L’infanzia e la giovinezza ad Alessano, nel Salento, dove ha voluto essere sepolto, accanto alla madre Maria. Gli studi a Bologna, l’esperienza in Seminario, poi nel 1982 l’elezione a vescovo di Molfetta. L’impegno contro gli armamenti da presidente di Pax Christi, lo stile austero e l’accoglienza verso i poveri. La vita e le opere del servo di Dio mons. Antonio Bello morto il 20 aprile 1993 e di cui è in corso la causa di canonizzazione
di Antonio Sanfrancesco, tratto da famigliacristiana.it
L’infanzia e la giovinezza ad Alessano, nel Salento, dove ha voluto essere sepolto, accanto alla madre Maria. Gli studi a Bologna, l’esperienza in Seminario, poi nel 1982 l’elezione a vescovo di Molfetta. L’impegno contro gli armamenti da presidente di Pax Christi, lo stile austero e l’accoglienza verso i poveri. La vita e le opere del servo di Dio mons. Antonio Bello morto il 20 aprile 1993 e di cui è in corso la causa di canonizzazione
Balzò agli onori della cronaca mobilitando la sua diocesi contro l’insediamento dei caccia bombardieri della Nato nella sua Puglia. Anche da vescovo, scelse una vita sobria, semplice, di grande umiltà: andava spesso in bicicletta, in auto guidava da solo, discorreva al bar con la gente.Forbito e poetico scrittore, coniugava il magistero evangelico con il servizio di persona alle famiglie di sfrattati che aveva accolto nella propria abitazione del palazzo vescovile. Non temeva di esporsi anche nelle manifestazioni pubbliche partecipando ai cortei non violenti e pacifisti in occasione dei conflitti internazionali. Mons. Antonio Bello, da tutti conosciuto come don Tonino, è nato ad Alessano, in provincia di Lecce e diocesi di Ugento – Santa Maria di Leuca, il 18 marzo del 1935. Il padre, Tommaso, era maresciallo dei carabinieri e la madre, Maria Imperato, una donna semplice e di grande fede. Si era sposata con Tommaso l’8 marzo 1934, ma appena 8 anni dopo rimase vedova e con tre figli piccoli da accudire. Antonio, Trifone e Marcello. Se quel periodo, nel pieno della Seconda Guerra mondiale, fu un periodo difficile per tutta la famiglia, mamma Maria non si abbatté mai. La sua fede e il suo impegno non fecero mancare nulla ai figli.
Di suo padre Tonino ricorda poco. Quando sposa Maria era vedovo e padre di due figli: Giacinto e Vittorio. Morì improvvisamente, probabilmente per un attacco cardiaco il 29 gennaio 1942, quando don Tonino aveva sette anni. Anche i suoi fratelli maggiori (figli di primo letto del padre poi rimasto vedovo) moriranno durante il secondo conflitto mondiale. Giacinto, che era radiotelegrafista sui MAS, morì per infarto a Milano il 3 ottobre 1944. E un anno prima il 9 settembre 1943 anche Vittorio era morto nell’affondamento della corazzata Roma. Due lutti che segnano profondamente Tonino.
Ad Alessano, dal 1940 al ’45 frequenta le scuole elementari, e poi viene mandato in seminario dove nel 1948 consegue la licenza di Scuola Media. Nel 1950 fa richiesta di entrare nel Pontificio Seminario Regionale “Pio XI” di Molfetta. Nel settembre 1953 si trasferisce a Bologna nel Seminario dell’O.N.A.R.M.O. per i Cappellani del lavoro. Tra il 1953 e il 1957 frequenta i corsi di Teologia presso il Pontificio Seminario Regionale “Benedetto XV” a Bologna.
Viene ordinato sacerdote l’8 dicembre 1957 a soli 22 anni nella chiesa collegiata del SS. Salvatore di Alessano e incardinato nella diocesi di Ugento – Santa Maria di Leuca. Due anni dopo consegue la licenza in Sacra Teologia presso la Facoltà teologica dell'Italia settentrionale e nel 1965 discute presso la Pontificia Università Lateranense la tesi dottorale intitolata "I congressi eucaristici e il loro significati teologici e pastorali".
Tra i suo incarichi: vicerettore del Seminario diocesano di Ugento per ventidue anni, assistente dell'Azione cattolica e vicario episcopale per la pastorale diocesana. Il 10 agosto 1982 viene nominato vescovo della diocesi di Molfetta, Giovinazzo e Terlizzi e, il 30 settembre dello stesso anno, vescovo della diocesi di Ruvo, tutte riunite in persona episcopi. Riceve l'ordinazione episcopale il 30 ottobre 1982 dalle mani di monsignor Mincuzzi, arcivescovo di Lecce. Il 1° gennaio 1979 inizia la sua esperienza come parroco alla guida della Parrocchia della Natività di Maria di Tricase.
Eletto Vescovo il 10 agosto 1982 delle diocesi di Molfetta, Giovinazzo, Terlizzi e il 30 settembre dello stesso anno di Ruvo di Puglia, scrive un messaggio indirizzato ai «miei cari fratelli delle chiese di Mofetta, Giovinazzo e Terlizzi» e scrive: «Il Signore mi manda in mezzo a voi perché mi metta a camminare alla Sua sequela, cadenzando il mio passo col vostro, che so agile e spedito». E poi continua: «Sulla via ci aiuteremo a vicenda. Spartiremo il pane e la tenda. Anzi, faremo in modo che la nostra tenda e il nostro pane siano disponibili per quanti, dispersi o sbandati, incontreremo nel viaggio». Infine scrive: «Ancora non conosco i vostri volti, però stringo egualmente la mano di tutti, non solo di voi credenti, ma anche di coloro che, pur non condividendo le nostre speranze cristiane, sperimentano come noi la durezza della strada e si impegnano perché la loro vita e quella degli altri sia più degna dell’uomo. Ma non è già questa una speranza cristiana?».
In questo primo messaggio già sono presenti quelle tematiche che faranno da trama a tutto l’episcopato. Più del messaggio colpì il gesto messo in atto dal neoeletto. Non una delegazione che facesse visita a Tricase, ma lui venne a fare visita al clero il 6 settembre. Arrivò con la sua vecchia Fiat 500 e con la sua consueta cordialità si presentò al clero riunito nell’aula del Seminario Vescovile.
Aperta la sua casa agli ultimi, si impegnò sul fronte della giustizia con chi era nel bisogno, spingendo la sua attenzione verso i più poveri di questa nostra società, i tossici. Sicché nel 1985 fondò la Comunità di Accoglienza e Solidarietà “Apulia”, che nel suo acrostico suona col nome familiare di C.A.S.A., ad indicare che il recupero per i tossicodipendenti non passa solo per una cura disintossicante, ma passa per un recupero di tutta la persona a quote di normalità familiare e sociale. Su questo progetto investì molte energie e molte risorse, destinando ogni provento personale, derivante da predicazioni o offerte per conferenze a questo fine. Anzi, trovandosi in ristrettezze economiche per il pagamento di mutui contratti per l’acquisto della struttura della C.A.S.A. , continuò sempre a confidare nella Provvidenza, tanto da non lasciare alcun debito alla sua morte e consegnando tutta la proprietà alla Diocesi.
A chi gli chiedeva che cosa lo affliggesse di più, don Tonino rispondeva: «Mi fa soffrire molto l'impossibilità di giungere a dare una mano a tutti. Ho un'agenda sovraccarica di persone che chiedono una visita, un sostegno, un appuntamento, del denaro, una soluzione ai loro problemi... Si vorrebbe avere occhi e mani per ognuno, ma non si riesce, e questo è il rammarico più grande».
Una frase che risuonava spesso sulle labbra di Don Tonino era: “Coraggio, non temere”. In uno suo scritto intitolato “Le mie notti insonni”, Don Tonino elenca una serie piuttosto lunga di paure che contaminano l’uomo moderno, minando anche il suo rapporto con Dio. Paure frutto spesso di un progresso che, dopo gli entusiasmi iniziali, si ritorce sull’uomo che vive nell’illusione di mantenersi al passo con i tempi dimenticando che “è dal cuore umano che nasce e si sviluppa la nube tossica delle paure contemporanee” Ma esiste un antidoto contro le paure, il Vangelo dell’antipaura come amava definirlo don Tonino: “Alzatevi…Levate il capo”. È il brano evangelico che si legge la prima domenica di Avvento in cui Gesù esorta alla preghiera e alla fiducia nella liberazione definitiva da ogni timore, da ogni paura, da ogni negatività.
Dal 22 al 29 luglio 1991, predica un Corso di Esercizi Spirituali in occasione del 40° Pellegrinaggio della Lega Sacerdotale Mariana a Lourdes da cui venne tratto lo stupendo volume “Cirenei della gioia”. Condivise con i sacerdoti malati quel momento in cui il cuore umano si affida senza riserve alla grazia di Dio, chiedendo l’intercessione della Vergine Santa, offrendo al Signore la propria debolezza e precarietà terrena.
Don Tonino incontra i poveri personalmente, gira per le strade della città, va alla stazione, incontra i barboni. Non si limita alla compassione, vuole dare loro dignità. La notte di capodanno decide di portare alcuni barboni al ristorante per festeggiare con loro l’arrivo del nuovo anno, ma si rende conto di come sia difficile far accettare la dignità umana dai benpensanti. Dopo averli caricati in macchina e convinti a stare con lui va da diversi ristoranti che si rifiutano di accogliere il Vescovo con i suoi “amici”, anche pagando prima. Non vogliono accogliere quella compagnia per paura di far scappare gli altri clienti. È il perbenismo imperante, al punto che i barboni decidono di ringraziare il Vescovo per la sua buona intenzione e di ritornare al proprio posto alla stazione. Ma il Vescovo, si sente umiliato e insiste e alla fine trova chi è disposto ad ospitarli. Continuerà in questo cammino e farà dei poveri i suoi amici: Antonio il pescatore, Giuseppe l’avanzo di galera, l’ubriaco di Bari.
Poi prenderà coscienza della situazione degli immigrati stretti in stanzoni fatiscenti, rifiutati da tutti. Andrà a trovarli nei loro tuguri in campagna. Sosterrà l’iniziativa della parrocchia della S. Famiglia di Ruvo che si prodigherà per l’accoglienza agli immigrati. Vorrà fare egli stesso l’esperienza della povertà quando ritrovandosi senza soldi all’aeroporto andrà a chiedere un prestito per il biglietto aereo, ma sarà scacciato via. Insegnerà questo stile di povertà con l’esempio quando, chiamato nelle scuole e ricevendo delle offerte (Liceo Classico Molfetta), chiederà alla preside il permesso di portare con sé due studenti per consegnare la somma ricevuta ad una famiglia povera e così farà rendere conto direttamente e in presa diretta dove si annida la povertà a Molfetta.
Nel 1985 viene nominato Presidente nazionale di Pax Christi, facendosi profeta di giustizia sulle vie della pace fino all’ultimo suo respiro. Così scriveva alla vigilia del viaggio a Sarajevo, quando già la malattia aveva minato in modo irreversibile il suo fisico: «Il cammino verso Sarajevo, che si compirà dal 7 al 13 dicembre, da un esercito disarmato di operatori di pace, ha un celebre precedente: l’irruzione di Francesco d’Assisi nel campo militare di Damietta, in Palestina presidiata dal sultano Melik el Kamil. Nel giugno del 1219, la flotta dei crociati partì da Ancona verso la Palestina, alla conquista dei Luoghi Santi. Su una nave salì anche Francesco, col segreto disegno di convertire i soldati a propositi di nonviolenza, ma anche col desiderio di frapporsi, disarmato, tra i Saraceni e i crociati. Una autentica rottura della logica corrente, che sconcertò positivamente il sultano e lo Stato generale del suo esercito. Il cammino verso Sarajevo, che partirà anch’esso da Ancona, vuole ripetere lo stesso gesto di Francesco. Porsi come richiamo alla tragicità della violenza che non potrà mai risolvere i problemi dei popoli».
La malattia lo colse in maniera improvvisa. Egli non si scoraggiò e dopo essere stato operato allo stomaco una prima volta, torno al suo ritmo pastorale. Poi il male riprese tutta la sua virulenza e a nulla valsero le cure. Egli fece del suo letto di dolore un «altare scomodo» da cui continuò ad esortare, a incoraggiare, a stare a fianco del suo popolo, che aveva amato fin dal primo momento e che adesso continuava a servire. Debilitato nel corpo, il suo spirito era più vivo e sensibile che mai. Chi ha avuto la possibilità in quei giorni di avvicinarlo conserva come una reliquia un suo gesto, una sua parola, un suo silenzio.
La sua ultima apparizione pubblica in Cattedrale avvenne il Giovedì Santo durante la Messa Crismale. Posto su di una carrozzella e sollevato di peso volle farsi condurre tra il suo presbiterio e la sua gente. Aveva quasi bisogno di quel contatto fisico con la sua chiesa. Rimase sul presbiterio per tutto il tempo della Messa Crismale, e alla fine volle prendere la parola. Parlò a braccio e tutti sapevano che quello era il testamento che il Pastore stava consegnando al suo gregge. Poi affaticato fu ricondotto nella sua stanza in episcopio, stanza che non lasciò più.
La gente della sua Diocesi lo amava e lui amava la gente. È morto a Molfetta il 20 aprile 1993 all’età di 58 anni. I funerali, celebrati sulla piazza antistante l’antico Duomo, furono seguiti da una folla innumerevole di persone giunte da tutta l’Italia. Il suo corpo fu traslato e tumulato nel piccolo cimitero di Alessano, dove tuttora riposa, accanto alla madre Maria.
La causa di canonizzazione è iniziata nel 2007 e nel 2015 si è conclusa la fase diocesana. Il 20 aprile 2018 nel giorno del suo 25º anniversario di morte, Papa Francesco si è recato in pellegrinaggio sulla sua tomba e poi ha celebrato la Messa a Molfetta.
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