Assistiamo oggi in Occidente a un'eliminazione de facto della pratica ecclesiale del digiuno: così una prassi vissuta già da Israele, riproposta da Cristo, accolta dalla grande tradizione ecclesiale, è sempre meno presente, non più richiesta...
del 01 gennaio 2002
Assistiamo oggi in Occidente a un’eliminazione de facto della pratica ecclesiale del digiuno: così una prassi vissuta già da Israele, riproposta da Cristo, accolta dalla grande tradizione ecclesiale, è sempre meno presente, non più richiesta... Eppure, per ritrovare la propria verità, quella verità umana che con la grazia diventa la verità cristiana, occorre pensare, pregare, condividere i beni, conoscere il male che ci abita, ma anche digiunare, inteso come disciplina dell’oralità. il mangiare appartiene al registro del desiderio, deborda la semplice funzione nutritiva per rivestire rilevanti connotazioni affettive e simboliche. L’uomo, in quanto uomo, non si nutre di solo cibo, ma di parole e gesti scambiati, di relazioni, di amore, cioè di tutto ciò che dà senso alla vita nutrita e sostentata dal cibo. il mangiare del resto avviene insieme, in una dimensione di convivialità, di scambio.
L’oralità è connessa alle dimensioni del «mangiare», del «parlare», del «baciare», dunque alle dimensioni biologica, comunicativa e affettiva dell’esistenza umana, e per questo ci rinvia alla totalità della persona che «vive» di queste dimensioni. il digiuno svolge così la fondamentale funzione di farci sapere qual è la nostra fame, di che cosa viviamo, di che cosa ci nutriamo, e di ordinare i nostri appetiti intorno a ciò che è veramente centrale. E tuttavia sarebbe profondamente ingannevole pensare che il digiuno – nella varietà di forme e gradi che la tradizione cristiana ha sviluppato: digiuno totale, astinenza dalle carni, assunzione di cibi vegetali o soltanto di pane e acqua – sia sostituibile con qualsiasi altra mortificazione o privazione. Il mangiare infatti rinvia al primo modo di relazione del bambino con il mondo esterno: il bambino non si nutre solo del latte materno, ma inizialmente conosce l’in distinzione fra madre e cibo; quindi si nutre delle presenze che lo attorniano: egli «mangia», introietta voci, odori, forme, visi, e così, pian piano, si edifica la sua personalità relazionale e affettiva. Questo significa che la valenza simbolica del digiuno è attinente alla globalità di questi aspetti e pertanto la sua peculiarità non può trovare degli «equivalenti»in altre forme di ascesi che, rivestendo altre valenze simboliche, non possono svolgere la sua funzione. Gli esercizi ascetici non sono interscambiabili!
Con il digiuno noi impariamo a conoscere e a moderare i nostri tanti appetiti attraverso la moderazione dell’appetito fondamentale e vitale: la fame, e impariamo a disciplinare le nostre relazioni con gli altri, con la realtà esterna e con Dio, relazioni sempre tentate di voracità. Il digiuno è ascesi del bisogno ed educazione del desiderio. Solo un cristianesimo insipido e stolto che si comprende sempre più come morale sociale può liquidare il digiuno come sostanzialmente irrilevante e pensare che qualsiasi privazione di cose superflue (dunque non vitali come il mangiare) possa essergli sostituita. Questa è una tendenza docetica che rende «apparente» la creaturalità umana e che dimentica sia lo spessore del corpo sia il suo essere tempio dello Spirito santo. In verità il digiuno è la forma con cui il credente confessa la fede nel Signore con il suo stesso corpo, è antidoto alla riduzione intellettualistica della vita spirituale o alla sua confusione con lo psicologico. Certamente, poiché il rischio di fare del digiuno un’opera meritoria, una performance ascetica è presente, la tradizione cristiana ricorda che esso deve avvenire nel segreto, nell’umiltà, con uno scopo preciso: la giustizia, la condivisione, l’amore per Dio e per il prossimo (Isaia 58,4-7; Matteo 6,I-I8). Ecco perché la tradizione cristiana è molto equilibrata e sapiente su questo tema: «Il digiuno è inutile e anche dannoso per chi non ne conosce i caratteri e le condizioni» (Giovanni Crisostomo); «È meglio mangiare carne e bere vino piuttosto che divorare con la maldicenza i propri fratelli» (abba Iperechio); «Se praticate l’ascesi di un regolare digiuno, non inorgoglitevi. Se per questo vi insuperbite, piuttosto mangiate carne, perché è meglio mangiare carne che gonfiarsi e vantarsi» (Isidoro Presbitero).
Sì, noi siamo ciò che mangiamo, e il credente non vive di solo pane, ma soprattutto della Parola e del Pane eucaristici, della vita divina: una prassi personale ed ecclesiale di digiuno fa parte della sequela di Gesù che ha digiunato (Matteo 4,2), è obbedienza al Signore che ha chiesto ai suoi discepoli la preghiera e il digiuno (Matteo 6,16-18; 9,15; Marco 9,29; cfr. Atti 13,2-3; 14,23), è confessione di fede fatta con il corpo, è pedagogia che porta la totalità della persona all’adorazione di Dio (e si noti che l’etimologia di «adorare» contiene il rimando alla bocca, os-oris, alla dimensione dell’oralità). In un tempo in cui il consumismo ottunde la capacità di discernere tra veri e falsi bisogni, in cui lo stesso digiuno e le terapie dietetiche divengono oggetto di business, in cui pratiche orientali di ascesi ripropongono il digiuno, e la quaresima è sbrigativamente letta come l’equivalente del ramadan musulmano, il cristiano ricordi il fondamento antropologico e la specificità cristiana del digiuno: esso è in relazione alla fede perché fonda la domanda: «Cristiano, di che cosa vivi?».
Enzo Bianchi
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