Presentiamo brevemente tre parole chiave che, se assunte e fatte proprie, ascoltandone il messaggio profondo e talvolta sconcertante, possono condurre verso la maturità dell'esperienza di fede. Qualcuno ha osservato che la vita spirituale ha una configurazione simile a quella del fiume Giordano, che impiega quasi 300 km per percorrerne 100, un percorso di ampie digressioni...
La crisi
Il percorso di ogni uomo entra prima o poi «nel mezzo del cammino di nostra vita», inteso come situazione di “mediocrità”, in cui si è perso l’entusiasmo iniziale, e anche alcune realtà a noi care: e così, nonostante anni di formazione e di scelte pur intraprese con convinzione da molto tempo, ci si trova con sorpresa stanchi e sfiduciati. La crisi coinvolge uomini e donne di tutte le appartenenze: religiosi, religiose, sposati/e, celibi, e ha ripercussioni nell’ambito professionale, apostolico, relazionale, incrinando, talvolta fino a spezzare, scelte di vita che si credevano ormai sicure e al riparo da pericoli.
La crisi può essere rappresentata come la venuta del Figlio dell’uomo, che giunge nel momento in cui meno lo si aspetta, forse proprio quando si grida ai quattro venti “pace e sicurezza” (1Ts 5,3). È il momento in cui si può perfino abbandonare la scelta fatta, un gesto che in taluni casi appare essere un vero “fulmine a ciel sereno” per confratelli o familiari che mai si sarebbero aspettati una tale svolta.
Talvolta si pensa che credere sia facile, che sia spontaneo procedere nel cammino spirituale e di consacrazione,cercando la volontà di Dio. Certo, si riconosce l’importanza di una “formazione permanente”, anche se per lo più ridotta a qualche ritiro, a corsi seguiti occasionalmente, a uno o più incontri di condivisione. Di fatto però si spera che il trascorrere del tempo risolverà ogni problema.
La Bibbia presenta una prospettiva ben diversa.
La crisi è un momento importante, che va atteso in maniera vigile: essa obbliga a compiere un salto di qualità nelle motivazioni di vita, percorrendo un lungo e tortuoso cammino. Qualcuno ha osservato che la vita spirituale ha una configurazione simile a quella del fiume Giordano, che impiega quasi 300 km per percorrerne 100, un percorso costellato da ampie digressioni a destra e a sinistra, talvolta esso scompare dalla vista, poi riappare da sottoterra per giungere finalmente alla meta.
E la meta è spesso la capacità di comprendere e accogliere debolezze e fragilità, proprie e altrui. Questa capacità “empatica” può essere praticata solo perché la si è precedentemente sperimentata sulla propria pelle, come viene mostrato dalla vicenda delle più importanti figure bibliche (Abramo, Mosè, Geremia, Pietro, Paolo…) e dalle vite dei santi.
L’umorismo
La crisi dell’età di mezzo rivendica un ritorno verso di sé, una presa di coscienza delle proprie fragilità di fondo, talvolta negate, o rimosse, o trasferite su altre cose, come il successo, l’attività, la professione, le scelte apostoliche, intellettuali, affettive. Questo momento di arresto è di per sé salutare, è un invito a fare verità e recuperare elementi finora disattesi della propria storia e del proprio essere; non per nulla, la personalità di tipo grandioso, indicata in psicologia con il termine di narcisista, ha più possibilità di trarre beneficio da un lavoro di accompagnamento e conoscenza di sé dopo i 40 anni di età, quando l’imponenza dei propri idoli, come nella visione di Daniele (cf 2,31-45), comincia a sgretolarsi e a segnare il passo.
Un aiuto potente a incrinare la corazza dell’autosufficienza, accogliendo il messaggio della crisi, è il senso dell’umorismo.
Contrariamente a una visione “seria e castigata” della vita religiosa, si può certamente sostenere che l’umorismo costituisca un elemento prezioso per una vita sana ed equilibrata anche dal punto di vista spirituale, perché ha molto a che fare con il gratuito, la creatività, l’intelligenza, tutte componenti indispensabili anche per il rapporto con Dio. Non è un caso che nella Bibbia vi siano stretti collegamenti con l’umorismo: si pensi ai libri sapienziali, al racconto, al proverbio, alla parabola, frutto di creatività e intelligenza, che osservano il mondo con atteggiamento divertito, anche un po’ folle, e tuttavia estremamente sano dal punto di vista dell’equilibrio interiore e della capacità di vivere relazioni vere e profonde. L’umorismo può diventare così un ingrediente prezioso per il cammino spirituale, aiutando a operare cambiamenti, a migliorarsi, ad apprezzare maggiormente la propria vita.
La Scrittura individua differenti modalità di «ridere», invitando a un discernimento anche su questo punto. L’umorismo si incarica anzitutto di smontare i maestosi progetti dell’empio, la seria dialettica del superbo, la pomposa grandezza piena d’aria del fariseo. Ridere, d’altra parte, può essere anche espressione di cattiveria, di mancanza di rispetto, di superficialità; è il riso dello stolto, che azzera tutto con sbrigatività, evitando di prendere sul serio l’annuncio di fede.
Nella Bibbia si trova però anche un altro tipo di umorismo, l’umorismo affabile e intelligente, che sa trovarsi a casa propria anche nei confronti del mondo e di Dio. Questo sguardo “simpatico” sulla vita nasce dalla consapevolezza della contingenza delle cose, espressa dallo stupore, che porta a non dare per scontata l’esistenza propria e degli altri. E lo stupore è un sentimento fondamentale alla base dell’umorismo, ma anche della sapienza, della filosofia e della religione: proprio perché non siamo Dio, possiamo guardare il mondo con bonarietà, e riconoscere un’Intelligenza più grande della nostra, più grande anche delle nostre paure.
Ridere di se stessi
Il senso dell’umorismo, a livello spirituale, può diventare anche un invito a penitenza, a guardarsi dal rischio, sempre tragico, di considerarsi indispensabili e troppo importanti per poter sorridere di ciò che capita nella vita: non a caso i dittatori mancano sempre del senso dell’umorismo, con conseguenze disastrose, proprio perché troppo pieni di se stessi.
In secondo luogo l’umorismo insegna a non dimenticarsi di Dio, a lasciarlo agire nella propria vita e soprattutto a non pretendere di mettersi al suo posto: questa come sappiamo è la radice di ogni peccato, di ogni male (cf Gen 3).
L’uomo spesso si erge a giudice dell’universo, come se volesse insegnare a Dio il Suo mestiere, ma così facendo ottiene come unico risultato di dimenticarsi di fare il proprio: quando si pretende di mettere a posto il mondo non ci si accorge più del vicino che ha bisogno di noi. Dio sa fare il proprio lavoro e non ha bisogno che l’uomo glielo spieghi: coloro che si pretendono consiglieri di Dio non godono di grande considerazione nella Bibbia, si pensi alla valutazione finale data agli amici di Giobbe (cf Gb 42,7-9). La conversione, frutto dell’umorismo biblico, è ricordare (cioè tenere nel cuore) che l’uomo non è l’educatore di Dio, ma che semmai è il contrario, ed è da questa presunzione che nascono i guai.
Affrontare la realtà con umorismo non è un modo di ignorare i problemi e le difficoltà, significa invece imparare a sdrammatizzarli, e questa è una condizione essenziale per affrontarli e superarli.
La Bibbia invita soprattutto il credente a saper ridere di se stesso, a non avere paura delle proprie debolezze e miserie, a non apparire migliore o peggiore di quello che è, per diventare libero, libero dal giudizio degli altri, dal vano orgoglio, che tanto fa soffrire e impedisce di sorridere delle proprie piccinerie, mettendosi un vestito troppo stretto che non consente di respirare. L’umorismo è un segno di libertà e di verità verso se stessi, perché si è consapevoli che la propria stima viene da un Altro.
L’amicizia
Questa consapevolezza nasce per lo più nel contesto di una relazione affettiva.
Per questo anche l’amicizia è una dimensione fondamentale della maturità di fede, perché mostra visibilmente la stima e l’affetto che Dio ha per ogni uomo (cf Sir 6,14-17). L’amicizia costituisce, insieme all’amore sponsale, il vertice dell’espressione affettiva della persona. Si tratta di un bene prezioso per tutti, perché introduce nella vita il colore delle relazioni; è anche una maniera di fare esperienza dell’amore di Dio, e insieme un possibile arricchimento e purificazione del proprio essere.
L’amore, l’amicizia, l’affetto, come per altri versi anche l’umorismo, presentano sempre una componente di umiltà, di riconoscimento della propria non autosufficienza, per vivere in pienezza, che è il punto di arrivo auspicato dalla crisi: occorre umiltà per riconoscere di avere bisogno dell’affetto di qualcuno per poter vivere bene.
L’amicizia può certamente essere vissuta in modo ambivalente, come tutte le realtà umane. Il rimedio a queste ambiguità non consiste tuttavia nella sua eliminazione, così come non sarebbe possibile eliminare gli affetti per raggiungere una vita più stabile e tranquilla; la freddezza, l’astio e la noncuranza, proprie di chi non ama nessuno, sono molto lontane dall’ideale evangelico. Amare comporta dei rischi, ma è il rischio di essere vivi.
L’amicizia, quando viene vissuta da persone che cercano il Signore, può diventare un aiuto prezioso anche per vivere i valori evangelici, perché non comporta chiusura ed isolamento nei confronti degli altri, ma al contrario diventa motivo di aiuto anche per loro. Essa ha infatti tra le sue caratteristiche di concretizzarsi in interessi e attività comuni, e ciò finisce per “contagiare” altre persone. Chi ha studiato l’amicizia nei suoi elementi peculiari, ha notato che essa non può essere esclusiva, proprio perché rivela un aspetto, di sé e dell’altro, differente per ogni amico; in questo senso la ricchezza delle relazioni aiuta a conoscersi, perché l’uomo è un essere relazionale: si può conoscere se stessi solo in rapporto ad un altro cui ci si rivela.
Segno di riconoscimento
L’amicizia è inoltre fondamentalmente caratterizzata dal non possesso: può essere vissuta solo all’insegna della gratuità, per questo è una radicale contestazione di una cultura, come l’odierno consumismo, improntata alla manipolazione per soddisfare i propri bisogni; le relazioni non possono essere inquadrate nella logica dell’avere.
Non è un caso che l’amicizia costituisca per Gesù il segno di riconoscimento del discepolo.
Più che della correttezza dottrinale o dell’osservanza delle norme, Gesù si è preoccupato anzitutto che i discepoli si amassero come lui li aveva amati: questo sarebbe stato l’annuncio più importante da dare al mondo (cf Gv 13,14). Emerge qui la grande differenza, a livello di efficacia apostolica, tra le tante proposte utopiche e ideologiche di tipo filosofico, politico e sociale, e un ambiente permeato da questo tipo di amicizia: «Sono i piccoli cenacoli di amici che voltano le spalle al mondo, quelli che realmente lo trasformano».
Queste considerazioni si rivelano ricche di applicazioni anche in campo vocazionale: piuttosto che preoccuparsi di elaborare complesse analisi e programmazioni, forse la prima priorità da tenere presente è che le comunità cristiane siano anzitutto comunità di amici nel Signore, in cui il Suo amore si rende visibile. Questo non mancherà di portare i suoi frutti, perché mostra nella quotidianità concreta la bellezza della vita cristiana, una vita degna di essere vissuta.
Giovanni Cucci
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