In preparazione alla festa di don Bosco, proponiamo alcune riflessioni sul tema dell'accoglienza nello stile del Sistema Preventivo
Se ancora una volta ci troviamo a parlare di don Bosco e del suo metodo educativo è perché riconosciamo in questo grande uomo e santo un modello attuale che, riletto con gli occhi della contemporaneità, può stimolare nuove ricerche e interventi pedagogici. L’attualità di don Bosco, per chi lo conosce approfonditamente, ma anche per chi lo avvicina per la prima volta, è sconvolgente nel messaggio e per le risposte che questo grande pedagogista riesce a trovare alle situazioni del suo tempo, situazioni in realtà non molto dissimili da quelle della contemporaneità. La Torino di don Bosco è una città capitale di un significativo regno italiano ma ancora periferica nel panorama delle città europee del tempo. Eppure negli anni in cui don Bosco la vive, essa subisce cambiamenti sconvolgenti dal punto di vista politico, economico e sociale. Prima la promulgazione dello Statuto Albertino, pubblicato sulla scia delle Costituzioni europee quarantottine il 5 marzo del 1848 sulla Gazzetta Piemontese, in seguito ai moti di stampo liberale promossi dalle classi borghesi e a volte sostenuti anche dall’aristocrazia già dalla fine del decennio precedente; poi lo sviluppo economico improvviso e inatteso che fece crescere l’industria piemontese legandola all’asse Torino-Genova, a cui si aggiunse successivamente Milano nella triangolazione produttiva e dei commerci; infine, le conseguenze sociali della rivoluzione industriale che comportò da un lato un incredibile aumento della ricchezza sbilanciata a favore delle classi già abbienti a danno della precarietà dei lavoratori (specie donne e bambini), dall’altro l’urbanizzazione selvaggia della città sabauda che crebbe a dismisura senza garantire nel contempo alcuna forma di protezione sociale[1].
La situazione sociale di Torino intorno alla metà del XIX secolo, dunque, richiedeva interventi urgenti, a tutti i livelli. Nel quarto decennio la popolazione era passata da 117.072 a 136.849 abitanti, con un aumento del 16,89%; dieci anni dopo l’incremento era pressoché raddoppiato (31,28%), anche in seguito all’ininterrotto flusso migratorio. Intere famiglie trasferite o singoli individui solitamente di giovane età trovarono alloggio nelle periferie che crebbero in modo disordinato e repentino. Le condizioni di vita già precarie di queste persone erano rese ancora meno stabili dall’insicurezza contrattuale e salariale, dalla mancanza di igiene, dalla scolarizzazione assente o lacunosa, dalla malnutrizione e dai distacchi famigliari per lutti o trasferimenti forzati. Con l’aumento del numero di poveri, Torino scoprì presto manifestazioni di pericolosità sociale e degrado morale. Quando don Bosco vi arrivò riconobbe subito delle lacerazioni profonde. Il centro urbano era invaso da orde di ragazzi disponibili a tutti gli impieghi senza alcuna garanzia di protezione. In assenza di qualcuno che si prendesse cura di loro, questi giovani si raggruppavano spontaneamente nei sobborghi in vere e proprie bande. Insieme alla disperazione per le condizioni generali, don Bosco vide crescere la criminalità che portava molti ragazzi alla segregazione carceraria. Seguendo i consigli di don Cafasso, don Bosco fece l’esperienza dell’incontro dei giovani in carcere e poi, come testimonia il piccolo Michelino Rua, “andò per la città, per farsi un’idea delle condizioni morali dei giovani”. Le cronache testimoniano che don Bosco rimase sconvolto. Scrisse rispetto al carcere: "Vedere un numero grande di giovanetti, dai 12 ai 18 anni, tutti sani, robusti, d'ingegno sveglio, vederli là inoperosi, rosicchiati dagli insetti, stentare di pane spirituale e materiale, fu cosa che mi fece orrore". Il vagabondaggio degli adolescenti disoccupati, intristiti, pronti al peggio pur di farsi largo nella vita preoccupò da subito il giovane sacerdote, deciso a dare un’alternativa a questi giovani. Accanto al mercato generale della città scoprì un vero “mercato delle braccia giovani”. “La parte vicina a Porta Palazzo – scrive in seguito – brulicava di merciai ambulanti, venditori di zolfanelli, lustrascarpe, spazzacamini, mozzi di stalla, spacciatori di foglietti, fasservizi ai negozianti sul mercato, tutti poveri ragazzi che vivacchiavano alla giornata”. Don Bosco aveva incontrato i suoi ragazzi, coloro che gli ruberanno la vita. [...]
[1] Umberto Levra, a cura di, Storia di Torino, vol VII, Giulio Einaudi editore, Torino, 2001.
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