Sono molti coloro che sembrano chiusi, murati in una prigione di pregiudizi ostili che impediscono loro di cogliere l'evidenza: non vedono che la versione ufficiale non sta in piedi nemmeno per un istante. Ma anche se ammettessimo la sua esattezza, essa non giustificherebbe la brutalità della repressione.
del 15 novembre 2011 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) {return;} js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk'));             In quest’epoca di immagini, a quali credere? A quelle di piazza Tahrir di gennaio-febbraio, immagini di fraternizzazione tra musulmani e copti, di accettazione dell’altro, di unione sacra della nazione? O, al contrario, a quelle del 9 ottobre scorso, di blindati di 6 tonnellate che infierivano, investivano e uccidevano senza pietà i manifestanti copti? A quelle delle chiese bruciate?
          Non disponendo di sondaggi c’è ragione di credere che la maggioranza dei copti abbia scelto la seconda soluzione. Con alcuni buoni argomenti. Ciò che si è visto e sentito il 9 ottobre è terribile. La repressione della manifestazione è stata l’occasione per lo scatenarsi di odio puro.
          Accompagnata da altri atti raccapriccianti: i media ufficiali non si sono accontentati di diffondere ad nauseam discorsi che non hanno né capo né coda su un (preteso e fantomatico) attacco dei copti alle truppe della polizia militare ma hanno lanciato in modo sconsiderato un appello chiedendo ai “cittadini onesti” di scendere in piazza a proteggere l’esercito contro i manifestanti copti (e bisognava sentire come questo aggettivo era pronunciato). Molti “esperti” (ma non tutti) a cui è stato chiesto un parere bevono facilmente, troppo facilmente, le sciocchezze della propaganda sui copti armati fino ai denti che vengono alle mani con l’esercito. Dicono, in breve, che i copti raccolgono quello che hanno seminato e li accusano di aver gonfiato dei “piccoli incidenti” (una chiesa bruciata). Un politico, Fratello Musulmano, intervistato nella notte dalla BBC araba, non ha messo in discussione la versione ufficiale sull’aggressività copta dato che lui, ad Alessandria, ha visto quello che hanno fatto: manifestavano e brandivano delle croci.
          Più in generale, sono molti coloro che sembrano chiusi, murati in una prigione di pregiudizi ostili che impediscono loro di cogliere l’evidenza: non vedono che la versione ufficiale non sta in piedi nemmeno per un istante e che, anche ammettendo che la sua esattezza, essa non giustificava la brutalità della repressione. Quella sera sono stati attaccati qui e là alcuni negozi copti e addirittura l’ospedale copto, dove erano state trasportate le spoglie delle vittime. Si è andati molto vicini a una versione egiziana della notte dei cristalli.
          Ma è stata evitata. La verità si è fatta lentamente strada, come un piccolo rivolo d’acqua. Si è diffusa con il passaparola dei notabili musulmani e copti che erano in testa alla manifestazione e anche di alcuni giornalisti e abitanti del quartiere, musulmani e copti. Si è visto un salafita brandire la croce in segno di solidarietà, indignato per ciò che era stato fatto. Si sono visti numerosi intellettuali, borghesi e gente comune prendere parte al dolore copto e manifestare per loro. E il potere ha dovuto correggere notevolmente il tiro. Ammettere che i morti erano egiziani innocenti. Che la copertura mediatica era “erronea”. Ha presentato le condoglianze, ha compiusto gesti. Certamente, è un “ricalibratura limitata”. Parla ora di agenti provocatori che hanno attaccato l’esercito. Niente fa pensare che esso si chieda perché e come sia stata possibile tanta violenza e se lo fa, è nel chiuso di una stanza.
          Ma come sia stata possibile tanta violenza è la domanda che bisogna porre. Come è possibile che tanta gente onesta e cittadini degni di stima abbiano potuto credere ai discorsi dei media e siano ancora oggi all’oscuro di quanto è accaduto? Dicendo che è necessario porre la domanda, non aderisco ingenuamente alle tesi dei benefici di una comunicazione liberata dai vincoli che non siano quelli dell’argomento migliore, ciò che permetterebbe un’anamnesi. Sono ben cosciente della saggezza della massima musulmana: la sedizione dorme, disgrazia a chi la sveglia. O quella cattolica, sulle porte che sarebbe meglio non aprire. In questo quadro limitato, ripercorrere la storia e l’evoluzione delle rappresentazioni, dei discorsi, degli intellettuali e delle idee che hanno reso possibili, plausibili e ricevibili i racconti, gli stereotipi, le leggende menzognere e i discorsi di odio che oggi prevalgono nelle due comunità è impossibile. Mi limito a due constatazioni: persone degne di stima e rispettabili, copti o musulmani, pensano il peggio sui loro concittadini che non sono loro correligionari. D’altra parte ciascuna comunità dovrebbe cominciare a fare il proprio esame di coscienza, lavare i propri panni sporchi, combattere le proprie insulsaggini e rimettere in discussione il dominio epistemico dei più oscurantisti e reazionari.
          Per contro, posso indicare alcuni punti di riferimento. Ricordo che l’emancipazione copta è un processo messo in atto dalla dinastia di Mehemet Ali, soprattutto con l’abrogazione del testatico nel 1855 voluta da Said, culminata nell’unione sacrée dell’insurrezione anti-britannica del 1919. Laure Guirguis ha mostrato nella sua tesi l’originaria ambivalenza della concordia e della fraternizzazione tra comunità nell’ambito del grande partito nazionalista Wafd (1919). Il discorso del Wafd sulla laicità e sulla secolarizzazione è molto più islamico di quanto generalmente si creda. La Monarchia egiziana e la Costituzione del 1923 non smantellano le strutture dello Stato confessionale e non rimettono in discussione neppure per un istante l’esistenza di più statuti personali. Modernizzano le strutture e i dispositivi, li adattano, per quanto possibile, all’imperativo di uguaglianza e all’idea regolatrice di cittadinanza.
          Ma, nei fatti, questa unione sacrée o questa simbiosi si basa su istituzioni, organizzazioni dello spazio, modi di fare, pratiche quotidiane che organizzano e facilitano la coesistenza. I quartieri “indigeni” dove abitano copti e musulmani e che possono essere contrapposti ai quartieri “europei” o “occidentalizzati” delle classi superiori e delle comunità europee sono bastioni del nazionalismo. Si vive uno accanto all’altro, si parla, ci si rende visita. Un sistema educativo statale che progressivamente prende il sopravvento su quello tradizionale controllato dagli ‘ulamâ’ è accessibile agli egiziani delle classi medie emergenti, indipendentemente dalla loro confessione. I liceali manifestano insieme, fanno sport insieme, studiano insieme. Si conoscono. Ma dopo il 1945 ciò che rendeva possibile questa unione verrà eroso. Non mi soffermerò qui sulla nascita della questione identitaria: l’Egitto è ancora un paese musulmano, con tutto ciò che questo implica? La domanda è stata posta, diffusa, espressa e valorizzata dalla confraternita dei Fratelli Musulmani. Ricordo però ciò che è meno evidente: uno dei fatti sociali principali degli ultimi cento anni è stato la liberazione della donna, la quale ha avuto accesso all’istruzione, al mercato del lavoro e ha scelto il proprio marito. La comparsa della donna nello spazio pubblico sarà una delle cause, se non la principale, della creazione delle strutture comunitarie. In effetti, essa ha reso possibili i matrimoni tra persone di religioni differenti.
          Considerati gli statuti personali e la legislazione, ogni matrimonio “misto” è un conquista per la comunità musulmana e una perdita per le comunità non musulmane: se lo sposo è musulmano, lo saranno anche i figli, e un non musulmano per sposare una musulmana deve convertirsi all’Islam. Stando così le cose, sicuramente verranno lentamente attivate pratiche sociali volte a proibire la donna copta allo sguardo musulmano (per esempio, il capo di famiglia copto porterà i suoi figli da un medico copto), e a organizzare la promiscuità uomo-donna in uno spazio comunitario (le chiese creano dei club annessi al luogo di culto). Per altri versi il principale passivo dei successori del presidente Nasser è stata l’indifferenza di fronte al terribile declino del sistema educativo egiziano, quando la scuola era il fattore e lo spazio d’integrazione per eccellenza. La degradazione e l’estensione dello spazio urbano rimettono in discussione gli stili di vita quotidiani e il vivere insieme, che erano lo zoccolo duro dell’unità nazionale. Infine, all’interno della comunità copta, gli equilibri interni tra grandi proprietari e clero si sono rotti a vantaggio di quest’ultimo a causa dei colpi inflitti ai primi dalle riforme nasseriane.
          Forse queste evoluzioni erano difficili da contrastare. Ma le scelte politiche del presidente Sadat le aggraveranno al punto che esse si riveleranno irrimediabili. Il successore di Nasser, che vuole riconquistare il Sinai (occupato nel 1967) e mettere fine al partenariato con l’ingombrante padrino sovietico, ha bisogno dell’Arabia Saudita all’esterno e degli islamisti all’interno. Per distruggere le roccaforti di sinistra all’università cavalcando l’ondata di religiosità e di “ritorno a Dio” che ha fatto seguito alla disfatta del 1967, favorirà la nascita di un movimento islamista plurale, di discorsi islamisti radicali, alimentando troppo spesso uno o più nauseabondi discorsi anti-cristiani. Gli islamisti più estremisti non si accontentano di “suonarle alla sinistra”, le loro estorsioni a danno dei copti – da un racket presentato come ripristino della jizya agli omicidi, passando per l’incendio delle chiese – sono sempre più numerose. E soprattutto lo Stato, su indicazione dei vertici, guarda altrove. La ferita è profonda e non sarà mai rimarginata. Queste pratiche rianimano la solidissima tradizione vittimistica e il culto del martirio dei copti, i quali percepiscono l’ambiente come unanimemente ostile e preferiscono il ripiegamento su se stessi. Diversi osservatori sono molto critici verso la gestione delle relazioni con lo Stato da parte di papa Shenuda III e ritengono che egli sia arrivato troppo spesso al “braccio di ferro”, che abbia fatto tutto il possibile per opporsi a Sadat, che si sia preoccupato soprattutto di consolidare il dominio del clero sulla comunità e che abbia favorito, all’interno di essa, la diffusione di ideologie antipatiche quanto i discorsi anti-cristiani dell’altra sponda. Non sono sicuro che abbiano ragione su tutti i punti, ma non conosco la questione abbastanza da dare un giudizio netto. Ricordo solamente che non è chiaro se abbia avuto tutta la libertà che gli viene attribuita. Si tende a credere che egli sia all’origine di tutti gli “errori” della sua comunità o delle sue rivendicazioni, comprese le più irrealistiche, ma questo non è provato. Segnaliamo, al contrario, che il suo atteggiamento ostile verso Israele gli sarebbe valso un sostegno molto solido nella “comunità intellettuale egiziana”, musulmani e copti indistintamente, e che sarebbero stati numerosi i membri musulmani di questa comunità che avrebbero provato simpatia e manifestato il loro sostegno alle principali rivendicazioni copte.
          Nonostante il proliferare, all’interno di ciascuna comunità, di discorsi nauseabondi che consolidano spiacevoli “immagini dell’altro”, nonostante l’attuazione quotidiana di pratiche di costruzione di spazi comunitari, nonostante il moltiplicarsi delle discriminazioni quotidiane ad opera di tutti, agenti dell’apparato di Stato e copti inclusi, nonostante infine la relativa frequenza di incidenti violenti, che sono talvolta veri e propri pogrom, la “questione confessionale” resta tabù fino al 2004 quando diventa improvvisamente uno dei temi principali del dibattito pubblico.
          L’emergere della questione e le sue molteplici sfaccettature sono state studiate molto bene da Laure Guirguis. Non mi interessa qui studiare le prese di posizione assunte dagli uni e dagli altri, ma ricordare che la gerarchia copta non ha sempre dato prova di saggezza o giudizio. Oltre a qualche sconcertante eccesso verbale di alcune personalità (l’anba Bishoy, numero due della Chiesa, per esempio) che in virtù delle loro funzioni avrebbero dovuto essere prudenti, la sua gestione degli incidenti relativi alle conversioni (reali o presunte) all’Islam delle mogli di alcuni preti desiderose di lasciare i loro mariti, è stata disastrosa. Tra l’altro le mogli non si sono più viste, ciò che rende credibili le tesi e le voci che evocavano il loro sequestro. Infine, la gerarchia copta ha spesso dato l’impressione di essere arrogante e di sfruttare la fragilità di un regime ansioso di piacere a Washington e di preparare la “trasmissione ereditaria del potere”. Dire questo naturalmente non significa affermare che gli attori statuali o religiosi musulmani siano stati molto più brillanti e la saggezza e l’umanità degli ultimi due grandi imam di al-Azhar sono l’importante eccezione che conferma la regola.
          Ora c’è una situazione di emergenza. La principale evoluzione degli ultimi dodici anni è la “democratizzazione” degli incidenti interconfessionali. Questi non sono più appannaggio di qualche islamista fanatico che sente il bisogno di “rifarsi” sui copti. Oppongono ormai persone che abitano nello stesso quartiere. In qualsiasi lite fra vicini si rischia di perdere il controllo della situazione ed è un miracolo che ciò non accada più spesso. Gli incidenti principali hanno due tipi di cause: a) la questione della costruzione delle chiese, un dossier che ormai non dà tregua all’apparato statale. Allo stato attuale è praticamente impossibile ottenere un’autorizzazione per la costruzione di chiese. I copti costruiscono perciò chiese “illegali” ‒ ma non entrerà nel gretto dibattito sul carattere “necessario o meno” di questi luoghi di culto, desiderati perché necessari o semplicemente perché vietati. Spesso, queste chiese “illegali” o decretate tali sono incendiate da una popolazione “infastidita” dalla loro presenza – intolleranza, sia detto en passant, che 50 anni fa sarebbe stata inimmaginabile. b) Le storie d’amore tra persone di confessione diversa, soprattutto se si traducono nella “partenza della giovane” che lascia il domicilio famigliare. Nessuna delle due “comunità” sembra disposta a riconoscere il diritto degli individui alla felicità – e quella copta è maggiormente giustificabile poiché perde membri a ogni matrimonio misto.
          Questo quadro, molto fosco, spiega il vero e proprio panico che si è impadronito della comunità copta. Essa sapeva che l’assolutismo di Mubarak, malgrado i suoi difetti, costituiva una protezione e apportava una dose apprezzata di liberalismo. Mubarak poteva fare concessioni agli oscurantisti, ma non era uno di loro. Certamente non ha riservato al problema l’attenzione che meritava ma, fino a prova contraria, non l’ha consapevolmente aggravato. Questo panico sarà acuito, in un primo tempo, dall’episodio di Maspero (nell’inconscio copto l’esercito era il baluardo del legame nazionale, il rappresentante dello Stato-nazione egiziano, il protettore ultimo). Il protettore è diventato nel giro di poche ore il carnefice e questo lascerà tracce profonde. In alcune città di provincia le famiglie che hanno i mezzi per farlo cercano di emigrare e, dallo scorso gennaio, oltre 93.000 copti hanno abbandonato il territorio. Resta da capire se è una situazione temporanea a meno.
          Il quadro è già abbastanza cupo e non è il caso di dipingerlo a tinte ancora più fosche. È bene notare che la comunità intellettuale, l’intelligentsia, è molto sensibile al problema e sono molto numerosi i suoi membri che hanno spesso preso le difese dei copti, sapendo trovare le parole giuste e sbagliando di rado. Ancora più rassicurante è il fatto che se i copti, in generale, hanno avuto il sostegno dei musulmani che “non avevano alcun problema con la nozione di uguaglianza dei cittadini”, ricevono sempre più l’appoggio di quanti, molto numerosi, pur non accettando questa nozione di uguaglianza e non amando veramente i cristiani, sono indignati dai maltrattamenti inflitti ai copti e condannano con fermezza e veemenza le uccisioni, gli incendi dei luoghi di culto e dicono a voce alta che l’Islam “non è questo” e che non vogliono più che si verifichino fatti simili.
          Resta ancora molto da fare – tra le altre, un aggiornamento copto – e non dovremmo minimizzare i pericoli: abbiamo visto come alcune centinaia di militanti siano riusciti, l’11 settembre 2001, a guastare il rapporto tra l’Islam e l’Occidente per almeno un decennio. Detto questo, non bisogna neppure sottovalutare le energie e la vitalità dell’umanesimo musulmano, il primo a essere minacciato dall’estremismo.
Tewfik Aclimandos
Versione app: 3.26.4 (097816f)