"La vita nell'Oratorio! Ah quanta felicità! Impossibile dimenticarla."
del 07 dicembre 2011
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          Quando, in un convegno di Ex-allievi dei tempi di don Bosco, Giovanni Roda, nato a Moncalieri (Torino) nel 1842 e morto nel 1939, raccontò la sua storia, aveva superato i novant'anni. Ma camminava ancora diritto, spedito; era lucido e simpaticamente comunicativo.
Nella sua lunga esistenza aveva servito tre re d'Italia; era stato trombettista a Villafranca, direttore di banda ad uno sposalizio di casa Savoia; poteva fregiarsi di numerose decorazioni.
Se molti ricordi e piccole glorie si perdevano ormai in nebbie lontane, don Bosco era rimasto il punto luce della sua vita. Marco Bongioanni nel suo brillante saggio Don Bosco tra storia ed avventura, su remota testimonianza diretta dell'antico ex-allievo, confermata recentemente dalla figlia, dà voce poetica al suo incontro con don Bosco e al tempo trascorso con lui. 
Incontro con don Bosco.
«Mi trovavo - narrò - in una delle stradette attorno a Porta Palazzo in zona Molassi. Eravamo in parecchi, c'erano garzoni ingaggiati dai barbieri, dai cappellieri, dai cuoiai, dai sellai, dalle mercantesse, tutta gente che bisognava chiamare monsù e madama. Andavamo là ad aspettare lavoro, perché sui 12-13 anni eravamo maggiorenni e bisognava guadagnarsi il pane.
Porta Pila (oggi Piazza della Repubblica) era una zona strategica. Veramente la piazza era intitolata a Emanuele Filiberto di Savoia, ma nessun torinese né allora né oggi l'ha mai chiamata con tanta solennità. La gente ha sempre detto Porta Pila o tutt'al più Porta Pala, perché introduceva in Torino da Nord verso il Palazzo di Città e la Porta Romana.
Beh! non era il posto migliore per un prete con tutto il chiasso di bancarelle, di ambulanti, di saltimbanchi e di giocatori che si faceva. Ma don Bosco conosceva un po' tutti e quando era necessario non badava troppo alle convenienze. Io l'ho incontrato là, ed è stato così che ho incontrato mio padre.
Lo avevo già visto diverse volte. Sapevo come si chiamava, perché aveva agganciato certi miei camràda (compagni). Ma credo che non avesse mai visto me. Quando mi ha visto mi è venuto incontro tenendo in mano una nosàla (nocciola) e fissandomi negli occhi. Aveva quel sorriso furbo... e le tasche sempre piene di noccioline, mandorle, arachidi e altro. Andava a rifornirsi dai mercanti; poi girava tra banchi e saltimbanchi in cerca di merlotti.
È venuto da me ed ha schiacciato la nosòla così, con due dita, poi mi ha messo in bocca il gheriglio.
- Cosa fai qui?
-Eh, aspetto chi mi dà lavoro.
- Cosa sai fare?
- Un po' di tutto. So imparare.
- Tuo padre e tua madre?
- Sono morti da tanto tempo.
Erano morti di colera subito dopo la mia nascita. Io ero nato nel 1842, il 27 ottobre. Quell'anno arrivò il colera e io ero rimasto solo. Mi aveva allevato una famiglia amica, un po' parente alla lontana. Saputa la mia situazione, don Bosco rimase un poco sopra pensiero masticando e masticando, poi mi agganciò come lo avevo visto fare con altri.
- Non ti piacerebbe venire da me?
- A fare?
- A stare. Imparare qualcosa, un mestiere.
-Eh già che mi piacerebbe.
-Allora vieni, non è lontano.
Gli sono andato dietro come un cagnolino. Ricordo che faceva già abbastanza freddo, era a metà novembre 1854. Don Bosco abitava in un caseggiato, una specie di cascinale, con una chiesina bell'e nuova di fianco [la chiesa di San Francesco di Sales].
Arrivati al cancello, prima di attraversare un cortile, ha chiamato forte: - Mamma, venite un po' qui. Venite a vedere chi c'è.
Ha gridato proprio così, facendo festa come quando arriva un parente o un figlio. Poi ha chiamato Domenico. In quel preciso momento io ho conosciuto mamma Margherita e Domenico Savio, che aveva la mia stessa età e che era arrivato li tre o quattro settimane prima di me. Da quel momento l'Oratorio è diventato casa mia e don Bosco è diventato mio padre.
La vita nell'Oratorio! Ah quanta felicità! Impossibile dimenticarla. A me è andata molto bene, meglio che a tanti altri, e dico subito il perché.
Don Bosco aveva l'abitudine di mettere qualche buon ragazzo a fare da angelo custode a qualche altro ragazzo un po' più desbela ('vivace') e io dovevo essere proprio un desbela coi fiocchi se mi capitò la fortuna di avere Domenico a tenermi d'occhio.
Abbiamo fatto tanta amicizia che ero sempre io a cercarlo; andavo dietro a lui, giocavo con lui, studiavo con lui. E lui mi aiutava, mi dava consigli, a patto che mi comportassi come si deve, che smettessi di fare il monello come a Porta Pila. Eravamo come due fratelli».
La vita li separò presto.
Domenico Savio morì il 9 marzo 1857 in fama di santità; Giovanni Roda si inserì nella vita da «onesto cittadino e buon cristiano»; ma l'immagine dell'amico santo e quella di don Bosco gli restarono dentro sempre. 
A Roma ai piedi di Pio XI
Quando, nel 1933, fu proclamata l'eroicità delle virtù del suo antico compagno, sorse l'idea di condurlo a Roma e presentarlo al Pontefice Pio XI, in una udienza quasi privata. Fu così che Giovanni Roda, con i suoi novantun'anni, si trovò, confuso e commosso, inginocchiato, ai piedi del «Papa di don Bosco», il quale lo invitò a raccontargli qualcosa del santo compagno. Lo fece col candore e la lucidità con la quale, spesso, il vecchio ama ricordare e rivivere la fanciullezza antica.
«Sì, Santo Padre, ho conosciuto Domenico Savio; era mio grande amico, eravamo della stessa età. Lui era tanto buono ed io... un povero orfano. Don Bosco aveva l'abitudine di mettere accanto ai più scapestrati i più buoni, ed io dovevo essere ben cattivo se in iscuola, in chiesa, in refettorio, ovunque, mi collocò a fianco di Domenico, che come angelo custode mi seguiva, mi aiutava ed ammoniva; aveva tale ascendente su di noi che gli ubbidivamo come ad un superiore; era un vero apostolo. Tutti gli volevamo bene e gli eravamo debitori di qualche tratto di bontà.
Un giorno - proseguì il Roda - durante la ricreazione, scusate Santo Padre, mi sfuggì una brutta parola; mi diedi un colpo con la mano sulla bocca, ma era scappata. I compagni l'avevano sentita. Domenico mi si avvicinò e disse: 'Ti sei dimenticato dei nostri proponimenti di non far cattivi discorsi? Va' subito da don Bosco, raccontagli la disgrazia che ti è capitata. È tanto buono; vedrai che aggiusterà tutto. Io intanto andrò a pregare per te'. Non feci il niffolo, andai difilato. Ma dove trovare don Bosco? Era in parlatorio attorniato da alcuni signori. Da maleducato m'intrufolai nel crocchio. Don Bosco, sorpreso, mi disse: 'Vedi, sono tanto occupato, non potresti aspettare un momentino?'. Quelle persone credettero che avessi una commissione d'urgenza e si misero in disparte. Allora mi alzai in punta di piedi e dissi all'orecchio del buon padre: 'Savio mi manda da Lei, ho detto una bestemmia'. Tremavo come una foglia. Don Bosco non mi sgridò, ma vidi sul suo volto disegnarsi una pena tanto profonda! Capii la gravità della mia colpa. Quegli occhi perforavano il cuore. 'Non farlo più, caro figliuolo, non farlo mai più. È un'offesa di Dio, sai! Il Signore non ci benedirebbe. Va' in chiesa e recita tante volte il Padre nostro'».
Il Santo Padre, commosso, sorrideva.
«Corsi dinanzi all'altare, recitai i Padre Nostro e scappai via di corsa, alleggerito come se mi avessero tolto un piombo dallo stomaco. Dimenticai il numero dei Padre Nostro; lo sguardo di Don Bosco, mai. Posso assicurarLa, Santo Padre, ebbi dodici figli e molti nipoti, ma a casa mia non si è mai bestemmiato».
Il caro vecchio aveva parlato rutto d'un fiato e il Papa, che l'aveva ascoltato con benevolo interesse, si congedò da lui con parole affettuose: «Ogni figlio è stato un atto di fiducia in Dio, che si è tramutato in una benedizione. Che il Signore vi conservi ancora in buona salute. Vi auguriamo che, come avete goduto in terra la compagnia dei Santi, la godiate anche in Paradiso».
La felicità di quell'incontro fu indicibile. «Adesso - diceva - posso morire in pace».
Mancò cinque anni dopo, 1939, quasi centenario, nel paese natale di Racconigi.
Nella camera ardente scintillava ancora il lumicino che, da tempo immemorabile, ardeva dinanzi al quadro di Don Bosco suo «Padre e maestro». 
Pietro Brocardo
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