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Apparizioni mariane: Guadalupe (1531) - Parte III

A un popolo abituato a comunicare attraverso segni pittografici, Maria di Guadalupe manda un'immagine molto chiara. La tela sulla quale l'immagine è rimasta impressa misura centimetri 170 per 104 ed è tessuta con fibre di maguey. Non ci sono segni di rotture o riparazioni. E' straordinario che sia potuta conservarsi fino ad oggi (normalmente ha una durata di trentaquarant'anni).


Apparizioni mariane: Guadalupe (1531) - Parte III

Contenuto antropologico

La Vergine sceglie come suo interlocutore un "povero indio". L'indio nell'evento guadalupano è un personaggio di spicco rispetto agli altri: la Vergine infatti prima si manifesta a lui, e solo in seguito al vescovo. Anche il momento scelto è significativo: al versetto i del Nican Mopohua si legge: «Dieci anni dopo la caduta di Città di Messico furono deposte le frecce e gli scudi». Abbiamo già visto che, per gli aztechi, la guerra era espressione della loro cultura: dopo aver vissuto come nomadi, divennero un popolo proprio combattendo. Per loro la guerra aveva dimensioni sociali (guerra sociale) e religiose guerra florida in primavera: aveva il valore di guerra sacra, di mandato divino). Per questo la fine della guerra aveva un grave significato: implicava che giungeva alla fine la "nostra società, la nostra nazione". Il Nican Mopohua insiste più avanti, di nuovo, sul fatto che Juan Diego era "un povero indio": il senso dell'affermazione risulta chiaro se si tien conto di un dato grammaticale, cioè che per gli aztechi le realtà più importanti si esprimono con due parole ("difrasismo") oppure con una parola ripetuta. A lui, all'indio, è dato di cogliere la verità, di cogliere l'evento divino come "vero" attraverso il canto e i fiori.

La dignità dell'indio è sottolineata dal nome con cui la Vergine lo chiama: «Juantzin», «Juandiegotzin», parole normalmente tradotte con Juanito, Juandieguito. Però in nahuatl la desinenza -tzin è anche indice di riverenza e di rispetto. La Vergine si rivolge al povero indio come a una persona, a un uomo: per questo gli si mostra in piedi. I nobili dominatori, sia aztechi sia maya sia spagnoli, ricevevano gli inferiori seduti. Quindi la nobiltà che Juan Diego vede nella Signora non ha un carattere dominatore. L'indio riconosce in lei una certa superiorità, però la esprime in un modo estremamente familiare e dolce, chiamandola: «Nina mia» In un clima di rispetto e di gentilezza si svolge il colloquio tra il "più piccolo dei suoi figli" - espressione che pure allude alla condizione di emarginazione in cui si trova l'indigeno - e la Vergine: vale a dire con la cordialità tipica della lingua nahuatl. Il povero è dunque il testimone dell'evento guadalupano, ne è il mediatore: la Vergine chiede l'appoggio di Juan Diego. Dopo il fallimento del primo tentativo, Juan Diego s'inginocchia ai piedi del vescovo e piangendo gli ripete il messaggio della Madonna. Nonostante tutto, il povero indio spera contro ogni speranza, nel corso di questo dialogo reso difficile dall'incredulità di Zumàrraga.

Nel momento cruciale della missione di Juan Diego - quando avrebbe dovuto chiedere alla Vergine un segno - s'innesta la malattia dello zio: è un avvenimento decisivo per la comprensione dell'evento. Per gli aztechi e i mesoamericani in genere, lo zio aveva un ruolo sociale d'importanza capitale: "zio" era la massima espressione di rispetto che si potesse rivolgere ad un adulto. Era la chiave per comprendere la contrada e il popolo. La gravità della malattia dello zio è il simbolo di qualcosa di distruttivo all'interno dell'organizzazione sociale. La malattia infettiva di cui sta morendo lo zio è stata importata dagli spagnoli ed è sconosciuta ai nahua: riassume quindi in sè tutte le calamità e le afflizioni che pesano sul popolo oppresso. Proprio sulla malattia dello zio agirà santa Maria di Guadalupe, attenta alle necessità del povero, di cui è madre: lo tiene "sotto la sua ombra". La guarigione dello zio è riscatto del popolo dalla morte. Con la salute ritrovata da parte di Juan Bernardino, si giunge all'apice dell'evento guadalupano che aveva avuto inizio con il canto: ora con i fiori la verità promessa dalla Vergine diventa un fatto. Anche in questo caso la Vergine richiede la partecipazione di Juan Diego: lui deve coglierli e farne un mazzo, lassù sulla cima del colle fino a quel momento arido, e poi portarli a lei. Sul Tepeyac - che è un altro mondo - domina ora la verità, che l'indio riesce a intendere. Nei fiori - e solo in seguito sulla tilma - rimarrà per sempre il simbolo dell'evento guadalupano: questo rivela la Vergine a Juan Diego, suo ambasciatore degno di fiducia. L'indio raccoglie felice i fiori nella tilma, sicuro di riuscire questa volta nell'intento di convincere il vescovo: se accetta i fiori, accetterà la verità guadalupana. Questa verità è gia parte di Juan Diego, nessuno potrà separarla da lui: per questo i servi del vescovo non potranno impadronirsi di un solo fiore. Sarà proprio di fronte ai fiori - prima ancora di vederli - che il vescovo si deciderà ad appoggiare il progetto sollecitato dal povero indio e gli darà credito, dopo aver visto l'immagine stampata sulla tilma, e vorrà che lui, l'indio, gli indichi il luogo dove la Madonna chiede che si edifichi il tempio. Ora tutti rispettano l'indio.

Ci sembra opportuno concludere con le considerazioni fatte recentemente dai vescovi messicani a proposito del contenuto antropologico dell'evento guadalupano: «L'indio è indotto a uno sforzo di superamento: a non lasciar ''passare'' la storia, ma ad approfittare del presente e a pensare al domani; a non vivere aspettando tutto dagli altri, ma a sforzarsi per ottenerlo con le sue forze; a non autoemarginarsi lasciando agli altri il lavoro e le responsabilità, ma ad essere l'artefice del proprio destino; a mettere da parte le vendette per impegnarsi, facendo leva sulla verità e sul diritto, a raggiungere il suo obiettivo».

Il simbolismo dell'immagine

A un popolo abituato a comunicare attraverso segni pittografici, santa Maria di Guadalupe manda un'immagine tanto chiara per gli indigeni, nella sua simbologia, quanto comprensibile per i missionari. La tela sulla quale l'immagine è rimasta impressa misura centimetri 170 per 104. È formata da due parti unite da una cucitura verticale effettuata con filo all'apparenza dello stesso materiale. Le sue dimensioni corrispondono a una tilma, o mantello, adatta a una persona di media statura di circa metri 1,70 di altezza, tessuta con fibre di maguey, come ancora oggi si usa in Messico. L'ayate, ossia la tilma indigena, era strettamente vincolato alla persona stessa, anzi la rappresentava. Non ci sono segni di rotture o riparazioni. È straordinario che sia potuta conservarsi fino ad oggi (normalmente ha una durata di trentaquarant'anni). Nel secolo XIX si sparse accidentalmente sopra l'estremo superiore destro dell'ayate una soluzione concentrata di acido nitrico, mentre alcuni operai stavano pulendo la cornice d'argento. La tela non andò distrutta e le macchie che ne risultarono stanno progressivamente scomparendo.

Nel 1923 un terrorista fece esplodere una bomba di fronte all'altare, a pochi metri dall'immagine: i candelabri di metallo situati vicino alla cornice si deformarono, ma la tilma non subì alcun danno. In sè l'immagine rappresenta la Vergine Immacolata o Assunta. Padre Miguel Sanchez, che fu il primo a descriverla, vede in essa la "donna" di cui si parla nell'Apocalisse: incinta, coronata di stelle. Sta in piedi sopra quella che appare una mezza luna, ma è in realtà una cometa, simbolo di Quetzalcoatl. Tiene la testa devotamente inclinata verso destra, con le mani giunte all'altezza della cintura. Ha un volto bellissimo, grave e nobile, un poco moreno. L'immagine è tutta illuminata dai raggi del sole. La Madonna indossa una tunica talare di color rosato con disegni in oro - soprattutto motivi floreali e in particolare fiori aztechi - che risaltano sopra il colore. Porta al collo, a mo' di spilla, una giada, simbolo della vita presso gli aztechi, al centro della quale compare una croce cristiana, ma può essere anche il quicunce, simbolo di Quetzalcoatl. Sotto la tunica colorata se ne nota una bianca. Il manto è celeste: le copre tutta la testa senza nascondere il volto, scendendo fino ai piedi. È tutto rifilato in oro ed è seminato di stelle. Tutta la figura è come sorretta da un angelo, che «sembra molto contento di condurre sulle sue ali la Regina del cielo».

e le macchie che ne risultarono stanno progressivamente scomparendo.

L'immagine non corrisponde allo stile della pittura europea del secolo XVI e, in essa, si possono identificare numerosi elementi che ricordano i codici indigeni. Uno studioso osserva che sicuramente la Signora viene dal cielo: i raggi del sole la circondano attraversando le nubi, le stelle adornano il suo manto e i suoi piedi poggiano su una cometa. Viene da oriente e pone in ordine il cosmo: diversamente non sarebbe possibile che gli astri appaiano uniti. Viene a porre termine alla lotta astrale immaginaria: la Vergine può mantenerli in perfetto equilibrio. I corpi celesti non sono dèi, ma creature sottomesse a un ordine superiore. Non muore il Quinto Sole azteco, ma la Vergine di Guadalupe annuncia un nuovo Sole di giustizia e santità: Cristo. Dalla posizione delle mani e dal capo inclinato, possiamo dedurre che la Vergine riverisce Qualcuno pi√π grande di lei. Il manto, simbolo del cielo e del potere, la copre completamente ed è dello stesso colore di quello che portavano i re aztechi (tlatoani). D'altra parte la Signora appartiene alla terra, come indica il colore della tunica: rosato come l'aurora nella Valle di Messico. L'abito è disseminato di fiori aztechi. Il Tepeyac, infatti, è ormai un luogo trasformato da arido e roccioso in verdeggiante e fiorito, grazie a un benefico influsso che viene dal cielo, rappresentato dal manto. La Vergine e madre, Regina del cielo e della terra, porta rispetto a un Essere superiore, al suo stesso Creatore, come ci è indicato dalla posizione delle mani e dal capo inclinato. Intorno alla famosissima immagine sono stati compiuti studi scientifici approfonditi, tra qui quello del Premio Nobel per la Chimica 1938, Richard Kuhn, che nel 1936, prendendo in esame alcuni fili del tessuto, analizzò la sua proprietà di essere resistente alla polvere: giunse alla conclusione che i colori dell'immagine non appartengono né al regno animale né a quello vegetale né a quello minerale. Dobbiamo comunque tener presente che alcuni elementi dell'immagine sono stati aggiunti o ritoccati, a partire dal secolo XVII. Anche scienziati della NASA si sono occupati dell'immagine utilizzando la fotografia a raggi infrarossi, molto utile per individuare eventuali ritocchi, e hanno formulato le loro ipotesi: 1. La figura originale comprende la tunica rosa, il manto azzurro, le mani, il volto e il piede destro. Di queste parti rimane inspiegabile il tipo di pigmenti cromatici utilizzati, così come il persistere della luminosità dei colori a più di 450 anni di distanza, tenuto conto anche delle condizioni in cui fu conservata l'immagine per più di un secolo, esposta all'umidità dell'angusta cappella, al fumo delle candele, nonché alla devozione dei fedeli, che potevano avvicinarsi, toccarla e baciarla. 2. La figura originale non accenna a scolorirsi né presenta screpolature in nessuna parte dell'ayate che, mancando di preparazione, dovrebbe essersi deteriorato da almeno cent'anni. Il fatto che l'ayate non sia stato trattato in alcun modo prima dell'uso, rende inspiegabile, alla luce delle attuali conoscenze scientifiche, che i coloranti si fissino e si conservino in una trama tanto inadeguata. Non s'incontrano tracce d'abbozzo: l'immagine risulta sconosciuta nella storia della pittura. E insolita, incomprensibile e irripetibile. 3. In seguito, forse già nel secolo XVI, mani umane apportarono le prime modifiche. Nel secolo XVII, dopo l'inondazione del 1629, l'immagine fu trasferita nella cattedrale di Città di Messico e si rese probabilmente necessario un restauro della parte inferiore della tilma per coprire la parte danneggiata dall'acqua o comunque annerita dall'accumularsi della polvere o dal fumo delle candele. Recentemente uno studioso, Rodrigo Franyutti, ha affermato, dopo aver esaminato alcune fotografie, che il volto è stato vistosamente ritoccato, reso più scuro e più duro nei lineamenti, tra il 1926 e il 1930. Non mancano comunque voci che si sono levate per affermare che l'immagine non ha subito alcuna modifica, come si legge in uno studio del 1945, in cui si ribadisce che la tecnica pittorica della Guadalupana non è comparabile a quella dei più grandi capolavori.

 

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