Il “credere” non è né un toccasana né un'ancora di salvezza. Rimane centrale la battaglia contro le idolatrie, quella che la Bibbia pone come “primo” comandamento. Il credente non è tanto chi “crede” in un Dio, quanto chi è consapevole di dovere combattere tutti i “falsi” che si presentano continuamente...
del 06 dicembre 2008
Credere […] è forte, come la storia di tutte le fedi conferma, perché spinge, stimola, aggrega, incita. Non si può dimenticare il “credere, obbedire, combattere” di tutti i fascismi. Fra il credere e il combattere la strada è corta, facilmente percorribile. Credere è, dunque, un verbo pericoloso.
Ma ne esiste anche un’altra accezione, più debole. Credo, cioè non sono sicuro; forse. Credo di sì, cioè mi sembra. Penso. Al credere, in questa bellissima accezione, si unisce un forse, un “può essere, ma posso anche sbagliare”.
Nel credere, dunque, è in gioco la verità. In una duplice accezione. Da una parte, la sicurezza, ma, dall’altra, il cammino, il percorso, la ricerca, l’uscita dalla terra d’Egitto verso una terra “promessa”.
Il “credere”, dunque, non è né un toccasana né un’ancora di salvezza. Rimane centrale la battaglia contro le idolatrie, quella che, appunto, la Bibbia pone come “primo” comandamento. Il credente non è tanto chi “crede” in un Dio, quanto chi è consapevole di dovere combattere tutti i “falsi” che si presentano continuamente, soprattutto quelli che si presentano in veste, appunto, religiosa.
O anche in veste metafisica: Dio come “essere” supremo. Statico, immobile, stazione di arrivo. Il vero credente lo lascia da parte, come idolo. Si mette in cammino cercando di evitare le “sirene” che da destra e sinistra gli presentano falsi dei.
Nel cammino di questo “credere” debole, in ricerca, il “credente” può trovare aiuto anche in una ricca tradizione della teologia cristiana, quella che ha sempre unito alla fede la speranza e la carità. Si dicono virtù “teologali” perché riguardano direttamente Dio. Si insiste, però, che non si tratta di tre virtù separate l’una dall’altra, come se fossero indipendenti. Come se si potesse possederne l’una o l’altra, ò l’una senza le altre. No: si tratta piuttosto di una sola virtù, di un solo atteggiamento interiore. Non si può credere – la fede – senza sperare e amare. Tre aspetti di un unico atteggiamento virtuoso. Una dottrina troppo spesso dimenticata ma che, invece, dice con chiarezza che il credere non è un atteggiamento né fideistico né intellettualistico: è uno sperare e un amare: Un guardare avanti, verso l’altro e gli altri.
Se si cercasse un verbo vicino al credere, si dovrebbe ricorrere al verbo interrogare: aprirsi, guardare avanti, uscire da sé. Questo è il credere cristiano. Combattere gli idoli, soprattutto tutte quelle sicurezze offerte dalle varie Chiese a sorreggere, da una parte, le loro mire espansionistiche, dall’altro, le debolezze psicologiche dei “credenti”.
Il credere, anche secondo la grande tradizione ebraica, è caratterizzato dal punto interrogativo più che da quello esclamativo. Alla domanda sulla fede: “tu credi?”, un attento pensatore, Gianni Vattimo, risponde, molto cristianamente: “Credo di credere”. 
 
Fonte: Filippo Gentiloni, Credere è camminare, La Meridiana.
 
Filippo Gentiloni
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