Tale si figura Don Bosco chiunque lo studi attraverso le genuine manifestazioni della sua personalità.
del 14 dicembre 2011
Oggi, dir Oratori è menzionare un'istituzione tanto comune in Italia da sembrare che sia stata sempre così, né si sente il bisogno di cercare a chi se ne debba saper grado; ma il nome di Don Bosco va inscindibilmente congiunto con un Oratorio, con l'Oratorio per eccellenza, l'Oratorio di Valdocco.
Non senza misteriosi disegni provvidenziali è avvenuto che il centro propulsore delle opere di Don Bosco portasse un nome consacrato dall'uso a indicare luogo di orazione. Un luogo si denomina da ciò che ivi si fa di principale; se dunque un luogo di tanta azione si chiama luogo di orazione, questo vorrà dire che nelle opere di Don Bosco prima ci dev'essere l'orazione e poi l'azione. Ce lo confermano perentoriamente le parole stesse di Don Bosco.
Non mancarono infatti sul principio persone ben intenzionate, le quali trovarono a ridire circa l'opportunità di tante funzioni sacre e di tante pratiche divote, quante se n'erano ivi introdotte; ma Don Bosco a tutti chiudeva la bocca, rispondendo sempre a un modo: - Diedi il nome di Oratorio a questa casa per indicare chiaramente, come la preghiera sia la sola potenza, su cui dobbiamo fare assegnamento.
E la pietà nell'Oratorio si respirava con l'aria; la pietà si leggeva in volto ai giovani; la pietà pulsava in tutti e in tutto. Questo per altro non fa parte del nostro disegno; vi abbiamo accennato solo per dire che li era il riflesso dell'anima sacerdotale di Don Bosco. Un sacerdote, che abbia grande spirito d'iniziativa, ma che non possegga in pari grado lo spirito di preghiera, potrà benissimo nella Chiesa organizzare de limo terrae, non certo infondere spiraculum vitae; se da altri non si rimedi al difetto, organizzazioni simili non saranno vitali.
Per Don Bosco, Dio era il principio e il fine di tutto. L'incalzarsi delle occupazioni non gli lasciava libere lunghe ore da dedicare alla preghiera; la madre però, che dormiva in una stanza attigua alla sua argomentava da buoni indizi, ch'ei vegliasse pregando una parte della notte. Sull'ingresso della sua cameretta un cartone stampato lo invitava a dire Sia lodato Gesù Cristo; , un altro cartone della parete gli rimembrava che Una cosa sola è necessaria, salvar l'anima; terzo gli rinfrescava il ricordo del motto caro a san Francesco di Sales e preso per sé nei primordi del sacerdozio: Da mihi animas, cetera tolle.
Aspirazioni, esprimenti desiderio della propria salvezza eterna e augurio di salvezza per tutti, gli erano abituali. Che dire di quelle frequenti manifestazioni d'intima pietà religiosa, che erano il rispetto, l'amore e la stima per ogni atto di culto, per ogni pratica divota, approvata, promossa, raccomandata dalla Chiesa? Tali, ad esempio, l'uso dei sacramentali, l'assistenza alle funzioni ecclesiastiche, la recita del rosario in comune, l'aggregarsi a pii sodalizi, l'Angelus, benedizione della mensa, la Via Crucis. divozione nutriva per i misteri della passione e morte di Gesù! Ne meditava con si vivo affetto i dolori, che, discorrendone, s'inteneriva, gli morivano le parole in bocca e muoveva gli uditori al pianto.
Riguardo ai pii sodalizi, non è da tacere che poco dopo aver stabilita la sua dimora in Valdocco, si ascrisse al terz'ordine francescano, vestendone l'abito e facendone noviziato e professione. Del resto, ch'ei fosse sacerdote esemplarmente pio, saltava agli occhi di chiunque lo osservasse, allorché pregava ad alta voce, pronunciando le parole con una specie di vibrazione armoniosa, che dava a conoscere il fervore della sua carità. Perciò l'umile poeta che nel 46 compose per musica alcune strofette in suo onore, onde celebrarne il ritorno da non breve convalescenza, si rese interprete del sentimento unanime, inneggiando al giorno che aveva ricondotto all'Oratorio «l'uomo saggio, l'uomo pio, l'uomo adorno di virtù».
A questo coro di voci contemporanee fanno eco deposizioni assai posteriori, ma rese da testimoni oculari e degnissimi di fede. Correvano allora per Don Bosco anni di grandi rompicapi: mandar avanti l'Oratorio festivo di settecento ragazzi; erigerne e dirigerne due nuovi in Torino; creare e avviare l'ospizio; aprir le porte a poveri chierici sbandati per la violenta chiusura dei seminari, riempiendo oltre il credibile la non ampia casa; risolvere il problema del pane quotidiano; gettare le basi della fu tura Congregazione; fra gli sconvolgimenti pubblici che davano immenso filo da torcere alle autorità ecclesiastiche, condividere per alto spirito evangelico le ansie del suo Pastore, fatto segno a fiere contraddizioni: tutto questo indurrebbe a supporre che da mane a sera Don Bosco fosse in orgasmo e la sua testa somigliasse a una caldaia sotto pressione.
Niente di più lontano dal vero. Un venerando sacerdote, che lo vedeva da presso, ci dice che nella fisionomia di lui traspariva così evidente il pensiero della presenza di Dio, da sentirsi correre alla mente, osservandolo, quelle parole dell'Apostolo: Nostra conversatio in caelis est. , anche a mensa e in camera, lo trovava composto negli atti, raccolto negli sguardi e chino il capo, come chi stia 'al cospetto di uh gran personaggio o dinanzi al Santissimo Sacramentò. Per via poi lo scorgeva andare 'tutto concentrato, ma in guisa da mostrare chiaramente che stava assorto nel pensiero di Dio. Il medesimo ci fa pensare che taluno a volte lo richiedeva di consigli spirituali in momenti, in cui sembrava distratto da affari di tutt'altro genere, e che rispondeva sempre da uomo che viva immerso nella meditazione delle cose eterne.
Un secondo teste, vissuto sotto la direzione di Don Bosco nei primissimi tempi dell'Oratorio, tenendo gli occhi su di lui mentre si dicevano le orazioni in comune, notava con che gusto proferisse le parole Padre nostro che sei ne' cieli, ne distingueva la voce nel concerto generale per un suono indefinibile, che moveva a tenerezza chi l'udiva. Benché poi nulla si ravvisasse di straordinario nel suo atteggiamento, pure al teste non isfuggì, che in sagrestia o in chiesa egli aveva l'abitudine di non appoggiare i gomiti, ma accostava soltanto l'avambraccio all'orlo del banco o dell'inginocchiatoio, tenendo le mani giunte o reggendo un libro sulle palme. Nemmeno quel celebre moralista che fu monsignor Bertagna potè mai dimenticare il contegno di lui nella preghiera, sicché, volendone dare un'idea giusta in poche parole, si esprimeva col dire, che Don Bosco, pregando «aveva dell'angelo».
Non faremo punto sull'argomento dell'aspetto esteriore di Don Bosco, senz'aggiungere, a rincalzo del fin qui detto, qualche altra osservazione, non inutile alla comprensione completa del suo spirito di preghiera. Scrittori e disegnatori giocano a volte un po' troppo all'infantilità intorno alla figura esterna dei Servi di Dio; c'è cui piace un Don Bosco, diremmo così, giulebbato. Noi che l'abbiamo visto, non consentiremo mai a un Don Bosco di maniera; tanto meno ritroveremo il vero Don Bosco sotto cotali sembianze.
Un uomo superiore che sia insieme un gran santo, conosce il sorriso, non però quello perenne o insignificante o meramente istintivo, ma un sorriso voluto e irradiato di pensiero: un sorriso diretto a un fine, e rientrante, non appena il fine sia raggiunto. Nel Santo la benignità soave e amabile non si scompagna da tranquilla e serena dignità: doppio elemento, questa benignità e questa dignità, che forma un visibile contrassegno e quasi suggello della presenza del Creatore nella creatura. Quindi la vista di un Santo, nell'atto che ispira confidenza, eleva e fa pensare.
Nota: Che i mistici non ridano, crediamo sia cosa incontestabile. L'impressione che ricevono nei loro contatti con Dio, non si dilegua dal loro spirito, ma li tiene avvinti al pensiero della divina presenza. Quando poi sorridono al prossimo, quel sorriso, che non ha fremiti, non altera la compostezza dei lineamenti prodotta in essi dall'abituale raccoglimento interiore. Mentre rivedevo queste bozze per la prima edizione raccolsi dalla bocca di Don Francesia le parole seguenti: - Don Bosco infondeva l'allegria negli altri; ma egli per sé tendeva a portare il volto atteggiato come si vede nelle persone meste. Il salesiano Don Vismara diceva con felice espressione che il sorriso di Don Bosco si vedeva, non si sentiva. Fine nota.
Riguardo a Don Bosco, si parla anche, è vero, di bonomia, giammai però di debolezza; e poiché questa suol essere sorella germana di quella, bisognerà inferirne che la bonomia di Don Bosco va intesa senza ricorrere al dizionario; chiamiamola semplicità evangelica, la semplicità dell'est est non non, sì di bontà, ma spirante fermezza, e l'avremo imbroccata. L'uomo insomma che comunica interiormente con Dio, impronterà sempre di gravità pacata lineamenti e atteggiamenti. Tale si figura Don Bosco chiunque lo studi attraverso le genuine manifestazioni della sua personalità.
Analogo al portamento era in lui il parlare. Conversava con calma, adagio, aborrendo da discorsi profani, da modi troppo vivaci, da espressioni risentite e concitate e dando importanza a ogni parola. Scrive chi visse lunghi anni nella famiglia, anzi nella familiarità dell'uomo di Dio: «Spesso dicevamo fra noi: - Come fa piacere andar vicino a Don Bosco! se gli parli un istante, tu ti senti pieno di fervore -».
Ma abbiamo un'altra testimonianza del massimo valore. Ci viene dal Servo di Dio Don Michele Rua, il quale parla così nei processi: «Ho vissuto al fianco di Don Bosco per trentasette anni. Mi faceva più impressione osservare Don Bosco nelle sue azioni, anche più minute, che leggere e meditare qualsiasi libro divoto».
A chi ha la pazienza di leggere non sia discaro che si divaghi un tantino, ma non senza perché. Voglio riportare una rilevante citazione, donde appaia quanto sia legittimo e sicuro il metodo di rifarci da un certo esteriore di Don Bosco per giudicare di un determinato suo interno. Del resto, se per Don Bosco vi fosse un'altra via più diretta, chi non la infilerebbe volentieri? Parli dunque san Vincenzo de' Paoli. In uno di quei mirabili sermoncini che rivolgeva a Missionari, egli osserva: «Quand'anche voi non diceste una parola, se siete tutti immersi in Dio, toccherete i cuori con la sola vostra presenza. I Servi di Dio hanno apparenze che li distinguono dagli uomini carnali. È un certo atteggiamento esterno umile, raccolto e divoto, che opera sull'anima di chi li mira. Vi sono qui persone così piene di Dio, che io non le guardo mai senza restarne colpito. I pittori nelle immagini dei Santi ce li rappresentano cinti di raggi: sta di fatto che i giusti, i quali vivono santamente sulla terra, spandono al di fuori una certa luce tutta loro propria». Anche l'insigne biografo di san Bonaventura, dopo aver detto che «ci mancano notizie per conoscere il suo progresso nella preghiera e il dono sublime della contemplazione», passa a considerare «i frutti della sua vita interna e della sua continua unione con Dio» e tra l'altro nota che «essa imprimeva nel suo sembiante quella pace ineffabile, quella grazia beata che rapiva chiunque lo riguardava»; a conferma di che allega la testimonianza di un contemporaneo, il quale a proposito del concilio di Lione, dove il Santo mandò gli ultimi raggi della sua serafica luce, scrisse: «Il Signore gli dette questa grazia, che tutti coloro che lo miravano, gli erano cordialmente affezionati». Basta mutare il nome, e si ha qui tutto Don Bosco.
Il Santo degli esercizi spirituali per ordinandi e per ordinati è venuto in buon punto a ricordarci quanto Don Bosco fosse alto estimatore della grande pratica ignaziana. Don Bosco amò gli esercizi spirituali: li amò per gli altri, li amò per se stesso. Precursore anche in questo, inaugurò nel 47 i ritiri chiusi per giovani operai; a suo tempo introdusse nei collegi salesiani la consuetudine di fare per pasqua un corso di esercizi, ben preparati, ben predicati, e finiti in santa allegria; nella sua Congregazione poi, non occorre dirlo, non fu da meno di altri fondatori. Ne era caldo promotore, ma insieme li faceva per proprio conto.
Finché le circostanze non glielo vietarono, saliva ogni anno al romito santuario alpino di Sant'Ignazio sopra Lanzo Torinese, dove nella solitudi ne e nella pace dei monti confortava lo spirito con la preghiera e la meditazione delle verità eterne. In un foglietto, diligentemente da lui conservato, leggiamo non senza emozione i «proponimenti fatti negli esercizi spirituali del 1847». Sono questi:
Ogni giorno: Visita al SS. Sacramento.
Ogni settimana: Una mortificazione e confessione.
Ogni mese: Leggere le preghiere della buona morte.
Domine, da quod iubes, et iube quod vis.
 
Il sacerdote è il turibolo, della divinità (Teodoto).
È soldato di Cristo (S. Giov. Cris).
L'orazione al sacerdote è come l'acqua al pesce,
l'aria all'uccello, la fonte al cervo. Chi prega, è come colui che va dal Re.
Abbiamo veduto già per la terza volta proponimenti di Don Bosco riferentisi alla vita di preghiera, pur non ignorando che dal dire al fare c'è di mezzo il mare. Bisogna però tenere nel debito conto il carattere di Don Bosco. Don Bosco non era un cerebrale, non era un emotivo: era un volitivo, dalle idee chiare e dagli affetti puri. Simili temperamenti, fermi e tenaci, quando vogliono, vogliono. Non così gli speculativi, le cui risoluzioni rimangono facilmente campate in aria; non così i passionali, che risolvono, risolvono, non finiscono mai di risolvere, perché alle impressioni sono mobili come piume al vento. Don Bosco ebbe volontà ferrea.
Qui piuttosto affiora un problema d'altro genere. Ammessa la padronanza di sé che è propria dei volitivi, come si spiega il fatto che Don Bosco non di rado si vedeva piangere? Piangeva ora celebrando la messa, ora distribuendo la comunione, ora semplicemente benedicendo il popolo dopo il divin sacrificio; piangeva nel parlare ai giovani dopo le orazioni della sera, nel tener conferenza a' suoi aiutanti e nel dare i ricordi degli esercizi spirituali; piangeva accennando al peccato, allo scandalo, alla modestia, o toccando delle ingratitudini umane verso l'amore di Gesù Cristo per noi o esprimendo timori circa la salute eterna di alcuno.
Dice un testimonio, a proposito delle baldorie carnevalesche: «In compenso di tanti disordini ci esortava a ricevere la santissima Eucaristia e a fare ore di adorazione innanzi al Tabernacolo; e mentre parlava, pensando agl'insulti che riceveva Gesù Sacramentato, specialmente in quei giorni, piangeva e faceva piangere anche noi».
Dice un altro testimonio di prim'ordine, il cardinal Cagherò: «Mentre Don Bosco predicava sull'amor di Dio, sulla perdita delle anime, sulla passione di Gesù Cristo nel venerdì santo, sulla santissima Eucaristia, sulla buona morte e sulla speranza del paradiso, lo vidi io più volte, e lo videro i miei compagni, versare lagrime ora di amore, ora di dolore, ora di gioia; e di santo trasporto, quando parlava della Vergine Santissima, della sua bontà e della sua immacolata purità». La stessa cosa gli accadeva anche nelle chiese pubbliche. Un testimonio lo vide prorompere in pianto nel santuario della Consolata, mentre faceva la predica del giudizio universale, descrivendo la separazione dei reprobi dagli eletti; un secondo testimonio lo osservò più volte lagrimare specialmente quanto trattava della vita eterna, sicché moveva a compunzione peccatori ostinati, i quali dopo la predica cercavano di lui per confessarsi.
Il coscienzioso suo biografo finalmente scrive: «Noi stessi che stendiamo queste pagine fummo testimoni con mille altri di questo dono divino, che a Don Bosco fu dato, fin da quando fondava l'Oratorio e anche prima; e durò fino alla sua morte». Ora la questione sarebbe se qui si tratti realmente di mistico dono e in caso affermativo, se esso ci dia il diritto di asserire che Don Bosco godesse della grazia di un'orazione passiva. Ritorneremo a miglior agio sull'argomento; per intanto restringiamoci a notare che nelle circostanze enumerate le lacrime di Don Bosco erano prova della sua grande unione con Dio; e poiché unione con Dio è orazione, si vede che alto spirito di orazione dovette animare Don Bosco in mezzo all'intensità crescente della sua azione.
Nell'ascetica di Don Bosco un parte -preponderante spetta all'Eucaristia, amore di tutta la sua vita è oggetto perenne del suo zelo sacerdotale. Quindi fu giorno di somma allegrezza per lui, quando ottenne che il Re del Cielo prendesse stanza nel suo Oratorio. Sì segnalata grazia egli ricevette nel 52, dopo l'erezione della chiesa dedicata a san Francesco di Sales; dal qual tempo il sacro edificio diventò il centro delle sue affezioni. Non si può descrivere con qual giubilo ne diede agli alunni la lieta notizia. In seguito, ogni volta che gli restava un po' di respiro, andava là ad adorare il divin Salvatore, standovi in atteggiamento più di serafino che d'uomo.
A tutte le cose poi che riguardassero ivi il culto divino, annetteva sempre la massima importanza: sempre sollecito a esigere nettezza e ordine nei vasi sacri e nelle sacre paramenta; sempre attento, perché di e notte vi ardesse la lampada; sempre da capo a raccomandare che si riflettesse bene da tutti chi fosse Colui che degnavasi abitare in quel tabernacolo; amava perfino di torre con le proprie mani i ragnateli, spolverar l'altare, scopare il pavimento, lavare la predella. Niente gli sfuggiva di quanto fosse necessario al decoro delle sacre funzioni; nelle maggiori solennità non voleva musici profani, perché, non essendo avvezzi a stare come si deve nella casa di Dio, perdevano il rispetto alla presenza reale di Gesù. Il suo biografo, ottimo testimonio, scrive che in chiesa la fede e la carità verso la reale presenza del divin Salvatore gli si riverberavano sul viso.
Se tale l'orante, quale sarà stato il celebrante? Celebrava composto, concentrato, diyqto, esatto; proferiva le parole con chiarezza e unzione; gustava visibilmente di distribuire le sacre specie, mal riuscendo a celare il fervore dello spirito. Nulla però di affettato o che desse nell'occhio: ma né lento né celere, procedeva dal principio alla fine con calma e naturalezza in tutti i movimenti. I fedeli che non lo conoscessero, ne restavano tosto edificati; altri, saputo dove avrebbe celebrato, accorrevano alla sua messa; famiglie, aventi il privilegio dell'oratorio domestico, se lo disputavano per accogliervelo a celebrare.
Quante volte tornò a inginocchiarsi davanti all'altare della sua prima messa nella chiesa di san Francesco d'Assisi, presso il Convitto Ecclesiastico, rinnovandosi i proponimenti di quel caro giorno! Si conserva ancor la copia delle Rubricae missalis, 'ei portava abitualmente seco, logora per lungo uso; anzi di quando in quando pregava suoi confidenti che lo osservassero nel celebrare, e vedessero bene, se mai cadesse in difetti. Al mattino, recandosi dalla camera in chiesa, se incontrava alcuno che lo salutasse e gli baciasse la mano, rispondeva con un sorriso, ma senza dir verbo, tutto assorto nel pensiero della prossima celebrazione. Dovendo viaggiare, pur di non omettere il divin sacrificio, o abbreviava il riposo, celebrando anche per tempissimo, o si sobbarcava a non lievi incomodi, celebrando a ora anche molto tarda. Così lo videro all'altare i Salesiani della prima generazione, così lo vedevamo noi, ultimi venuti.
Il cuore di Don Bosco, formatosi alla vita spirituale nel precoce e costante amore della santa Eucaristia, era naturalmente portato o meglio provvidenzialmente preparato a darci in lui sacerdote l'apostolo della comunione frequente. Di quanta luce risplende in questa santa missione il suo serafico zelo!
Ombre giansenistiche aduggiavano ancora il forte Piemonte. Nel Convitto Ecclesiastico si apprestavano bensì le sane dottrine morali, miranti a fugarle dalle menti degli uomini di chiesa; ma il campo del padrone evangelico avrebbe continuato a intristire chi sa fino a quando senza il possente soffio dell'esempio venuto da Don Bosco. Egli agiva, non apriva polemiche. Personalmente l'aveva risolta da un pezzo la questione della frequenza; onde si affacciava al sacro ministero con idee nette su tale materia.
Ci fa oggi qualche impressione il rileggere questo tratto delle sue 'Memorie': «Sul principio del secondo anno di filosofia, andato un giorno a far visita al Santissimo Sacramento e non avendo il libro di preghiera, mi feci a leggere De imitatione Christi: lessi alcuni capi intorno al Santissimo Sacramento». Tocco dalla «sublimità dei pensieri» e dal «modo chiaro e nel tempo stesso ordinato ed eloquente, con cui si esponevano quelle grandi verità», s'invaghì talmente dell'aureo libro, che se ne fece una delle sue letture predilette.
Orbene, leggendo e rileggendo appunto quella parte che si aggira per intero intorno al Sacramento dell'altare, dovette fermare la sua attenzione sopra il secondo periodo del capo decimo, dove il pio autore osserva come il nemico, ben sapendo quanti e quali frutti si ricavino dalla santa comunione, sia solito dar di piglio a ogni mezzo per ritrarne fideles et devotos, solo cioè i semplici fedeli, ma anche le anime pie o a Dio consacrate.
Vecchio flagello dunque nella Chiesa, avrà esclamato fra sé e sé il riflessivo lettore, vecchia peste questa maledetta infiltrazione diabolica! E tanto più avidamente dovette sorbire e convertire in succo e sangue il soavissimo nettare del libro sublime, anelando al giorno, in cui si sarebbe fatto araldo della pia exhortatio ad sacram Communione mezzo alla gioventù di tutto il mondo. Sì, in mezzo alla gioventù; perché, a non voler edificare sull'arena, bisognava prendere le mosse dai giovani e condurli presto al banchetto eucaristico, condurveli in gran numero, ricondurveli con gran frequenza, e abituare a simili spettacoli gli occhi del gran pubblico. Appunto così egli fece.
Fioccavano osservazioni di qua e di là; ma Don Bosco non perdeva tempo a discutere: preparava bene folte schiere di giovanetti alla prima comunione, moltiplicava le comunioni generali, istituiva società e compagnie con l'intento di assuefarne i membri alla comunione frequente e quotidiana, confessava comunicandi per ore infinite. Dio solo sa i sacrifici impostisi da Don Bosco per promuovere efficacemente la frequenza dei giovani alla santa comunione; ma non passava inosservata la gioia sincera che gl'inondava il petto nel contemplare le file interminabili di giovani andare e venire dalla sacra mensa. Che avrebbe infatti potuto desiderare di meglio chi viveva con lo spirito fissamente rivolto a Gesù Sacramentato?
A questo capo mancherebbe un elemento importante, se non dicessimo ancora, in qual modo usasse Don Bosco della confessione durante quegli anni. Nella vita spirituale la scelta di un buon direttore è condizione ordinaria per fare veri progressi.
Vi allude san Bernardo con quel celebre detto: Qui se sibi magistrum constituit, stulto se discipulum facit; se stesso a proprio maestro è farsi discepolo di uno stolto. Il santo Dottore scrive così non già a un qualsiasi principiante, ma a un povero ecclesiastico; anzi, nella medesima lettera conferma la sua dottrina, allegando in prova il suo esempio: «Non so, dice, che cosa pensino gli altri di se stessi su quest'argomento; io parlo per esperienza, e quanto a me dichiaro che mi torna più facile e più sicuro comandare a molti che guidare me solo».
Lo Scaramelli, maestro insigne di direzione spirituale, appellandosi all'autorità di S. Basilio, afferma che «dopo i primi desideri di perfezione e dopo le prime risoluzioni di conseguirla, il mezzo più necessario per fare grandi progressi in questo cammino spirituale è senza fallo la scelta di una buona guida».
Don Bosco, che aveva già mostrato assai per tempo di comprendere questa necessità, appena trasferitosi a Torino, si mise sotto la direzione del beato Cafasso, andando ogni settimana ad aprirgli la sua coscienza. Lo trovava nella chiesa di san Francesco d'Assisi, col confessionale assiepato da penitenti che aspettavano il loro turno. Inginocchiatosi per terra, di rimpetto, vicino a un pilastro, si veniva preparando, in attesa che il confessore lo vedesse. Questi, per non obbligarlo a perdere troppo tempo, gli accennava alzando la tendina; egli allora a capo chino e in atteggiamento devoto si appressava, ponevasi in ginocchio sul dinanzi del confessionale, e con edificazione dei presenti faceva la sua confessione. A maestro santo, santo discepolo.
 
Eugenio Ceria
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