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Celentano: una profonda tristezza tra claque e populismo

Ma vedere Celentano ridotto alla macchietta di se stesso, non per la violenza dell'età, ma per un suo cedimento alla vanità e alla vanagloria, questo è stato uno spettacolo penoso. Ma poi è subentrata la rabbia, perché mi sono ricordato che quel triste spettacolo era pagato anche con i miei soldi, quelli del canone RAI. Caro Celentano, in beneficienza dai i tuoi di soldi, non i miei, a quelli ci penso io.


Celentano: una profonda tristezza tra claque e populismo

da Attualità

del 15 febbraio 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 

SANREMO 2012: LA PERFORMANCE DI CELENTANO

          Chiamato a dare uno sguardo sul pianeta Terra, per la tanto attesa esibizione di Celentano al Festival di Sanremo, non ho potuto contenere un senso di profonda tristezza per tutto l’insieme. Per l’insieme della situazione del paese Italia, che oltre a soffrire per la crisi economica, soffre anche per una drammatica crisi culturale in senso lato, tanto lato da includere anche lo spettacolo, e persino uno spettacolo canoro come il tradizionale festival.

          E perché nonostante la scenografia che ricordava Star Trek e i viaggi nello spazio, il tutto assomigliava sempre di più al “vorrei ma non posso” degli spettacoli delle balere di periferia, visto il grande spreco di aggettivi esagerati sulle qualità canore di cantanti appena passabili, con l’onesto e sempreverde Morandi che si sforzava di fare il bravo presentatore, avrebbe detto Frassica.

          Ma il culmine della modestia culturale lo si è raggiunto con la tanto attesa performance di Celentano. Introdotto da sparatorie, rumori di bombardamenti (qualche effetto speciale a poco prezzo mescolato con spezzoni di vecchi film di guerra, qualche lampo stroboscopico e un po’ di fumo), Adriano è emerso da un ammasso di comparse colpite a morte… facendo cascare subito l’asino: perché incapace di trattenere un sorriso compiaciuto di fronte a un troppo compiacente applauso. Come a dire “anche stavolta vi ho stupito, vero?”.

          Altre volte c’era più congruenza tra il dramma evocato dalla scenografia e i contenuti dei suoi sermoni. Questa volta no: s’è capito subito che si sarebbe dedicato alla ricerca del facile effetto pur di ricavare un po’ di titoli dai giornali del giorno dopo.

          Eccolo quindi subito a testa bassa ad attaccare – davvero senza una qualche plausibile ragione – Avvenire e Famiglia Cristiana, la Corte Costituzionale, a dare del deficiente al critico televisivo del Corriere della Sera Aldo Grasso, a parlare di Gesù e di Paradiso maltrattando i preti, mescolando populismi da bar con qualche mezza verità… insomma un sermone inconcludente, che non aveva nemmeno più l‘insensata follìa dell’Adriano di una volta.

          Un po' meglio il gramelot anglosassone in cui s’è rifugiato (uno dei suoi evergreen) cantando un paio di rhytm and blues, quasi più comprensibile delle sue sconclusionate canzoni, applaudite a gran voce da una sgangherata e davvero eccessiva claque. Pronta addirittura a urlare di entusiasmo alle più modeste affabulazioni populiste.

          Inutile dire che la cosa migliore sono state le canzoni (l’unica cosa che non sembra invecchiare è la sua voce), pescate però per lo più nel vecchio e consolidato (e assai facile) repertorio boogie-woogie. Verrebbe da commentare complessivamente: un po’ di consolidato mestiere senza un briciolo di idee. Giusto la metafora di un Servizio Pubblico che invece di darci il meglio, riesce a spremere il peggio anche dai meglio fichi del bigoncio.

          C’era già riuscito con due mostri sacri come Fiorello e Benigni: uno fiero di poter dire la parola preservativo come momento di grande coraggio sociale televisivo, l’altro addirittura capace di recuperare una modesta goliardata di tanti anni fa così da superare il 50% di share parlando della cacca.

          Un Servizio Pubblico, quindi, capace oramai solo di catturare i suoi telespettatori vecchi-bambini facendoli ridere come infanti alludendo agli escrementi. Un Servizio Pubblico che si appella a un ex-grande, sempre più tristemente simile a un trombone culturalmente sfiatato, solo perché capace di attirare un po’ di audience e di rumore mediatico, a prescindere da qualsiasi contenuto. Un Servizio pubblico che ti riempie l’Ariston di una insipiente claque, pronta ad applaudire Adriano perché fa una pausa bevendo un po’ d’acqua o a urlare “bravo” a Papaleo per aver detto “’fanculo”…

Come si fa allora a non provare un senso di profonda tristezza?

 

Celentano e quella diffusa incapacità di invecchiare bene

          Uno dei problemi che da sempre affliggono certe categorie, segnatamente politici e uomini di spettacolo (ultimamente è diventato peraltro distinguerli tra loro) è la diffusa incapacità di invecchiare bene, senza diventare una macchietta di se stessi. È la triste riflessione che mi ha assalito ieri sera vedendo Celentano al Festival di San Remo. Celentano e io siamo coetanei, abitavamo nella stessa via, anche se non ci siamo mai conosciuti personalmente. Quando risento “I ragazzi della via Gluck”, chiudo gli occhi e rivedo con emozione la zona di Milano, allora ai margini della città, in cui ho passato infanzia e giovinezza. Per questa, e per tante altre canzoni, non posso che essere grato a Celentano. L’altra sera, invece, ciò che mi ha assalito è stata una grande pena. Vedere una persona che si è apprezzata ridotta alla larva di se stessa per la violenza di una malattia, o dell’età, induce un commovente senso di pietà, di compassione, che nulla toglie alla stima avuta per quella persona. Ma vedere Celentano ridotto alla macchietta di se stesso, non per la violenza dell’età, ma per un suo cedimento alla vanità e alla vanagloria, questo è stato uno spettacolo penoso. D’ora in poi, se riascolterò le sue canzoni dovrò fare uno sforzo per cancellarlo dalla memoria.

          Ma poi è subentrata la rabbia, perché mi sono ricordato che quel triste spettacolo era pagato anche con i miei soldi, quelli del canone RAI e quelli della pubblicità pagata anche da me attraverso i prodotti che io e la mia famiglia consumiamo; credo che lo stesso pensiero sia venuto a molti altri italiani. Né vale l’ipocrisia del “ma io do tutto in beneficienza”. E no, caro Celentano, in beneficienza dai i tuoi di soldi, non i miei, a quelli ci penso io. Se avessi voluto essere coerente fino in fondo, saresti andato a San Remo senza farti pagare e, se proprio volevi, potevi anche metterci al corrente delle tue opere di beneficienza, quelle pagate da te, non da noi. Se per caso, caro Celentano, non avessi avuto idee chiare sulle opere da sovvenzionare, avresti potuto chiedere a quella Chiesa che pare ti stia tanto sul piloro. Ti avrebbero sommerso di indicazioni di posti in cui potresti andare anche tu, così desideroso di fare del bene. Attento, però, sono posti in cui bisogna mettere le mani nel fango, non concionare sotto i riflettori.

          L’arrabbiatura peggiore è però nei confronti della RAI, che non perde occasione per dimostrare quanto il concetto di “servizio pubblico”, per cui siamo tassati ogni anno, sia una farsa, meglio, una esplicita presa per i fondelli. Professor Monti, non so se lei abbia avuto ragione a rinunciare alle Olimpiadi a Roma e spero che non abbia commesso un errore marchiano, ma le vorrei dare un suggerimento, si parva licet. Rinunci alla RAI, la sciolga, la venda o, se non è possibile, la faccia pagare solo ai politici, agli attori, a soubrette e veline, opinionisti e via andando con tutto il circo che di Rai vive. Loro saranno liberi di dire e cantare tutto quello che vogliono e noi, liberati dal canone, se staremo ancora ad ascoltarli almeno lo faremo gratis et amore Dei.  

 

Maestro Yoda, Augusto Lodolini

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