Lo racconta Fabio Geda nel libro «Il demonio ha paura della gente allegra» (Solferino), dove intreccia la vicenda umana del santo alla propria di allievo ed educatore...
del 01 febbraio 2019
Lo racconta Fabio Geda nel libro «Il demonio ha paura della gente allegra» (Solferino), dove intreccia la vicenda umana del santo alla propria di allievo ed educatore...
Capita di sentire il bisogno di mettere ordine. Capire come si è arrivati a essere ciò che si è. Capita, ciclicamente. Negli ultimi dieci anni, da quando ho iniziato a dedicare sempre più tempo alla scrittura, mi è successo con una certa frequenza di affidare pezzi di me alle parole. Dovessi, tra le mie arruffate identità, tratteggiarne una cui sono particolarmente legato, e dovessi farne un ritratto per accumulo di gesti, luoghi e situazioni, il risultato potrebbe essere: educare, crescere, basket, prendere posizione, domande, dialogo tra le generazioni, periferia, cortile, strada, camminare in montagna, radicalità, bici, deserto, contemplazione, trascendenza e immanenza, panchine, minori stranieri, fare lavatrici di notte (questa è lunga, ve la spiego in un altro momento), Torino, ascolto, scoutismo, Slovenia negli anni Novanta, servizio, Valdocco, treni, sacco a pelo, fare del proprio meglio. Caffè. Tanto. E potrei andare avanti. Da questo caleidoscopio prende le mosse una cosa che ho scritto e che Solferino pubblica col titolo «Il demonio ha paura della gente allegra». Un viaggio lungo alcune strade che mi è capitato di abitare, soprattutto quelle dell’impegno civile e di una certa idea di mondo. Le strade percorse da un santo sociale dalla personalità fibrillante, San Giovanni Bosco. Quelle lungo cui continua a camminare chi è investito dal suo carisma. E altre. Strade all’ombra di alberi di jacaranda ed eucalipti, come a Catania, o faggi e ippocastani, come a Torino. Strade piene di voci squillanti di bambini e adolescenti, di giovani in cerca di un’alleanza con chi sta costruendo o smantellando il mondo che abiteranno.
Una vita negli ambienti salesiani
Durante la mia vita, fin da piccolo, ho incrociato spesso gli ambienti salesiani. Sono ex-allievo della scuola media Edoardo Agnelli di Torino, quartiere di Mirafiori, proprio accanto alla fabbrica. Di quegli anni ricordo soprattutto il cortile preso d’assalto durante la pausa pranzo, l’armadio dei palloni su cui ci avventavamo per scegliere quello meno usurato, e il professore di lettere, don Saddi, cui credo di dovere parte del mio amore per la lettura. Una volta al mese entrava in classe con un carrello da mensa, in fòrmica e acciaio, carico di libri, e ci invitava a sceglierne uno di pancia, lasciandoci attrarre dalla copertina, dal titolo o dalla sinossi. Una volta letto dovevamo presentarlo ai compagni dicendo se ci era piaciuto o no, e perché. Ho poi trascorso innumerevoli pomeriggi in diversi oratori della mia città. Con i salesiani ho prestato servizio come obiettore di coscienza. Da loro ho ricevuto il mio primo stipendio da educatore negli anni intensissimi del San Luigi, il secondo oratorio fondato da don Bosco dopo quello di Valdocco, a San Salvario, quartiere storico dell’immigrazione torinese tra il Po e la stazione di Porta Nuova. Lì ho chiuso il XX secolo inventandomi un mestiere per cui non avevo studiato, l’educatore, che mi ha poi accompagnato a essere lo scrittore che sono.
Per scrivere «Il demonio ha paura della gente allegra» ho vagabondato tra ricordi personali e luoghi non ancora visitati, mettendomi in viaggio, alla ricerca di luoghi in cui la missione di don Bosco fosse, oggi più che mai, attuale. Mi ha catapultato in una Torino ottocentesca, malsana e maleodorante, dove i ragazzini migranti arrivavano dalla Savoia con speranze non dissimili da quelli che ho incontrato a Catania, in un centro di prima accoglienza gestito da cooperatori salesiani. Mi ha costretto a riprendere in mano la sua vita. Giovanni Bosco, nato in una frazione di Castelnuovo d’Asti nel 1815, arrivato a Torino nel 1841, a ventisei anni, e morto all’alba del 31 gennaio 1888 dopo aver attraversato da protagonista - pur non volendo esserlo e quindi in un modo tutto suo, personalissimo - gli anni del Risorgimento. Dopo aver fondato uno dei più importanti istituti religiosi maschili della Chiesa cattolica. E dopo aver contribuito a modificare il modo di porsi del clero nei confronti di quei ragazzini randagi che abitavano le periferie urbane. Di quel tempo. Di ogni tempo. Certo, non è lui il primo, a metà Ottocento, ad accorgersi di quei ragazzi con la pelle logorata dalle dermatiti e gli occhi infiammati, inconsapevoli di ogni cosa e alla mercé dei peggiori istinti, che ciondolavano per le strade dell’Europa. Erano sotto gli occhi di tutti. In Inghilterra ne scrive Charles Dickens, in Danimarca Hans Christian Andersen. E altri avevano già iniziato a occuparsi di loro in diversi modi, a Londra, a Parigi, a Roma. Ma il suo personale carisma lo pone in primo piano nell’azione educativa.
Agli occhi dei ragazzi don Bosco sa incarnare tanto il lato materno quanto quello paterno della Chiesa. Si propone come serio, ma non serioso. Attento alla morale, ma anche capace di divertirsi. È il suo modo di porsi, la novità. Il catechismo con lui non è noioso perché il suo metodo è dialogico e narrativo: si discute, si recita, si racconta, si canta. Don Bosco è un comunicatore naturale, un buon affabulatore che sa di dover aggiustare il proprio linguaggio a seconda della persona cui sta parlando. Più che il desiderio di dimostrare di sapere, don Bosco nutre quello di farsi capire. Farà di tutto per animare e semplificare i discorsi in modo da coinvolgere anche l’ultimo dei ragazzi. E poi c’è il suo impegno nel campo della formazione professionale. In questo è davvero un innovatore. Tanto per dirne una: don Bosco è l’inventore di quello che oggi conosciamo come contratto di apprendistato. Il primo contratto di “apprendizzaggio” viene firmato in carta bollata da quaranta centesimi l’8 febbraio 1852 dal datore di lavoro, il signor Giuseppe Bertolino, dal suo apprendista, Giuseppe Odasso, dal padre del ragazzo e da don Bosco in persona. Una storia avvincente che mi riguarda personalmente. Che riguarda ciascuno di noi. E che ci pone di fronte a una provocazione: non indietreggiare davanti alla sfida educativa. Anzi, farcene carico con sempre maggiore intraprendenza e con ostinato coraggio. Alzarsi in piedi e camminare al fianco di chi sta crescendo è senza dubbio faticoso, ma da quella fatica non possiamo ritrarci. Accogliere può essere logorante, ma è un logorio che ha lo stesso valore delle rughe: testimonia l’aver vissuto. C’è una grande alleanza tra le generazioni che attende che noi si scenda in campo, ecco cosa. Un grande alleanza tra le generazioni. Di questo, in qualche modo, ho voluto parlare.
Fabio Geda
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