La tradizione cristiana ha definito prosoché, «attenzione», l'atteggiamento di «concentrazione», di «tensione interiore verso», di «fissazione della mente su»...Ma l'attenzione è realtà infinitamente più profonda. Essa è una lucida presenza a se stessi che diviene discernimento della presenza del Dio che è nell'uomo...
del 01 gennaio 2002
La tradizione cristiana ha definito prosoché, «attenzione», l’atteggiamento di «concentrazione», di «tensione interiore verso», di «fissazione della mente su». L’espressione (anche nel latino attentio e attendere) ha una connotazione dinamica per cui chi fa attenzione è colui che è teso verso qualcosa. In profondità essa non è l’atto di una particolare facoltà dell’uomo, ma un movimento dell’intero essere umano, corpo e spirito. Scoperto il senso, il centro, lo scopo di un’esistenza, l’attenzione è la condotta unificata dell’uomo alla luce di tale meta, è la dedizione profonda a tale centro. Crescere nella capacità di attenzione significa crescere nell’unificazione personale. Le discipline ascetiche e le tecniche di meditazione orientali conoscono bene l’attenzione: secondo il buddhismo è attraverso di essa che si può pervenire alla visione penetrativa della realtà, a quella che i Padri del deserto e la tradizione cristiana chiamano «dio rasi» (cioè visione profonda, al di là delle apparenze e delle esteriorità). Tuttavia, per il cristianesimo le radici della prosoché affondano nella dottrina ebraica della kawwanah, cioè dell’atteggiamento interiore di attenzione e vigilanza del cuore e dei sensi nella relazione con Dio, di adesione di tutto l’essere alle parole della preghiera e della Scrittura e soprattutto, attraverso di esse, alla presenza di Dio. Ecco perché nella tradizione cristiana l’attenzione sarà richiesta particolarmente nella celebrazione liturgica (opus Dei) e nella lettura biblica (lectio divina).
Ma l’attenzione è realtà infinitamente più profonda. Essa è una lucida presenza a se stessi che diviene discernimento della presenza del Dio che è nell’uomo. Scrive Basilio commentando il versetto biblico «Sii attento a te stesso» (Deuteronomio 15,9): «Sii attento a te stesso per essere attento a Dio». Questa attenzione diviene lotta contro i pensieri che dis-traggono l’uomo, che lo allontanano dal suo centro, diviene custodia del cuore: «L’attenzione è il silenzio ininterrotto del cuore da ogni pensiero» (Esichio di Batos). Vi è cioè un aspetto di lotta insito nell’attenzione: occorre vigilare sui pensieri che sorgono nel cuore, riconoscerli nella loro natura e origine, estirpare quelli che sono perniciosi e impedire che la suggestione diventi azione, cioè consumazione di peccato, grazie al dialogo, all’intrattenimento interiore con essa. L’attenzione opera così la purificazione del cuore e diviene preghiera. Giocando sull’assonanza fra prosoché (attenzione) e proseuché (preghiera) i Padri greci hanno mostrato i legami strettissimi fra le due realtà. «L’attenzione che cerca la preghiera troverà la preghiera: la preghiera infatti segue l’attenzione ed è a questa che occorre applicarsi» (Evagrio Pontico); «L’attenzione somma è propria della preghiera continua» (Esichio di Batos). In tempi più vicini a noi Simone Weil, riprendendo Malebranche, ha parlato dell’attenzione in termini di preghiera: «L’attenzione, al suo grado più elevato, è la medesima cosa della preghiera. Suppone la fede e l’amore. L’attenzione assolutamente pura è preghiera». È uno stato di veglia, di lucidità, che si oppone a tutte quelle inclinazioni dell’animo umano che tendono ad abbrutirlo, quali la pigrizia, la sonnolenza, la negligenza, la superficialità, la dispersione, il divertissement. Proprio per questo essa è estremamente difficile, a caro prezzo.
Sempre Simone Weil scrive: «C’è nella nostra anima qualcosa che rifugge dalla vera attenzione molto più violentemente di quanto alla carne ripugni la fatica». Nell’attenzione si opera uno spogliamento dell’«io»: l’«io» viene come calato nell’«oggetto» desiderato e assunto in lui. Anzi, nell’attenzione si può vedere che ciò che ci fa vivere in verità è ciò su cui fissiamo il desiderio, l’attesa, l’amore. L’attenzione rende presente l’atteso, il desiderato. Una parola di san Paolo rende chiaro cosa significhi tutto questo in termini cristiani: «Non sono io che vivo, ma è Cristo che vive in me. Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Galati 2,20).
Enzo Bianchi
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