"«Un mese dopo, circa, un compagno mi dice: "Ieri ho visto don Bosco che ha fatto la vendemmia alla vite delle sue finestre. Sono rimasti però ancora alcuni grappoli; se vieni con me andiamo a prenderli"."
del 07 dicembre 2011
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          Mons. Luigi Cassani, nato a Gravellona Lomellina l’8 luglio 1869 e morto a Novara il 30 novembre 1963, uno degli ecclesiastici più rappresentativi del clero novarese, fondatore della «Società Storica Novarese», autore di apprezzate pubblicazioni, pastore zelante, molto amato per la sua bontà, fu un autentico entusiasta di don Bosco.
Quando, nel 1957, ricordava davanti ad un folto gruppo di uditori i quattro anni (1882-1886) trascorsi a Valdocco, aveva quasi novant'anni. Ma sembrava che il tempo si fosse fermato e che quei giorni lontani, stampati nella sua memoria, fossero cosa di ieri. I ricordi fluivano a getto continuo, nitidi e puntuali da una mente ancora lucidissima: la sua parola convinta, gonfia di affetto, diventava, a tratti, travolgente ed inchiodava l'uditorio. La trascrizione non ne rende l'efficacia, ma è di una immediatezza che convince.
 
Don Bosco mi vuol pi√π bene che agli altri.
«Sono entrato nell'Oratorio di Valdocco alla fine dell'agosto 1882. Era la prima settimana che ero là, i primi giorni di settembre, ancora un po' malinconico. Stavo giocando in cortile, proprio dove adesso c'è la statua di don Bosco. Giocavamo alle birille quattro o cinque dei nuovi venuti, ma capitanati da uno che era come di casa, un certo Enria, figlio del capo falegname di allora. Enria ad un tratto alza la testa e dice: 'Oh! don Bosco!'. Pianta li le birille e si mette a correre verso un sacerdote che in quel momento discendeva dai gradini della sacrestia e si avviava verso il cortile. Corre verso don Bosco, gli altri corrono anch'essi e corro anch'io. Tutti ci siamo aggrappati alle sue mani; saremmo stati cinque o sei. Egli ci teneva tutti per mano e domandava all'uno e all'altro: 'E tu quando sei arrivato? Come ti chiami? Di che paese sei? Hai pianto, hai pianto, eh?'. A tutti così. Quando fu il mio turno, s'è fermato; i suoi occhi si riempirono di tante bollicine, di tanti punti di svariati colori che si rincorrevano; un visibilio di puntini di ogni colore, un tremolio... poi è stato un momento come rapito. 'Bravi - disse alla fine - andate a giocare'. Prima ha lasciato la mia mano e poi quella degli altri. 'Continuate il vostro gioco'.
Gli altri non si sono accorti di nulla, ma io ho pensato: 'Agli altri vuol bene e a me non vuol bene! Non mi ha neppure chiesto il nome!'. Il mattino dopo eravamo in chiesa. Un compagno mi dice: 'Vado a confessarmi da don Bosco'. 'E dove?'. 'È in sacrestia, confessa in sacrestia'. Son andato anch'io. E quando fu il mio turno mi sono avvicinato. 'Vieni, vieni, vieni'. Mi ha detto quattro o cinque parole. Sono bastate perché io mi credessi il più benvoluto. Don Bosco mi vuoi più bene che agli altri».
 
Non ho avuto il coraggio.
«Un mese dopo, circa, un compagno mi dice: 'Ieri ho visto don Bosco che ha fatto la vendemmia alla vite delle sue finestre. Sono rimasti però ancora alcuni grappoli; se vieni con me andiamo a prenderli'.
Sono andato. Ma quando sono stato nella stanza dove adesso c'è l'altare, il mio compagno è andato subito a prendere l'uva; io non ho avuto il coraggio. Mi sono fermato là e curiosavo a destra, curiosavo a sinistra; c'era una sedia impagliata - era povero, don Bosco, era povero! - e un cartello con la solita scritta: Da mihi animas, caetera tolle. Stavo li a guardare, quando ho sentito dietro di me alcuni passi. Era don Bosco. 'Sai leggere?', mi disse: 'Sì, sì, so leggere, e l'ho letto'. 'E sai cosa vuol dire?'. 'Sì, so, ma... non so cosa vuol dire caetera'. 'Te lo dico io!'. Me l'ha detto lui e me l'ha spiegato. Intanto il compagno è rientrato con dei grappoli in mano. 'Ne hai trovati ancora? - disse don Bosco - ma solo per te?! Danne un po' anche al tuo amico, metà per uno'. Li ha presi, li ha divisi, metà a lui, metà a me. E poi: 'Bravi! - disse - andate a mangiare e giocare'. Ho pensato tra me: Ma guarda un po'! Invece di sgridarlo gli ha detto: 'Bravo! ne hai trovato ancora?', e poi ne ha dato anche a me!».
 
Aveva una bella voce.
«Un paio di mesi dopo ho visto don Bosco - era una domenica - salire sul pulpito. Non era la prima volta che sentivo parlare don Bosco: l'avevo sentito parecchie volte quando veniva per darci la buona notte. Parlava così, ecco, da don Bosco! Ma io mi dicevo: 'Chissà che predica farà don Bosco!'.
Al mio paese - un paese vicino a Novara -, nelle feste solenni invitavano qualche grande oratore e quell'oratore alzava la voce, gesticolava largamente, dava qualche pugno sul parapetto, si imponeva per il suo prestigio, e io mi dicevo: 'Che bravo predicatore!'.
Pensavo che don Bosco facesse così; invece nulla. Don Bosco si limitò a dire: 'Ecco, quest'anno colla grazia del Signore abbiamo potuto aprire una casa nel tal sito, abbiamo fatto questo e quell'altro colla beneficenza dei nostri cooperatori; adesso ci restano ancora molte cose da fare ma la Provvidenza non mancherà...' e cose simili.
Aveva una voce squillante, non forte, ma bella, chiara, limpida; una dicitura, non so come dire, da bambino semplice. Ha parlato di affari, di benefattori e io tra me ho detto: 'Oh! santa pace! Don Bosco è tanto buono, certo, ma predicatore non lo è. Io saprei fare molto meglio!'».
 
Prima che finisca il mese.
«Una sera don Bosco sale sulla cattedra di legno dalla quale dava la buona notte e dice: 'Domani cominciano gli Esercizi Spirituali; predicherà don Cagliero; vedrete, predica bene, dirà tante belle cose, confessatevi bene, fate la comunione' - proprio così, come parlava lui -. Poi continuò: 'Perché, vedete, potrebbe darsi che prima della fine del mese muoia qualcheduno di noi; quindi stiamo preparati'. Ma io non mi sono impressionato: si può sempre dire di star preparati. Ma, finiti gli Esercizi Spirituali (ricordo sempre la predica del figliol prodigo), abbiam sentito i professori che dicevano: 'Deve morir qualcuno prima che finisca il mese'. Per i primi giorni queste parole ci hanno fatto un po' d'impressione, ma poi non più. Sennonché l'ultimo o penultimo giorno un mio compagno giocava sotto il porticato dove c'era scritto: Non tradas bestiis animas confitentes tibi. Là avevano appoggiato due o tre lettiere con poca pendenza vicino alla parete, legate insieme. Questo mio compagno ha fatto un po' il bravo per farsi vedere eroe. S'è arrampicato su e poi ha guardato indietro; ma c'era poco piede e se l'è tirate proprio sul petto. Siamo scappati tutti via, chi a destra chi a sinistra, ma lui era morto. E allora ci siamo ricordati. Don Bosco l'aveva detto: 'Prima che finisca il mese!'. Ricordo che quel fatto mi ha molto impressionato».
 
Per ordine di don Bosco.
«Verso la fine dell'anno - allora l'anno finiva generalmente verso la metà di agosto - io ero così sfinito di forze che non ne potevo più. Un mio compagno, che era riuscito ad andare nell'orto che si trovava là dove adesso c'è il cortile di Savio Domenico, ne era venuto fuori portando dei pomodori freschi. Quelli maturi e buoni, se li è mangiati lui; gli altri li ha passati a me. Li ho mangiati con avidità e poi forse ci ho bevuto su tant'acqua; non so come sia stato, ma alla sera non ne potevo più e ho dovuto andare a letto.
L'assistente e il professore (che era don Saluzzo, proprio un padre, come l'assistente, don Valentini, era una madre) son venuti subito a vedermi e mi han fatto portare in infermeria. Fu chiamato il medico, il dott. Albertotti, il quale sentenziò: 'È morente'. Mi hanno fatto portare nella camera dei moribondi e furono messi ad assistermi due. Furono subito avvisati i miei genitori i quali, al mattino, si trovarono a Valdocco.
Il portinaio Rossi, quello che don Bosco chiamava il 'Conte Rosso', passando in cortile, li ha presentati a don Bosco: 'Sono i genitori di quel giovane morente'. E don Bosco: 'Ma non è morente! E guarito. Sta benissimo. Portatelo a casa, e a ottobre riportatelo qui, è guarito'. E ha dato la benedizione. I miei genitori avran creduto che fossero parole buone. Son venuti all'infermeria; han sentito la mia voce che battagliavo con i miei due assistenti: 'Portatemi i miei vestiti che devo andare a fare gli esami - cominciavano gli scritti in quel giorno -, non voglio esser bocciato'.
Sono entrati mio padre e mia madre e han visto in sostanza che io non ero morto, che stavo benissimo, che litigavo. Mi portarono subito gli abiti; mi son vestito e mentre mi vestivo un'altra fortuna: entra il Consigliere scolastico, don Ferraro, il quale dice: 'Per ordine di don Bosco sei promosso senza esami'. Son andato a casa trionfante».
Sono buono a fare don Bosco.«Passate le vacanze, son ritornato a Valdocco, al mio paradiso terrestre: io sono stato l'essere più felice in quegli anni. Verso Natale, il nostro professore dice: 'Adesso faremo la prova bimestrale: quelli che riusciranno meglio avranno il diritto di andare a pranzo qualche volta da don Bosco. E poi anche, se vogliono, andare su nelle sue stanze con una certa libertà'. Ho vinto e sono andato, con un altro compagno, a pranzo con don Bosco.
Mangiata la minestra, i miei compagni erano già in cortile a giocare. Don Bosco ha capito che le gambe volevano andar là. Allora ci ha dato due o tre noci e ci ha mandati a giocare. Sono andato ancora altre volte a pranzo con don Bosco, ma del diritto di andare nella sua camera ne ho usato.
Ed ecco come: un giorno assieme al mio compagno siamo andati nella camera di don Bosco per curiosare; c'è quel ritratto li, c'è quella cosa là. Ad un certo punto dico al mio compagno: 'Son buono a fare don Bosco quando va a dormire'. Ed egli: 'Prova'. C'era una scaletta vicino al letto, perché don Bosco aveva le gambe molto gonfie. Prima di tutto ho fatto mostra di fare le devozioni; poi su, con calma - perché don Bosco andava sempre adagio - mi son fatto i tre gradini, poi ho messo il dito nell'acquasantino, mi son segnato ben bene e poi son venuto giù. 'Io faccio meglio di te'. 'Vediamo'. L'altro è andato su anche lui, ma scimmiottando me, non imitando don Bosco; invece di metter il dito nell'acquasantino, ha messo la mano sotto il cuscino di don Bosco, ha preso la sua berretta da notte - berretta bianca - e se l'è messa in testa. Non l'avesse mai fatto. Come un avvoltoio gli son saltato addosso. Lui era più alto di me: ho dovuto salire i gradini e glie l'ho strappata. Ma ci siamo aggrovigliati tutti e due e pum! con un colpo solo siamo caduti contro la porticina che ci divideva dallo studiolo di don Bosco che era di là ed era subito uscito per vedere cosa fosse accaduto.
'Che cosa c'è?' Io piangente - piangeva anche quell'altro, però -: 'È stato Albano che ha preso la Sua berretta e se l'è messa in testa e io non voglio'. 'Dagliela, che veda anch'io come fa'. 'No, no'. E ho disubbidito e la berretta con devozione l'ho rimessa ancora al suo posto.
Don Bosco ha sorriso anche lui: 'Va bene, adesso andate a giocare in cortile'».
 
Gliel'ha insegnata don Bosco
«Dirò quello che mi è successo una volta. Un mattino don Bosco mi vede in cortile con un libro in mano e mi dice: 'Non si deve studiare in cortile'. E io gli ho subito risposto: 'Ma questa mattina son andato a servir la Messa (c'era la Messa del Conte Cays, già anziano, e la Messa era lunga) e non ho potuto andare in studio. Il professor Nassò ci ha detto che oggi sentirà la lezione e io non ne so niente'. 'A che punto sei del tuo greco?', mi dice allora don Bosco. Si era alla fine del terzo anno e si cominciava a studiare un po' di greco. 'Sono alle labiali'. 'Alle labiali. Prova allora a dirmi 'caramella', ma senza far toccare le labbra'. E intanto si frugava in tasca. 'Ti do una caramella se dici 'caramella' senza far toccare le labbra'. 'Cara.., eh non si può!'. 'E neppure io te la do. Ma guarda: le labiali sono così e così'. E mi ha spiegato tutto in poche parole. I compagni han detto al professore: 'Cassani non ha studiato la lezione quest'oggi, ma don Bosco gliel'ha insegnata'. 'Sentiamo un po' come t'ha insegnato don Bosco'. Allora io avevo buona memoria e ho detto quel che mi aveva detto don Bosco. 'Bene, bravo! Ti do venti; cioè dieci con lode a don Bosco che te l'ha insegnata e dieci a te che l'hai tenuta a memoria'».
 
Ce n'è per tutti.
«Don Bosco nell'86 fece diverse conferenze ai giovani di quarta e quinta ginnasiale con ottimi frutti, perché quasi tutti si son fatti salesiani, meno don Lino Cassani e qualche altro.
Un giorno, finita la conferenza, don Bosco disse: 'Questa mattina don Berto mi ha regalato un sacchettino di avallane (non ha detto nocciole; le avallane son più grosse delle nocciole). Festa - così si chiamava il giovane assistente -, portami qui quel Bacchettino'. Un mio compagno, mi pare Vallino, lo teneva in mezzo e don Bosco, seduto, ne dava all'uno e all'altro dicendo: 'Mangiate, mangiate'. E insisteva. Ad un certo punto il chierico Festa dice: 'Signor don Bosco, non ce n'è per tutti'. Io ero là tutt'occhi: 'Ma non calano davvero!'. Don Bosco continuava a dire: 'Mangiate, mangiate!', ma io quelle che avevo ancora in tasca me le sono tenute, e non le ho volute più mangiare. 'Le porto a casa - dicevo fra me -, le faccio vedere ai miei genitori e dico che sono nocciole benedette da don Bosco', e le ho portate nel mio baule.
Il giorno dopo il professore di storia naturale, che era il conte Prospero Balbo, figlio del celebre Cesare Balbo, entrando in classe dice: 'Ho sentito che ieri don Bosco ha moltiplicato le nocciole e che ve ne ha date'. 'Sì, sì, signor Conte'. 'Mi piacerebbe averne qualcuna'. 'Io ne ho ancora, signor conte! Le vado a prendere'. Stavo per uscire, ma egli mi ferma e mi dice: 'Voglio andare io a domandarle a don Bosco. Grazie'. Sono stato un po' mortificato, perché tenevo a dargliene qualcuna, benché non tutte, si capisce.
Portai a casa le famose avallane e le conservai per vari anni con una certa venerazione. Un giorno non le ho più trovate. Ho domandato spiegazione a mio padre, se ne sapeva qualcosa. Mi rispose: 'Un giorno mi sentivo molto male, le ho mangiate e son guarito'. Tra me ho detto: 'Ma... poteva mangiarne anche solo una o due!'. Sia mio padre che mia madre erano persuasi di vivere a lungo perché avevano ricevuto la benedizione di don Bosco. Mia madre è campata 98 anni, mio padre solamente 87 perché aveva mangiato quelle nocciole».
 
Questa musica l'ha fatta don Bosco.
«Un'altra immagine impressa nella mia memoria è quella del maestro Dogliani. E Dogliani mi fa venire in mente un altro episodio. Eravamo nella novena di Natale dell'85: per quella occasione egli ci aveva insegnato una lode italiana che comincia così: Ah, si canti in suon di giubilo! Prima di iniziare le prove aveva detto: 'Guardate, questa musica l'ha fatta don Bosco nei primissimi anni dell'Oratorio, quando faceva lui da maestro di musica. Questa sera viene a dar la benedizione: imparatela bene che gliela cantiamo'. L'abbiamo cantata con entusiasmo e don Bosco ne fu contento e commosso.
Di Dogliani ricordo questa sua bella abitudine: di tanto in tanto dava ad uno di noi la sua bacchetta, ci faceva battere il tempo e dirigere il coro. In quella novena di Natale toccò a me di battere il tempo durante il canto della benedizione. Tutto riuscì bene.
Finita la funzione, Dogliani mi prende con sé e mi dice: 'Adesso vieni a tavola con me là dai Superiori'. Quando don Bosco ebbe dispensato dalla lettura, sono andato davanti a lui e gli ho detto: 'Signor don Bosco, abbiamo cantato bene?'. Don Bosco prende lo spartito che mi aveva dato Dogliani ed esclama sorpreso: 'Oh guarda!'. Anche gli altri commensali, don Francesia, don Durando, ecc, hanno fatto una esclamazione di meraviglia. Era musica scritta da don Bosco, un suo autografo che Dogliani aveva trovato fra tante cartacce di musica».
 
Don Bosco mi chiama.
«Un giorno don Bosco, dopo averci fatto una conferenza, ci parlò così: 'Quattro anni fa ho fatto un sogno. L'ho ripetuto varie volte. Venivo giù dai gradini della sagrestia per attraversare il cortile e si presentò a me un giovane con un bel mazzo di fiori accompagnato da altri giovani e m'ha fatto dei complimenti, ma poi... mi ha voltato le spalle. Ma anche stando voltato chiamava altri giovani perché venissero a me. Ho lasciato fare un po', ma poi l'ho preso per le spalle e l'ho costretto a voltarsi: 'Ma perché mi volti le spalle?'. Il giovane rispose: 'Io sono la campana che chiama gli altri in chiesa, ma essa non vi entra'. Poi ha concluso: 'Quel giovane è qui'. Uno dei più curiosi di sapere chi fosse ero io: 'Chi è?, comincia per A, comincia per B?'. 'Se il giovane me lo domanda in segreto - disse don Bosco - glielo dico, se no, no'. Basta. Parecchi han domandato, ma nessuno era quello visto da don Bosco. Tutto finì li.
Alla fine dell'anno viene don Trione e ci dice: 'Avvisate i genitori che qui a Valdocco, a cominciare dal prossimo anno, non ci sarà più la quinta ginnasiale. Quelli che si fermeranno andranno a fare il noviziato a San Benigno; gli altri provvedano diversamente'. Io ho chiesto ai miei genitori come fare: 'Noi vogliamo - fu la risposta - che tu finisca il ginnasio e il liceo come si deve: dopo vedremo'.
Venne il giorno in cui dovevo partire per casa: avevo già fatto il baule ed ero là vicino al pilastro accanto al quale c'era la cattedra di don Bosco quando ci dava la buona notte. Stavo presso la fontana, forse bevevo, quando sento in me una voce che mi dice: 'Don Bosco ti chiama! Don Bosco ti chiama!'. Mi decido e vado su nella camera del Santo: 'Signor don Bosco, son venuto a salutarLa, perché domani vado a casa, i miei genitori'. 'Sì, sì, bene'. 'Ma prima, signor don Bosco, mi confessi' (era stato il mio confessore per quattro anni). Mi confessò come tante altre volte, poi mi disse: 'Senti un po': non mi domandi chi era quel giovane che suonava la campana, ma che restava fuori?'. 'Ero forse io?'. 'Sì, eri to'. Sono rimasto come potete immaginare. E lui a spiegarmi: 'Non aver paura, non aver paura. Io sarò sempre con te, ti aiuterò, ti assisterò, sta' tranquillo. Non dimenticarmi e vieni sempre nella mia e tua casa'. Son partito commosso. A suo tempo sono entrato in seminario».
 
Don Bosco mi ha visto canonico in Duomo.
«Quello che dico adesso è l'ultimo episodio e poi vi lascio e perdonatemi. Un mezzogiorno del mese di maggio, dopo pranzo, ero seduto nella mia camera e stavo sonnecchiando, quando vedo don Bosco: 'Oh Signor don Bosco!'. Ed egli: 'Non ti han fatto ancora canonico del Duomo?'. 'Ma no!'. 'E perché?'. 'Non so'. 'Se non ti fanno canonico questa volta, guai! Vieni con me'. Lo seguo. Andiamo nella cattedrale; li c'era una bella scala che porta nella sala capitolare: don Bosco andava avanti e io gli stavo di dietro. Lui, che - mi ricordavo bene - andava molto a rilento, perché aveva le gambe ammalate, su quella scala andava diritto come un bersagliere e io, che allora ero proprio un bersagliere (adesso sono un gatto di piombo), stentavo ad andar su. 'Oh santa pace! se don Bosco guarda indietro e mi vede in questo stato che cosa penserà di me?'. Invece non ha guardato indietro; ha aperto la porta della sala e, sul banco dove si vestono i canonici, prende un libro, uno di quei breviari grossi, che si usavano cent'anni fa, e mi dice: 'Questo è il tuo posto'. E scompare. 'Don Bosco mi ha nominato canonico! Ma guarda un po': chissà cosa sarà. Sogni, sogni... ma con don Bosco non si scherza'.
Qualche settimana dopo il Vescovo mi chiama: 'Guarda cosa scrivono da Roma, sei stato nominato canonico del Duomo, e proprio nel giorno di Maria Ausiliatrice di cui sei tanto devoto. Sei contento?'. 'Molto contento, doppiamente contento'.
Quando ho fatto il giuramento ero proprio in quel posto e Mons. Cavigioli ha aperto quel breviario alla stessa pagina dove l'aveva aperto don Bosco!».
 
Questo è per Novara.
«Il giorno di San Giovanni Battista si usava, come sapete, far la festa di don Bosco. Don Francesia aveva fatto per quella occasione una bella poesia in onore di don Bosco. Io allora facevo già la quarta ginnasiale e fui incaricato di recitarla. Quando venne il mio turno, ho declamato la mia poesia, con la carta in mano, ma tutta a memoria! E poi baldo e spavaldo ho salito i gradini del palco e mi son diretto verso don Bosco per consegnargli la carta, come era d'uso. Ma don Bosco mi disse: 'No, no, prima bacia l'anello al tuo Vescovo' (alla destra di don Bosco c'era il Vescovo di Novara). E il Vescovo: 'Ah, ma Lei, don Giovanni, se lo terrà per sé'. E don Bosco: 'No, no, questo è per Novara'. Allora ho baciato l'anello al Vescovo e son venuto giù. Questo per dire che don Bosco non m'ha mai detto di farmi salesiano.
Ma è certo che quando il Signore mi chiamerà, mi chiederà anche: 'Perché non ti sei fatto salesiano?'. E io potrò dire: 'Mah, non sono stato disubbidente a don Bosco nel non farmi salesiano, perché non me l'ha mai detto; comunque don Bosco mi perdonerà, perché quel giorno che m'ha preso per mano la prima volta e poi m'ha lasciato ha destato in me una impressione tale che m'avrebbe accompagnato per tutta la vita. Egli m'avrebbe visto in tutti i miei passi.
Credetemi o non credetemi: Don Bosco ha visto anche questo momento, ha visto anche voi!».
Questa affermazione è stupefacente ed ognuno potrà darle il peso che crede. Essa pone, tuttavia, un interrogativo irrinunciabile. Si può condurre un'esistenza segnata da uno che non è più? Sul piano umano la risposta è un dato frequente e di esperienza comune: si può vivere con l'«amico estinto e l'estinto con noi», come dicono i versi del poeta. Sul versante della fede questa realtà è doppiamente vera in virtù del mistero della Comunione dei Santi, nei quali si è espresso in forma più luminosa il volto umano e divino del Cristo e con i quali è sempre possibile un incontro di amore attuale, permanente, proporzionato al grado di fede e di conoscenza del Santo. Mons. Cassani non ha torto.
 
 
Pietro Brocardo
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