Abbiamo escluso una soluzione teoretica dell'interrogativo, di come sia coniugabile la sofferenza del mondo con la bontà di Dio; ci è negato, mentre lottiamo, uno sguardo d'insieme sul mistero. Ci è concesso solo lo sguardo all'Abbandonato da Dio in croce: nella sua intima oscurità è riposta la luce che rischiara tutto.
del 01 gennaio 2002 
Nelle fonti bibliche dell’Antico e del Nuovo Patto, non si trova nessuna teoria degna di rilievo sulla sofferenza del mondo. Salvo che non si considerino come tali le due narrazioni della creazione (Gn 2 e 3), che nella stessa Bibbia operano appena un effetto in seguito. La sofferenza dell’uomo ebbe il suo inizio con la sua prima disobbedienza a Dio, a motivo della quale venne cacciato da un paradiso senza sofferenza, il cui accesso ormai era difeso da una spada di fuoco. L’asserzione biblica, inserita nelle narrazioni nello stile della saga, può illuminare un  versante del problema, quello che cioè collega la sofferenza con l’allontanamento da Dio; l’altro rimane nel buio: l’esistenza da un miliardo di anni, prima dell’emergere dell’uomo, di una natura sempre già colma di dolore e anche il fatto che l’uomo entra nella storia del mondo solo come un essere finito, per la durata della sua esistenza terrena limitata. Il peccato può aver offuscato il carattere di questo risultato ma non lo ha creato. […]
Se si penetra con sufficiente profondità nella fede cristiana, che già si esprime con ogni chiarezza desiderabile negli autori del Nuovo Testamento, si trova che Dio nella croce di Gesù e nella sua risurrezione non ha elaborato nessuna teoria per l’esistenza della sofferenza nel mondo, ma ha attuato una prassi in forza della quale la sofferenza – lo si può affermare globalmente – viene immersa in contesto luminoso.
 
La prassi di DioLa sofferenza di Gesù Cristo rimane un mistero che si può accostare solo con profondo rispetto. Egli stesso non solo lo ha saputo anticipatamente, ma ne ha anche dispensati i frutti. “Nessuno mi toglie la mia vita, io la do liberamente” (Gv 10, 18), “Prendete e mangiate, questo è il mio corpo… bevetene tutti, questo è il mio sangue del Patto, versato per molti, per la remissione dei peccati” (Mt 26, 27 ss). Egli dispone della sua sofferenza. Ma essa in cosa consiste? In primo luogo non in una tortura fisica che, in questi tempi, migliaia di uomini dovevano soffrire come lui. Bensì se prestiamo fede ai testi, in qualche cosa di più profondo: nell’abbandono da parte di Dio che Egli, in modo particolare, chiama suo Padre, con il quale era legato come nessun altro, nel cui ‘seno’ Egli riposava sempre. “Nessuno conosce il Padre come il Figlio” (Mt 11, 27). Nessuno quindi può sperimentare un tale abbandono da parte di Dio come il Figlio. Questa è la sofferenza più profonda possibile: sapere, per esperienza, chi è Dio e aver perduto (apparentemente per sempre), questo Dio.
[…] Gesù è precisamente un uomo, e pure qualche cosa di più: Egli è il Figlio del Padre. Perciò la sua sofferenza non solo è la più profonda possibile ma può anche essere espiazione per tutti, perché essa possiede la forza di ‘infiltrarsi’ in tutti i peccati, in tutte le sofferenza del mondo e di mutarle in un’opera di ‘più alto amore’. ‘Più alto amore’ non solo di colui che si offre ma anche di Colui che Lo offre: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo unico Figlio per esso” (Gv 3,16), per riconciliarlo, attraverso lui, che diviene Colui che porta tutti i peccati ( 2 Cor 5,19-21). Questo è il messaggio cristiano, quale l’annuncia il Nuovo Testamento, e solo esso, nella sua totalità può gettare una luce sul nostro problema: Dio e la sofferenza.
Gesù sposta il senso della sua vita non sull’eliminazione della sofferenza, ma sull’immersione nel suo fondamento più profondo: Egli beve il ‘calice’ fino alla feccia e proprio espressamente ‘per noi’. […]
 
Dio e la sofferenzaAbbiamo escluso una soluzione teoretica dell’interrogativo, di come sia coniugabile la sofferenza del mondo con la bontà di Dio; ci è negato, mentre lottiamo, uno sguardo d’insieme sul mistero. Ci è concesso solo lo sguardo all’Abbandonato da Dio in croce: nella sua intima oscurità è riposta la luce che rischiara tutto. L’apostolo non “vuol sapere nient’altro che Gesù Cristo e questi crocifisso” nessun discorso sapiente, perché non resa vana “la croce di Cristo” (1Cor 2,2; 1, 17). Le tenebre si trovano nel grido del crocifisso “Perché”. Un interrogativo di sofferenza acutissima che non riceve risposta. Non può riceverne, poiché quanto qui viene proposto e personificato, è il peccato del mondo: quest’ultimo non ha senso, e non gli si può dare risposta. Ma Colui che eleva il suo grido con l’interrogativo è, nel contempo, Colui che rimette il suo spirito nelle mani del Padre (dileguatosi) (Lc 23,46), come il bambino che pur con il suo interrogativo si fida, malgrado tutto, del padre che lo ha abbandonato. Il silenzio senza risposta non distrugge la fede del Figlio nel Padre.
Ma con ciò l’intero insolubile problema ritorna, in fine, nell’intimo di Dio. Poiché la scena che si svolge sulla croce è quella fra il Padre divino e il suo Figlio divenuto uomo. E lo Spirito Santo comune a tutti e due, che è presente, media l’allontanarsi silente come il silente donarsi di entrambi, testimonia che i due movimenti accadono all’unisono. Scrutiamo più a fondo: certamente è il mondo creato che qui soffre, non Dio. Ma dove dovrebbe esser esso, se non anche in Dio, poiché nulla può esserci al di fuori del Dio onnipresente? Il suo posto è qui, dove in Dio: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono una eterna vita di amore, che può essere tale, soltanto perché le persone si distinguono in Dio malgrado la loro unica essenza. Così il cristianesimo (come unica religione monoteistica), sa che la differenza è qualche cosa di buono, e che la differenza che rimane fra Dio e il mondo creato, il cui essere in Dio, non è messo in dubbio; non c’è infatti un altro luogo.
Ma ciò significa allora che la sofferenza del mondo è vicino al cuore di Dio, sia essa la sofferenza esistente nella natura o quella peggiore che proviene dalla libertà che gli uomini si arrecano l’un l’altro e che Dio non può semplicemente lasciar andare, ma deve giudicare.
Tutto questo è in Dio. E’ un’illusione ottica dell’uomo che “pensa filosoficamente” supporre che la sofferenza avviene ‘qui sotto’, mantre ‘lassù’ un Dio beato che non vi prende parte sta a guardare. Tutti i pugni chiusi degli uomini rivolti contro il cielo puntano nella direzione falsa.
Il sofferente che grida nell’agonia, è in Dio. Egli lo è perché il mondo intero, così come esso è, con tutto il suo sangue e tutte le sue lacrime è in Cristo e detto più esattamente nel Cristo crocifisso è stato pensato e creato. “In Lui noi, secondo il beneplacito di Dio, siamo diventati figli, poiché in Lui noi abbiamo, mediante il suo sangue la redenzione, la remissione dei peccati” (Ef 1, 5-7). “Noi siamo liberati con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia, già scelto prima della fondazione del mondo” (1Pt 1,19ss).
Ma questo significa che l’amore di Dio, già in anticipo, ha abbracciato tutta la sofferenza del mondo; un amore trinitario divino libero, le cui dimensioni, nel tempo e nell’eternità, nessuno può scandagliare; di cui noi soltanto possiamo affermare che lascia dietro di sé ogni forma di sofferenza a cui non si può dare risposta, ma non lasciandola al di fuori, sì assumendola; un amore che può correre anche il rischio di tutte le stoltezze e i delitti della libertà umana ma di cui, senza dubbio, non ha bisogno, per essere amore, al massimo per provare a tutto il mondo che l’”amore è più forte della morte e degli inferi” (Ct 8,6).
 
Redazione GxG
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