Franz Werfel «Ho osato cantare la canzone di Bernadette, io che non sono Cattolico, ma ebreo». I poveri hanno il tempo nel sangue; anche senza quadranti e senza tocchi di campane, sanno che cosa segna l'orologio. I poveri hanno sempre paura di arrivare in ritardo. L'uomo cerca a tasto i suoi zoccoli, li prende, ma li trattiene in mano per non far rumore.
del 06 giugno 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
          «François Soubirous si alza al buio. Sono le sei precise. Il suo orologio d'argento, regalo di nozze dell'avveduta cognata Bernarde Casterot, non l'ha più già da molto tempo. La bolletta di pegno dell'orologio e di qualche altra cosuccia preziosa è scaduta ormai dall'autunno scorso. Ma Soubirous sa che sono le sei in punto, benché le campane della chiesa di Saint-Pierre non abbiano ancora suonato per la prima Messa. I poveri hanno il tempo nel sangue; anche senza quadranti e senza tocchi di campane, sanno che cosa segna l'orologio. I poveri hanno sempre paura di arrivare in ritardo. L'uomo cerca a tasto i suoi zoccoli, li prende, ma li trattiene in mano per non far rumore. Rimane in piedi, scalzo, sull'impiantito freddo come ghiaccio, e ascolta i diversi respiri della sua famiglia che dorme: una musica strana che gli opprime il cuore. Sono in sei a dividere la stanza…».
          È il folgorante, bellissimo inizio del romanzo Il poema di Bernadette di Franz Werfel, che noi conosciamo soprattutto col titolo La canzone di Bernadette, un'opera da cui il regista Henry King trasse un film di eccezionale impatto emotivo che vinse vari premi Oscar negli anni Quaranta, di cui uno, meritatissimo, andò alla protagonista della pellicola, l'attrice Jennifer Jones, che impersonava la giovanissima veggente di Lourdes.
          «Ho osato cantare la canzone di Bernadette, io che non sono cattolico, ma ebreo». Così scrive Franz Werfel nell'introduzione alla prima edizione del romanzo, uscito nel 1941. Soltanto un anno prima, lo scrittore si trovava assieme alla moglie Alma Mahler in Francia. A giugno le truppe tedesche erano entrate a Parigi con Hitler in testa. I due coniugi avrebbero voluto fuggire negli Stati Uniti, ma non avevano i visti necessari. Decisero allora di provare a far perdere le proprie tracce fra i Pirenei, mischiandosi ai tanti sbandati in fuga dall'esercito invasore. «A Pau, una famiglia del luogo ci disse che Lourdes era l'unico posto dove qualche beniamino della Fortuna poteva forse trovare ancora alloggio», racconta Werfel. «Poiché la famosa città era appena a trenta chilometri, ci venne consigliato di tentare e picchiare alle sue porte». E le porte di Lourdes si aprirono ai due fuggitivi, che trovarono in essa accoglienza e alloggio. «In questo modo la Provvidenza mi condusse a Lourdes, della cui storia prodigiosa non avevo fino ad allora la più superficiale nozione». Ma durante le sette settimane di permanenza nella cittadina pirenaica lo scrittore ebreo ebbe modo di conoscere da vicino la vicenda «della giovanetta Bernadette Soubirous e i fatti meravigliosi delle guarigioni di Lourdes». «Un giorno», racconta, «tribolato com'ero, feci un voto. Se fossi uscito da quella situazione disperata e avessi raggiunto la costa americana – questo fu il voto che feci – avrei prima di ogni altro lavoro cantato la canzone di Bernadette come meglio avessi potuto». Il canto di Bernadette, scritto per voto e per necessità interiore, diventò un successo mondiale.
          Onorare la santità. Franz Werfel era nato a Praga il 10 settembre 1890, al tempo dell'impero austro-ungarico, in una famiglia ebraica. Contemporaneo e collega di altri intellettuali ebrei e autori come Franz Kafka, Max Brod e Martin Buber, nel 1929 aveva sposato la vedova del compositore Gustav Mahler e nel 1933 aveva ottenuto la fama letteraria con la pubblicazione dell'opera I quaranta giorni del Mussa Dagh, un grande racconto epico sulla resistenza armena e il feroce genocidio di quel popolo perpetrato a opera dei turchi. Fra le altre sue opere sono da ricordare i romanzi Il colpevole non è l'assassino, ma la vittima (1920), Nel crepuscolo di un mondo (1937), Una scrittura femminile azzurro pallido (1955) e i drammi storici Juarez e Massimiliano (1924) e Jacobowsky ed il colonnello, scritto poco prima della morte, che lo colse a Los Angeles nell'agosto del 1945. Esponente di spicco del movimento espressionista tedesco e convinto pacifista, Werfel fu tra quegli uomini di letteratura che nella prima metà del Novecento seppero esprimere con il loro ingegno artistico una straordinaria e appassionata partecipazione ai problemi del proprio tempo. Come ha scritto di lui il germanista Claudio Magris: «Werfel cercava l'umanità e la grazia ovunque. E come i suoi romanzi, anche le sue idee hanno un denominatore comune, una calda pietà per gli uomini e per la vita». Nella sua produzione letteraria, infatti, sono racchiusi i temi di fondo che l'apparentano a quelli più avvertiti dalla sensibilità popolare: il sentimento religioso, la condanna delle brutalità del mondo, la speranza in un futuro migliore, la fede nell'invisibile. «Sin dal giorno nel quale scrissi i miei primi versi», dice Werfel, «giurai a me stesso che avrei reso onore sempre e dovunque, attraverso i miei scritti, al segreto divino e alla santità umana». E, ancora, lo scrittore sosteneva con grande convinzione: «La fede nel divino non è altro che il sostanziale riconoscimento che il mondo ha un senso, che cioè è un mondo spirituale».
          Un miracolo toccato con mano. Il 16 luglio 1940, un articolo del New York Post annunciava che il famoso scrittore Franz Werfel era stato ucciso dai nazisti. La notizia era del tutto infondata, ma Werfel stava comunque vivendo giorni durissimi e di grande pericolo. Da un po' di tempo, infatti, con la moglie Alma, era costretto a nascondersi nel Sud della Francia, tra carovane di sbandati e profughi in fuga dall'esercito di occupazione tedesco. Dopo aver lasciato l'Austria a seguito dell'annessione del 1938, la coppia aveva vissuto in Svizzera, a Parigi e infine in Provenza, dove si era raccolta una colonia di espatriati tedeschi. Ma pure lì la pace era durata poco. Sotto la minaccia delle truppe di Hitler, sempre più vicine, Franz e Alma si erano dati a una fuga febbrile, nel tentativo di raggiungere il confine spagnolo. Avevano fatto tappa a Bordeaux e poi, attraverso Pau, erano giunti a Lourdes. Confusi tra pellegrini e sfollati, erano rimasti lì circa due mesi, condividendo angoscia e speranza. Senza documenti validi per espatriare, era impossibile passare la frontiera e così lo scrittore e la moglie furono costretti a tornare a Marsiglia dove, miracolosamente, ottennero l'agognato visto per gli Stati Uniti. Werfel fece il voto, se fosse sopravvissuto, di raccontare la storia di Bernadette. Ed è così che nasce questo romanzo bellissimo, che l'autore presenta al 'lettore diffidente' precisando che «tutti gli avvenimenti notevoli che formano il contenuto del libro sono in realtà accaduti ». E, puntualizza lo scrittore, «ho usato del diritto della libertà concesso al poeta solo dove bisognava far scoccare scintille di vita dalla materia trattata». Il libro, pubblicato in edizione originale nel 1941, arriva in Italia alla fine della guerra, nella prestigiosa collana mondadoriana della 'Medusa'; nel 2011 è uscita in Italia una nuova edizione curata dall'editore Gallucci. Un romanzo evergreen, scritto in una prosa calda e raffinata, con punte di virtuosismo stilistico, che si snoda per oltre settecento pagine. «Ho osato cantare la canzone di Bernadette, io che sono ebreo. Il coraggio per questa impresa mi è venuto da un voto molto più antico e inconscio. Sin dal giorno nel quale scrissi i miei primi versi, giurai a me stesso che avrei reso onore sempre e dovunque, attraverso i miei scritti, al segreto divino e alla santità umana: nonostante che l'epoca nostra, con scherno, ferocia e indifferenza, rinneghi questi valori supremi della nostra vita».
Maria Di Lorenzo
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