Come germogli strappati nel momento della fioritura. Perché la giovinezza sin dalla notte dei tempi mal s'addice a sposarsi con il tema della morte: essere giovani è sempre un po' come sentirsi protagonisti di un'avventura capace di sfidare lo scorrere del tempo, l'abbrutimento dei lineamenti, la spossatezza del fisico.
Come germogli strappati nel momento della fioritura. Perché la giovinezza sin dalla notte dei tempi mal s'addice a sposarsi con il tema della morte: essere giovani è sempre un po' come sentirsi protagonisti di un'avventura capace di sfidare lo scorrere del tempo, l'abbrutimento dei lineamenti, la spossatezza del fisico. È come immaginare di giocare una partita di calcio che non preveda un fischio di chiusura, un time-out improvviso, uno stop non calcolato. La morte per un giovane è un grosso imprevisto: non la conteggi, non la consideri, non la metti mai in conto. Poi lei arriva, intrigante nella sua dilaniante sensualità, e sconvolge orari, desideri e progetti costringendoti a riorganizzare un'intera esistenza. Un ragazzo/a che muore – falciato da un camion, distrutto da un malore improvviso, vittima di qualche incidente – è come un orologio che si ferma, come una tempesta in pieno agosto, come una valanga che seppellisce tutto quell'armamentario ben curato e conosciuto che è la nostra esistenza. La morte è un pianto che scende lento a rigare il volto, a rimettere al giusto posto gli ideali, a ridimensionare aspettative calcolate anzitempo. È l'occasione – della quale tutti farebbero volentieri a meno – di guardare dentro l'abisso della propria storia e leggerla con altri occhi. Con gli occhi profondi del cuore.
Le amicizie che rimangono quaggiù scarabocchiano la loro filosofia a mo' di graffito sugli zaini, o in calce ai muretti del quartiere: “vivi come se questo giorno fosse l'ultimo giorno della tua vita”. Chissà se quella scritta arriva dritta dalla mente o nasce nelle remote profondità del cuore; perché se davvero sapessimo che questo è l'ultimo giorno della nostra giovane vita, nessuno sa davvero se lo vivremmo proprio così. Con la razionalità della mente o la spontaneità del cuore: la prima c'ammaestra ad apprendere l'alfabeto per far sì che la nostra vita s'agganci ad altre vite per costruire una società. La seconda ci ricorda – come scrisse Charlie Chaplin – che la vita è come un'opera di teatro che non ammette prove iniziali: canta, ridi, balla, ama e vivi intensamente ogni momento della tua vita, prima che cali il sipario e l'opera finisca senza applausi. Cosicché più che vivere come se questo fosse l'ultimo giorno della nostra vita impareremmo a vivere come se il bello dovesse ancora arrivare. Ad ogni alba che sorge, ad ogni tramonto che s'appisola all'orizzonte. Su un'epigrafe giovane campeggia una frase, scritta con un pennarello indelebile: “nessuno muore se vive nel ricordo di chi resta”. E forse è questo il credito che la morte lascia come traccia del suo passaggio: fa piangere per pulire gli occhi, fa urlare per sbloccare le parole, fa stringere le mani a pugno per poi renderle capaci di apertura. La morte arriva per rimettere in moto la nostalgia della vita: in qualunque caos abitiamo, quello sarà il nostro punto di partenza per tornare a casa, quel luogo familiare e amabile dove ci si sente sicuri anche al buio. Morire è sentire che non c'è più nessuna storia da raccontare per il futuro e al tempo stesso gridare il bisogno di una storia alternativa che parli di speranza quando sembra non esserci più storia. Perché la vita è un amore che ritorna sotto altre vesti, sotto mentite spoglie, vestita in borghese per nascondersi nel mezzo della disperazione.
Il dramma della morte è un inno alla vita scarabocchiato al contrario. Come quella specie di eucalipto australiano che si apre e germina solo se nella foresta c'è un incendio che rompa il suo guscio. Un incendio per poter nascere, un'apparente morte per imparare a vivere, una lacrima sul viso per lavarci il volto. E tornare ad assaporare la vita.
Un’intera nottata buttato vicino a un compagno massacrato con la sua bocca digrignata volta al plenilunio con la congestione delle sue mani penetrata nel mio silenzio ho scritto lettere piene d’amore Non sono mai stato tanto attaccato alla vita (G. Ungaretti, Veglia, 1931)
Don Marco Pozza
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