito contro l’industria della moda. Da sempre, il modello di bellezza femminile è stato il tuttocurve, e ancora negli anni Cinquanta l’esempio perfetto era il 90-60-90 (vedi, da noi, Sofia Loren, Gina Lollobrigida, Silvana Pampanini, Moira Orfei).

Poi venne Twiggy, e da allora la mannequin “malata”, tutta gambe, ossa e occhi, piatta come un asse da stiro, è stata proposta da stilisti a cui, in genere, date le personali preferenze, delle donne-donne non importa granché. Così, anche l’età per sfilare sulle passerelle con sotto-il-vestito-niente è calata fino ai dodici-tredici anni, l’età in cui le esili sono se possibile ancora più esili.

Fino agli anni Cinquanta, tuttavia, gli uomini non sceglievano fac-simili di attrici e di modelle per mogli, basta guardare le foto di nozze di quegli anni. Il clima culturale era un altro e si veniva attratti dalla brava donna, non dal fashion. E, poiché la rivoluzione sessuale era di là da venire, non c’era che un modo per avere una vita sessuale: sposarsi. Ma il matrimonio, allora, era pure indissolubile. Da qui la preferenza per la «brava ragazza», la cui bellezza era un accessorio sì gradito ma secondario.

 

Oggi, una ragazza deve essere bella, e pure seducente, altrimenti è tagliata fuori dalla vita sociale. Da qui l’ansia delle adolescenti, in un momento della vita in cui la personalità è ancora in fieri e, dunque, fragile. Inutile puntare il dito contro l’haute couture, perché è, al contrario, la moda di massa a far problema. Magliette aderenti, girovita scoperto, leggys, hot pants, sono tutti capi pensati per chi ha un fisico perfetto. Chi non ce l’ha, deve supplire con una personalità adeguata, forte abbastanza per una vera indipendenza e, perciò, per un vero anticonformismo.

È chi non ha nemmeno questa a soccombere. Ma la personalità è come il coraggio di don Abbondio: se non l’hai, non te lo puoi certo dare. Il modello di donna che viene proposto oggi (e non solo dalla moda o dal cinema ma da tutto quel che si respira) è intraprendente, affascinante, in carriera, vincente, spregiudicato. Per forza di cose, raggiungibile solo da una minoranza. Perciò servono a poco le campagne come quella lanciata nel 2011 dal mensile «Vogue Italia», sul cui sito si stigmatizzavano le modelle pelle&ossa. Il mensile stesso, infatti, non può fare a mano di utilizzare foto di donne bellissime e slanciate che, sia pure non ai limiti dell’anoressia, hanno però gambe perfette e seno proporzionato, oltre, naturalmente, al viso maliardo.

Il fotografo israeliano Adi Barkan, agente di top model, è riuscito a far approvare al suo governo una legge che vieta alle donne con meno di un tasso prefissato di massa corporea di sfilare e di essere utilizzate per campagne pubblicitarie. Ma il problema non è risolvibile a colpi di decreto parlamentare. Leggo sull’agenzia Zenit.org (1 giugno 2014) che la ex modella Elisa d’Ospina ha scritto un libro, Una vita tutta curve, nel quale invita ogni donna ad accettarsi così com’è. Eh, si fa presto a dire. Ma nessuno è un’isola e la pressione, oggi, è per molti veramente insopportabile.

 

Qualche articolo fa mi scandalizzavo perché gli americani si scandalizzano di Belle Knox, la diciottenne che gira film porno per pagarsi l’università. Noi italiani siamo più avanti di loro, visto che le pornostar le abbiamo elette deputate almeno vent’anni fa. Mi si permetta un aneddoto personale. Or non è molto, venni invitato da Gad Lerner nel suo talkshow su La7. Tema: il sesso. A rappresentare la posizione cattolica eravamo io e Marina Corradi di Avvenire. Ma venimmo dislocati in terza fila e privi di microfono al bavero. Cioè, potevamo dire la nostra solo quando il conduttore ci avvicinava il suo, di microfono, restando inteso che poteva togliercelo in qualsiasi momento. Poiché si era in diretta, ci accorgemmo dello svantaggio a riflettori ormai accesi.

Al centro della puntata, e della scena, c’era una pornostar francese che aveva scritto un libro sulle sue esperienze. Fu vezzeggiata e adulata per tutto il tempo, anche dagli altri ospiti microfonati (tra cui la docente di filosofia Roberta Monticelli), mentre il dissenso (cioè, io e la Corradi) finì col fare la parte della reazione bigotta, tant’è che d’accordo con noi c’erano solo due imam islamici in videoconferenza. Ricordo anche che, prima della trasmissione, avevo chiesto al conduttore se si poteva mostrare alla telecamera la copertina del mio ultimo libro, ma mi fu risposto che sarebbe stato di cattivo gusto. Con ogni evidenza, di ottimo gusto era il libro della pornostar.

Ebbene, con questi messaggi che ci avvolgono le ventiquattr’ore, appare del tutto inadeguato un intervento legislativo teso a difendere le adolescenti dal «cattivo esempio» offerto dal mondo della moda. La moda non c’entra. Meglio: non c’entra più (anche se continua a celebrare come bellezza del Terzo Millennio una modella inglese quarantenne, strabica e cocainomane). Ormai il vaso di pandora è aperto, e potenti quanto incontrollabili forze ne impediscono la chiusura.

 

 

Rino Cammilleri

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