"Don Bosco, come tutti, non era nato santo; lo è diventato abbandonandosi alla potenza dello Spirito Santo, e contraddicendo se stesso, scalando passo passo la vetta della santità."
del 07 dicembre 2011
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           «Che cosa vogliamo sapere di un beato, di un santo?», si domanda Paolo VI nel discorso, già ricordato, letto per la beatificazione di Leonardo Murialdo. E risponde: «Se la nostra mentalità fosse quella della curiosità esteriore, di certa ingenua devozione medioevale ci potremmo proporre di ricercare nell'uomo esaltato in modo tanto straordinario i fatti straordinari: i favori singolari, i fenomeni mistici e i miracoli; ma oggi siamo meno avidi di queste manifestazioni eccezionali della vita cristiana. A noi piace conoscere la figura umana piuttosto che la figura mistica o ascetica di lui: vogliamo scoprire nei santi ciò che a noi li accomuna, piuttosto che ciò che da noi li distingue; li vogliamo portare al nostro livello di gente profana e immersa nell'esperienza non sempre edificante di questo mondo; li vogliamo trovare fratelli della nostra fatica e fors'anche della nostra miseria, per sentirci in confidenza con loro e partecipi d'una comune pesante condizione umana».
La vita di don Bosco trabocca di soprannaturale e di fatti meravigliosi, ma a noi piace anzitutto considerarlo nella sua creaturalità, 'uomo come noi', quasi 'uno di noi', seppure immensamente più grande. Perciò segnato dalle incompiutezze della natura e dalle sue pesantezze, tentato dal mondo del peccato e dal maligno.
Questa prospettiva, nella quale si confrontano limitatezza umana e grazia divina corrisposta, è già un incoraggiamento alla nostra debolezza.
Don Bosco, come tutti, non era nato santo; lo è diventato abbandonandosi alla potenza dello Spirito Santo, e contraddicendo se stesso, scalando passo passo la vetta della santità.
Di questa sua fatica per diventare santo diamo, qui, solo alcune rapide sequenze.
 Non era un temperamento facile.
Benché dotato di splendide qualità umane, don Bosco non era, per natura, l'uomo paziente, mite e dolce che conosciamo. Dei due figli di Mamma Margherita, Giuseppe e Giovanni, si sarebbe detto che il più salesiano era il primo, non il secondo. Giuseppe infatti è ricordato come un fanciullo mite, affettuoso, docile e paziente: tale resterà per tutta la vita. Correva incontro agli ospiti, discorreva volentieri con loro e si faceva subito voler bene. Antiche testimonianze descrivono invece Giovannino come un fanciullo piuttosto serio, un po' taciturno, quasi diffidente; non concedeva familiarità ad estranei, non si lasciava accarezzare, parlava poco, era attento osservatore.
«Ero ancora piccolino assai - scrive nelle sue Memorie dell'Oratorio (si tratta in realtà, come bene dimostra P. Braido, delle 'memorie del futuro' perché scritte dal 1873 al 1875 e anche oltre) - e studiava già il carattere dei miei compagni. Fissando taluno in faccia, ne scorgevo i progetti che quello aveva in cuore».
Nel sogno fatto dai nove ai dieci anni - sul quale ritorneremo - si manifesta certamente già un fanciullo riflessivo e generoso, sensibile e zelante nel difendere i diritti di Dio, ma rivela anche un temperamento focoso, impulsivo e persino violento, quando si avventa con impeto sui piccoli bestemmiatori per farli tacere a «colpi di pugni».
Provava anche - è una sua confessione - «grande ripugnanza ad ubbidire, a sottomettersi»; tendeva per natura a difendere con tenacia i suoi punti di vista volendo «sempre fare i miei fanciulleschi riflessi a chi mi comandava o mi dava buoni consigli». Diciamolo chiaramente: era portato all'orgoglio, ad un forte amor proprio; lo confessava lui stesso.
Alla superbia lo inclinavano naturalmente le sue belle qualità: l'energia della volontà, l'intelligenza superiore, la tenace memoria, la stessa vigoria fisica, qualità che gli consentivano d'imporsi facilmente ai suoi coetanei. Nelle sue Memorie è registrata questa compiaciuta affermazione: «Io da tutti i compagni, anche maggiori di età e di statura, ero temuto per il mio coraggio e per la mia forza gagliarda».
Le testimonianze dei processi mettono in luce le sue belle qualità ma anche alcuni tratti di fondo non del tutto positivi. Il suo parroco, il Teol. Cinzano, lo dice «stravagante e testardo»; il Card. Cagliero ricorda il suo temperamento «focoso ed altero» tale da non «poter soffrire resistenze»; il suo compagno don Giacomelli attesta: «Si capiva come senza virtù si sarebbe lasciato sopraffare dalla collera. Nessuno dei nostri compagni, ed erano molti, inclinava come lui a tale difetto». «Credo vero - conferma Mons. Bertagna moralista insigne e grande amico di don Bosco - che il Servo di Dio avesse un naturale facilmente accendibile e insieme molto duro e niente pieghevole ai consigli che gli erano dati quando questi non erano conformi ai suoi disegni e alle sue viste».
Don Cerniti mette in evidenza la «tendenza forte all'ira e all'affetto; era portato ad essere altero». «È inutile, - dirà a sua volta don Cafasso - vuol fare a suo modo; eppure bisogna lasciarlo fare; anche quando un progetto sarebbe da sconsigliare, a don Bosco riesce»; risentita per non averlo guadagnato alla sua causa la Marchesa Barolo lo taccerà di «cocciuto, ostinato, superbo».
Il Dott. G. Albertotti, che ebbe in cura don Bosco dal 1872 fino alla morte, sottolinea anche lui, nella sua breve biografia, «l'innata vivacità piuttosto impetuosa» del suo cliente, il suo carattere «pronto e focoso» e la «profonda convinzione dei suoi concetti».
P. Girolamo Moretti, pioniere della grafologia che sta diventando un ramo delle scienze umane, riconosce, nel suo noto libro I santi dalla scrittura, che il temperamento di don Bosco è «non poco arduo ad essere definito». E un santo che per essere morale «ha bisogno di sottoporsi a parecchie rinunzie alle quali si ribellano le sue tendenze innate», le quali vogliono e pretendono l'azione senza inciampi. «È - conclude un condottiero, senza dubbio, che per far del bene ha bisogno di contraddire se stesso al massimo grado per incanalarsi nella rettitudine delle intenzioni e delle opere».
Queste testimonianze non rendono, ovviamente, l'immagine compiuta di don Bosco. Lasciano infatti fuori troppi altri aspetti della sua personalità ricchissima; ne colgono tuttavia elementi di fondo come: l'inclinazione all'ira ed alla impetuosità; la tendenza all'autonomia, al forte sentire di sé, all'ostinata affermazione dei propri convincimenti, all'impetuosa irascibilità, ecc. Per poco che si fosse lasciato andare, sarebbe stato un uomo fallito e un santo mancato. «Se il Signore non mi incamminava per questa via [degli Oratori] io temo che sarei stato in gran pericolo di prendere una via storta».
Eppure senza queste forti tendenze non avremmo lo spessore della santità di don Bosco. Le inclinazioni naturali, in sé, non sono né buone, né cattive; non sono vizi, non sono virtù. La moralità degli atti dipende infatti dalla intenzionalità del soggetto, dall'uso buono o cattivo che fa delle proprie energie. Nessun dubbio che egli non abbia piegato al meglio le sue qualità native, ma Dio solo sa a prezzo di quali sforzi e di quali lotte vittoriose. È un aspetto che vale la pena sottolineare.
 Cammino in salita.
Della vita di S. Francesco di Sales è stato detto che essa appare nel suo corso, nel suo perfezionamento e nella sua compiutezza un vero capolavoro, al quale lo scultore lavorò lentamente con riflessione, sicurezza e gioia, sino a conseguire un'intangibile bellezza, qual è propria solo a poche opere insigni.
Lo stesso si può dire di don Bosco: senso della misura, gradualità, armonia caratterizzano infatti anche il suo itinerario verso la santità. Ma bisogna tenere in conto che per lui, a differenza del suo santo patrono, il cammino è stato più arduo per il temperamento più tenace e duro a piegarsi. Il santo savoiardo era un nobile, educato con raffinatezza dall'infanzia; il santo dei Becchi aveva la tempra rude e istintiva del contadino chiamato a misurarsi con le asprezze della vita e con un tipo di educazione molto diversa; umile e semplice, tuttavia degna di ammirazione per gli alti ideali umani e cristiani che la distinguono.
I primi passi nella virtù il piccolo Giovanni li impara alla scuola della madre, donna illetterata, ma ricca di sapienza divina. Mamma Margherita sapeva infatti giungere al cuore della sua creatura con delicatezza materna, ma anche con irremovibile fermezza. Assecondava la sua indole in quello che poteva; più tardi, quando lo vedrà impegnato a far del bene ai suoi piccoli amici, sarà larga di incoraggiamenti e di aiuto. Ma, al momento opportuno, di fronte alle sue impennate, sapeva correggerlo con interventi decisi, però ragionati e motivati da pensieri di fede che il bimbo accettava.
L'amore a Dio, a Gesù Cristo, a Maria Vergine; l'orrore al peccato, il timore dei castighi eterni, la speranza del paradiso, e molte altre cose ancora, don Bosco li apprese dalle labbra materne. Nella casetta dei Becchi la religione era natura; il male si aborriva per istinto e per istinto si amava il bene. Il monito ricorrente: «Ricordati che Dio ti vede», penetrava profondamente nell'animo sensibilissimo di Giovannino. Non si stancherà, a sua volta, di ripeterlo ai giovani. L'amore materno che ha allietato ed educato la sua infanzia rimane per tutta la vita una di quelle profonde radici di cui il Signore si è servito per farlo santo. Si deve all'educazione materna se la personalità di don Bosco ha potuto espandersi in pienezza senza complessi o ansietà di sorta.
«Nei trentacinque anni nei quali vissi al suo fianco - afferma il Card. Cagherò - non udii mai l'espressione di un timore o dubbio; non lo vidi mai agitato da alcuna inquietudine circa la bontà e la misericordia di Dio verso di lui. Non apparve mai turbato da angustie di coscienza».
Diversi, sotto questo profilo, furono, ad esempio, S. Giuseppe Cafasso, S. Leonardo Murialdo e altri.
Domandiamoci: quando il piccolo Giovanni si è convertito alla santità? quando ha detto a se stesso come S. Domenico Savio: «Voglio farmi santo e presto santo»? E il suo segreto. Una antica tradizione salesiana lo vuole però santo in tutte le fasi della sua vita: santo giovane, santo chierico, santo sacerdote, santo educatore. Avrebbe così insegnato una via di 'santità giovanile' da lui già collaudata e vissuta. La sua prima giovinezza è comunque esemplare: la caratterizzano il profondo senso del divino e della preghiera, l'attività apostolica tra i suoi coetanei, la capacità di autodominio, il coraggio nell'affrontare i disagi della povertà e le pretese del fratellastro Antonio, l'umiliazione di dover trascorrere, in qualità di servo, due anni alla cascina Moglia.
La parola piemontese «'ndé da servitù» ha sapore amaro. Evoca lavoro nero, superiore alle forze; maltrattamenti, lontananza dal nido familiare. Vi erano costretti, per sopravvivere, ragazzi e ragazze di famiglie numerose e povere. Sappiamo che Giovanni Bosco fu trattato bene dai suoi padroni, cristiani convinti, ed anche ammirato per le sue virtù. Nelle sue Memorie egli però non accenna a questo periodo della sua vita; forse per rispetto alla mamma. Gli anni trascorsi presso i Moglia furono, come rileva opportunamente P. Stella, «anni non inutili, non di parentesi, nei quali si radicò più profondo in lui il senso di Dio e della contemplazione, a cui potè introdursi nella solitudine o nel colloquio con Dio durante il lavoro dei campi. Anni che si possono definire di attesa assorta e supplichevole: di attesa da Dio e dagli uomini; anni in cui forse è da collocare la fase più contemplativa dei suoi primi lustri di vita, quella in cui il suo spirito dovette essere più disposto ai doni della vita mistica sgorgante dallo stato di orazione e di speranza».
Alla scuola di don Calosso (novembre 1829 - novembre 1830) Giovannino, ormai adolescente, fa progressi nella virtù. Il santo sacerdote gli proibisce alcune penitenze non adatte alla sua età, rivelatrici però di una reale tensione verso la santità; lo inizia alla meditazione metodica, se pure breve, e alla lettura spirituale; lo incoraggia alla frequenza dei sacramenti. «Da allora - scrive nelle sue Memorie - ho cominciato a gustare che cosa sia vita spirituale». 'Gustare' non è solo conoscere teoricamente Dio e le cose divine, ma assaporarle, farne esperienza; è l'effetto del dono della sapienza, il più perfetto dei doni dello Spirito Santo perché perfeziona la carità compendio di tutte le virtù; comprende l'intelligenza, ma soprattutto l'amore che va più lontano e la supera. E per un adolescente di quindici-sedici anni non è davvero poco.
Pietro Brocardo
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