Un uomo si avvicina. Non parla, ma dice tantissime cose. Petra ascolta, adesso sa come si fa.
Giorno 25
21 marzo 2020
Un uomo si avvicina a me. Ha i capelli brizzolati, a tratti banchi, argento come le perle, la schiuma, i riflessi del mare. Sono onde scomposte, si muovono al vento che accarezza la sua barba. Aspetta, forse qualcuno. Accanto a sé ha un sacchetto con del pane. È arrivato fin qui a piedi, portandosi appresso una vecchia bicicletta. Chissà dove va, durante il giorno. Non l’ho mai visto da queste parti. Tira fuori il pane dal sacchetto e si mette a mangiare, piano. Ne mangia la crosta, lascia la mollica da parte, la ripone nella busta. Guarda verso l’orizzonte, non distoglie lo sguardo mai, anche adesso che il sole è giallissimo e si abbassa sempre più sul mare. È stata una giornata molto silenziosa. Kyma non si è fatta vedere né sentire; nemmeno Stella è venuta nonostante sia bel tempo e la tempesta se ne sia andata da molto. Ochin sarà rimasto in città o al faro. Lo vedo, da qui, il faro. La sua luce spezza la cortina di buio nella notte, illumina la strada alle navi, ai pescatori che si sono perduti. Kyma è questo per me: è il mio faro, il mio punto sicuro, il posto in cui so di tornare a casa, quando mi perdo nei pensieri e nella tristezza. Ma questo mio faro è spento, adesso, si è nascosto nella nebbia. Kyma, dove sei?
Guardo l’uomo che è rimasto fermo davanti al mare. Ascolto. Ormai lo faccio spesso. Faccio silenzio e ascolto. Lui non parla. Sembra una pietra sopra una pietra, immobile. Sono i suoi occhi a parlare, riempiti del sale del mare, incorniciati da rughe, stropicciati dal vento. Si chiudono, veloci, per poi riaprirsi sotto le ciglia grigie. Chissà quanti mari ha visto, lui. D’un tratto si avvicina alla sua bicicletta e tira fuori da una sacca un amo e una canna di bambù. Dev’essere una specie di canna da pesca, quindi; l’uomo è un vecchio pescatore. Si siede di nuovo accanto a me, getta l’amo in mare, rimane con la canna in mano. Il filo sottile e trasparente congiunge l’aria e il mare. L’uomo attende, guarda fisso il punto in cui cielo e mare si congiungono. Nessun verme è stato incastrato nell’amo, chissà come farà a pescare. Attende e ascolta. Poi, lo sento, lo sentiamo. È un pesce che si avvicina alla scogliera. L’amo brilla. In quel momento, l’uomo tira il filo e riprende l’amo, vuoto. Appoggia la sua canna accanto a sé e tira fuori dalla tasca nera un foglietto stropicciato. Lo legge da vicino, muove le labbra senza dire nulla, ne ripete le parole come fosse una preghiera, come una poesia. Lo chiude, poi, nelle sue mani; chiude gli occhi e aspetta. Il tramonto sta arrivando, tutto si è tinto di oro e rosa chiaro. È uno di quei tramonti delicati, fatti di acquerello e dei colori di settembre. Quando il sole sfiora la linea dell’orizzonte, l’uomo si alza e, guardando la sua luce calda, abbandona il foglio, che scivola nel mare. Si sistema il colletto della camicia, una striscia bianca è incastonata nel nero, una croce di legno al collo. Se ne va prima che il sole sparisca sotto l’acqua. Non si gira a guardare in dietro. Il foglietto si è aperto e, prima che il mare lo inghiotta e lo faccia sbiadire, riesco a leggere le sue parole:
“Mentre camminava lungo il mare di Galilea vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano la rete in mare, poiché erano pescatori. E disse loro: «Seguitemi, vi farò pescatori di uomini». Ed essi subito, lasciate le reti, lo seguirono. “
testi: Anita Marton
grafiche: sr. Giulia Collodel
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