Guardando la rapida evoluzione del nostro tempo, desta una certa preoccupazione notare nella Chiesa, oltre ad alcune ferite, ritardi e lentezze.
di Piero Coda, tratto da settimananews.it
Guardando la rapida evoluzione del nostro tempo, desta una certa preoccupazione notare nella Chiesa, oltre ad alcune ferite, ritardi e lentezze.
L’impressione forte, imposta dalla realtà che viviamo, è che il corpo e l’anima dell’umanità e del creato siano piagati da ferite profonde e purulente, provocate o se non altro acuite da un bellum omnium contra omnes avvelenato da un uso spropositato e talvolta persino diabolico delle fake news.
Una situazione grave e preoccupante: basti rileggere quanto detto da papa Francesco nel discorso all’ONU del 25 settembre scorso, dove si evoca la drammatica immagine di un’umanità violata, privata di dignità e di libertà, orfana di possibilità di autentico e integrale sviluppo.
Un mondo piagato
Prioritario e irrinunciabile compito teologico-pastorale diventa per noi quello di vedere e assumere queste ferite – uso il linguaggio di Klaus Hemmerle – con occhi di Pasqua: vale a dire nella luce del discernimento pasquale che, nello Spirito, ci dona – per quanto siamo capaci di farli nostri nella fede e d’esercitarli nella carità – gli occhi del Cristo crocifisso e risorto. È questione decisiva della sequela, soprattutto oggi.
Quel che allora può emergere e c’interpella per essere sviscerato con pertinenza e declinato con aderenza storica, è scoprire ricapitolate queste ferite nella piaga del lancinante “perché?” di Cristo sulla croce: che in sé le assume e in sé le ha già trasformate, ephápax, nella grazia e nella misericordia di Dio. E ora c’impegna a trasformarle di fatto – nella grazia assunta dalla nostra responsabilità – in feritoie di luce, di condivisione, di novità, di pace, di gioia.
In una Pasqua che il Popolo di Dio, con la sua estensione universale e in tutte le sue espressioni, di continuo e sempre di nuovo è chiamato a sperimentare e condividere, nella coscienza e nella prassi.
Ed è qui la prima cosa che c’interpella: in queste ferite, ricapitolate in quella piaga, di fatto ci ritroviamo uno, come famiglia umana e comunità ecclesiale. Salvaguardandone la distinzione, certo, consapevoli di ciò che di gratuito e inestimabile portiamo dentro fragili vasi di argilla.
Ma senza più poter ragionare a compartimenti stagni: dobbiamo svestirci dell’autoreferenzialità ecclesiastica di chi si pone di fronte (quando non in contrapposizione) rispetto alle realtà del mondo. In queste ferite siamo “uno”, ci siamo tutti dentro fino al collo… fino a poter attingere insieme, proprio di lì, la grazia di Cristo che è sorgente di vita nuova. Per tutti. È questa un’indicazione non solo formale ma d’indirizzo e contenuto.
Le ferite nella Chiesa
Le ferite, in realtà, sono così profonde perché spingono l’umanità di oggi, dopo un secolare percorso che ha sperimentato nel ’900 i suoi passaggi più dirompenti, verso un risolutivo punto di svolta. Siamo di fronte a un’urgenza che – dice papa Francesco – ci farà uscire o peggio o meglio. Ne vedo quattro, in primo piano, di queste grandi ferite.
La prima è quella antropologica. L’interpretazione e la gestione dell’umano sono giunte a un punto di rottura, anche se con buona probabilità troppo poco ce ne rendiamo conto: il chi è, il come va, il da dove viene e il dove va l’essere umano – non di meno – sono la posta in gioco. La questione del femminile e del maschile, dell’identità di ciascuno e della relazione dei due, la questione del genere, la trasmigrazione da un genere all’altro…
E poi, sempre a livello antropologico, una ferita che papa Francesco ha descritto riprendendo un’affermazione di Benedetto XVI: il progetto creatore di Dio messo in questione, il voler cioè intervenire con tracotanza mascherata di filantropia sul DNA ontologico della creazione, senza tener conto della necessaria fatica e prudenza nella decifrazione umile, attenta e grata del messaggio che in sé la creazione racchiude e ci rivolge: l’inizio e il fine vita, l’ingegneria genetica, gli organismi cibernetici e bionici, la robotica, l’intelligenza artificiale…
E ancora la ferita del pluralismo culturale, la sfida dell’unità nella differenza che per sé segna l’umana civilizzazione: a livello personale, socio-culturale, socio-politico, religioso… Conflittualità o incontro? Polarizzazione o armonizzazione? Ferita a sua volta connessa con quella aperta dal rimescolamento dei popoli e delle società derivante dalle enormi proporzioni assunte dal fenomeno migratorio, che papa Francesco – unico tra i leaders mondiali – discerne come “il segno epocale” della transizione in atto.
Quarta ferita, infine, quella socio-ambientale. La Laudato si’ ci consegna in merito un insegnamento netto e incalzante. Papa Francesco racconta che quando ad Aparecida i vescovi brasiliani parlavano della questione Amazzonia, si chiedeva che cosa ciò avesse a che fare con l’evangelizzazione e la promozione umana. Mentre poi – confessa – ha capito!
La questione sociale collegata con la questione ambientale: due punti di rottura che diventano un unico punto di rottura. Una situazione che rasenta ormai la tragedia. Tutto sotto il manto d’uno specifico paradigma, qualificato da Francesco come tecnocratico: un rullo compressore – sotto le mentite spoglie del miraggio consumistico – che tutto livella e asserve.
I ritardi nella Chiesa
Quale la ricaduta ecclesiale della situazione che così tutti ci accomuna? Crisi epocale, l’ha definita papa Francesco nel discorso alla Curia del Natale 2019. Da decenni in verità lo dicono i più acuti osservatori: fine della cristianità. La pandemia è l’ultima spallata. E mette il dito nella piaga. Il card. Martini diceva che la Chiesa è in ritardo di due secoli: non so valutare temporalmente il ritardo, ma certamente quello sin qui accumulato, e oggi di più in più palesato, è rilevante.
Si stagliano però, nella scia del Vaticano II, alcune piste abbastanza chiare d’impegno che fanno presagire la possibilità d’inaugurare, col tempo, una stagione nuova: piste che chiedono, ciascuna, assunzione di responsabilità, lettura sapienziale, discernimento operativo, profetica sperimentazione.
In primo luogo, le donne nella Chiesa. Un esserci che non va declinato in senso funzionalistico ma di vocazione: e cioè di promozione della loro specifica identità antropologica ed ecclesiale, secondo il disegno di Dio. Un nodo delicato e impegnativo.
Nel ’95, durante la preparazione al Convegno ecclesiale di Palermo, mi permisi di dire al Comitato organizzatore: «In Italia la situazione in proposito è costruttiva e promettente, ma bisogna con coraggio attraversare insieme la soglia… o vogliamo aspettare che si alzi un’onda d’urto che ci obbligherà, obtorto collo, a recuperare dolorosamente il tempo perduto e le occasioni mancate?». L’attenzione allora non ci fu. Né mi pare che in questi 25 anni sia stato fatto granché. Papa Francesco, oggi, finalmente, ci dà segnali forti e precisi.
In secondo luogo, la struttura e la ritmica sinodale della vita ecclesiale. Penso al tema del prossimo Sinodo dei vescovi. E guardo al cammino sinodale della Chiesa in Germania che, visto dall’esterno, è difficile da interpretare perché siamo in un altro contesto culturale ed ecclesiale: ma attesta che vi è qualcosa di grosso che bolle in pentola e che può avere effetti dirompenti per la Chiesa. Non solo in Germania. E noi?
In terzo luogo, l’interpretazione e la gestione dell’autorità e del potere nella Chiesa. Un altro nodo irrisolto. Si pensi alla questione tragica degli abusi di potere e sessuali. Nella lettera al Popolo di Dio il papa chiedeva aiuto. È una questione grave: fa leva su patologie istituzionali prima che psicologiche e tocca immediatamente, e con improrogabilità, il personale ecclesiastico: selezione, formazione, impiego.
La figura rinnovata di Chiesa che ci attende va partorita con pazienza e fiducia, nella grazia: ma non si può tergiversare più a lungo. Occorre muoversi nella direzione non di mettere toppe nuove su un vestito vecchio, ma di ritinteggiarlo tutto, il vestito: come dicono i mistici, di bagnarlo nel sangue di Cristo – lo Spirito Santo (Caterina da Siena).
Infine, l’impegno prioritario espresso da papa Francesco col linguaggio della nuova tappa dell’evangelizzazione. Non ci rendiamo conto che come la figura di Chiesa sta vivendo un ineludibile esodo, di conseguenza un esodo è chiamato a viverlo anche la coscienza e la pratica dell’annuncio del Vangelo.
Evangelizzare oggi
Vengono in particolare in rilievo quattro linee di stile nell’evangelizzazione che oggi si accreditano imprescindibili e che tuttavia faticano a essere assunte dalla coscienza ecclesiale. E a prendere carne nella sua esperienza condivisa di missione.
La prima è la coerenza e la radicalità. Nella consapevolezza che si tratta di doni – grati e immeritati – del Signore. Alla prassi ecclesiale e all’istituzione ecclesiastica viene chiesta una coerenza che sia espressione di radicalità nella fiducia toto corde in Dio. Non si tratta di millenarismo integrista. “Chiesa povera e dei poveri” ne è la figura.
La Lumen gentium, al numero 8, ne parla per la prima volta in un documento di questo livello: la povertà assunta come cifra non solo del mistero cristologico ma del mistero ecclesiale e non più solo delegata a “operai specializzati” (i religiosi) perché la Chiesa tutta, Popolo di Dio e istituzione, non può non viverla.
Eppure, a più di mezzo secolo dal Concilio, assistiamo al triste spettacolo offerto dalle finanze e dalla gestione economica dei beni della Chiesa: invischiate nelle spire d’una piovra che sembra ineluttabilmente soffocare la sua libertà e credibilità d’espressione, a livello universale, locale, delle diverse espressioni ecclesiali.
La seconda è la dialogicità dell’evangelizzazione. L’aveva intuito Paolo VI nell’Ecclesiam suam. Per noi rischia ancora d’essere un semplice modus dicendi. Sì, a parole affermiamo che c’è una forma d’esercitare il mandato missionario che è il dialogo: ma non ci crediamo fino in fondo. Riteniamo che per principio e di fatto è solo un modo collaterale e complementare. E invece no! È il modo stesso della Rivelazione: perché significa in concreto, nell’annuncio, scoperta e valorizzazione dello Spirito Santo anche nell’altro e apertura reale a Dio nell’accadere del suo Regno nel “tra” della relazione.
La terza: la nuova tappa evangelizzatrice va declinata nella logica del lievito e della sinergia, dove il lievito è lievito, non riduzione al minimo comun denominatore, e ha la sua assolutezza – certo – ma relazionale. Perché è sinergia, capacità di costruzione, fermento d’invenzione nel risveglio dell’apertura dell’altro e del dono reciproco e aperto che così s’instaura.
E, ancora, la necessità dell’annuncio come espressione di gratuità e non di proselitismo. In fin dei conti, nel nostro inconscio puntiamo ancora di fatto, nella testimonianza e nell’annuncio, all’autoaffermazione: ad aggregare cioè qualche altro al nostro gruppo sociologico. Quando la missione supererà questa soglia, anch’essa antropologica e psicologica prima che teologale, approderemo in verità a una fase nuova.
Un necessario ripensamento
Le sfide e le linee d’impegno enunciate aprono a una sfida più profonda e decidente. Paolo VI nella Populorum progressio sottolineava che c’è bisogno come del pane per mangiare d’un nuovo pensiero per decifrare e affrontare con realismo e incisività gli ingenti problemi che c’investono. Papa Francesco – basti solo richiamare la Fratelli tutti – esorta a cogliere e a vivere questo tempo di prova come tempo di scelta. Un’opportunità, preziosa, per ripensare il nostro stile e i nostri sistemi di vita.
Occorre ripensare il pensiero (Edgar Morin): viviamo di e in una forma di pensiero che regge il nostro modo di vedere, operare, gestire che non è battezzata nella Pasqua di Cristo. A questo siamo chiamati: guardare a Dio, all’essere umano, alla creazione con occhi nuovi. Gli occhi della Pasqua.
Come discepoli di Gesù abbiamo, in eredità per tutti, uno straordinario talento da trafficare. Non possiamo sotterrarlo. C’è bisogno, perché venga trafficato con frutto, d’investimento in energie, persone, tempo. C’è bisogno – nella logica di Dio – di poche risorse, molta immaginazione, tanta perseveranza. Perché sappiamo che la via che conduce al niente di fatto è lastricata di pie e buone intenzioni. Ciò significa non muoversi più in ordine sparso, ma – finalmente! – come Popolo di Dio che cammina nella compagnia di tutti i cercatori della verità e i costruttori della giustizia.
Impariamo a lavorare, con pazienza, in sinergia: siamo ancora ciascuno tutti concentrati – direbbe Guicciardini – sul proprio particulare. Certo, ci autoconvinciamo di lavorare così per l’universale: ma senza renderci conto che il particolare, per essere universale, deve universalizzarsi (e cioè aprirsi e collaborare in sinergia) in concreto e da subito. Intenzionalmente. Il rischio è di non attivare ciò che dobbiamo promuovere e di temporeggiare ancora… e così l’occasione, il kairós, passa. Si ripresenterà ancora?
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