Testimonianza di Franco Nembrini. «Dovendo parlare di educazione posso solo raccontarvi alcuni episodi, alcuni fatti attraverso i quali mi è parso di vedere che cosa fosse l'educazione, ma con una premessa, e cioè che per poter parlare della mia esperienza di padre e di insegnante devo partire dalla mia esperienza di figlio...».
del 12 giugno 2007
A. L’EDUCAZIONE COME INTRODUZIONE ALLA REALTA’                 
 
Dovendo parlare di educazione posso solo raccontarvi alcuni episodi, alcuni fatti attraverso i quali mi è parso di vedere che cosa fosse l’educazione, ma con una premessa, e cioè che  per poter parlare della mia esperienza di padre e di insegnante devo partire dalla mia esperienza di figlio, perché non posso non riconoscere che io ho visto per la prima volta cosa fosse l’educazione con mio papà e mia mamma.
Sono il quarto di dieci figli e  l’immagine che ho del mio povero papà è quando, nella stanzetta dove dormivamo noi sette figli maschi (siamo sette maschi e tre femmine), si inginocchiava in mezzo alla stanza e incominciava a dire il Padre Nostro. Questo era mio padre: uno che guardava una cosa più grande di lui e ci invitava ad andargli dietro senza bisogno di dircelo.
Era uno che, quando sono diventato più grande e tornavo a casa a tarda ora per i mille impegni che c’erano, lo trovavo sempre in piedi, perché non è mai in vita sua andato a letto se non dopo aver chiuso la porta alle spalle dell’ultimo figlio rientrato, e quando alle due o alle tre di notte arrivavo a casa, e  per non farlo arrabbiare troppo gli dicevo: “Dai, papà, diciamo Compieta insieme” lui mi rispondeva: “Vai a letto, cretino, che domani mattina devi lavorare: dico io Compieta per te”, e si fermava e diceva la quarta o la quinta volta Compieta, la diceva per me, perché io potessi andare a riposare.
Il giorno prima di morire, paralizzato a letto, completamente afono, gli ho chiesto come stava,  e ha risposto allo stesso modo con cui aveva risposto per tutta la vita: “farès pecat a lamentam” che in italiano significa “Tutto è Grazia”. Mio padre era così.
E così era  mia mamma, che è morta ormai tanti anni fa (nell’85),  una donna molto semplice, figlia di contadini, che aveva tirato su dieci figli e che morì confidandomi: “Mi dispiace di morire, perché adesso che siete un po’ più grandi, avrei potuto fare un po’ di bene”.
So bene che mi potreste obiettare: “roba da albero degli zoccoli, fatti e atteggiamenti di un mondo che non c’è più” e l’osservazione sarebbe assolutamente ragionevole.
Ma io vi ho parlato dei miei genitori perché credo di aver imparato da loro un criterio fondamentale, che il tempo ha mostrato come assolutamente decisivo nell’itinerario educativo. E questo criterio lo potrei definire così: che l’educazione è un problema di testimonianza. Non è un problema dei bambini o dei ragazzi o dei giovani. Se sono così allo sbando oggi non è per colpa loro (o meglio, è anche per colpa loro) ma la prima responsabilità è la nostra.
In educazione il problema non è la generazione dei figli ma la generazione dei padri, non la generazione dei discepoli ma quella dei maestri.
In altre parole: i figli vengono al mondo, esattamente come 100 o 1000 anni fa, con lo stesso cuore, con lo stesso desiderio, con la stessa ragione di sempre, caratterizzati cioè da un insopprimibile desiderio di Verità, di Bene, di Bellezza. Cioè con il desiderio di essere felici.
Ma quali padri, quali maestri, quali testimoni hanno di fronte?
 
Esempio di Stefano.
 
L’educazione incomincia quando un adulto intercetta questa domanda e sente il dovere e la responsabilità di rispondere.
Ma è chiaro che non potrà rispondere con regole o raccomandazioni o teorie: può rispondere solo con la vita.
 
Lettura e commento di Deuteronomio 6, 20-25
Quando in avvenire tuo figlio ti domanderà: Che significano queste istruzioni, queste leggi e queste norme che il Signore Dio vi ha date? Tu risponderai a tuo figlio così: eravamo schiavi del faraone in Egitto e il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente. Il Signore operò sotto i nostri occhi segni e prodigi grandi e terribili contro l’Egitto, contro il faraone e contro tutta la sua casa. Ci fece uscire di là per condurci nel paese che aveva giurato ai nostri padri di darci. Allora il Signore ordinò di mettere in pratica tutte queste leggi, temendo il Signore nostro Dio così da essere sempre felici ed essere conservati in vita, come appunto siamo oggi. La giustizia consisterà per noi nel mettere in pratica tutti questi comandi, davanti al Signore Dio nostro, come ci ha ordinato.
 
Dante nel Paradiso, interrogato da S. Pietro sulla fede, si sente chiedere:
“Quella cara gioia sopra la quale ogni virtù si fonda, dimmi, donde ti venne?”
 
Perché io potevo desiderare, bambino, di essere come mio papà? Perché presentivo, sapevo che mio papà sapeva le cose che nella via è importante sapere. Sapeva del bene e del male, della verità e della menzogna, della gioia e del dolore, della vita e della morte.
Cioè senza discorsi e senza prediche mi introduceva ad un senso ultimamente positivo dell’esistenza, di tutti gli aspetti della vita. Era la testimonianza vivente di una Verità conosciuta.
Se l’educazione, come dice don Giussani nel Rischio Educativo è “introduzione alla realtà totale, cioè alla realtà fino all’affermazione del suo significato”, bene mio papà faceva esattamente questo.
E questo, mi pare, è proprio ciò che manca ai giovani oggi: sono cresciuti senza che venisse loro offerta questa “ipotesi esplicativa della realtà” e perciò paurosi, trovandosi di fronte a tutto perennemente indecisi, e tristi, e perciò così spesso violenti. Perché, lo sappiamo bene noi adulti: non si può rimanere a lungo tristi senza diventare cattivi.
Ma rendiamoci conto che la tristezza dei figli è figlia della nostra, la loro noia è figlia della nostra.
Ecco, mio padre, lo dico volutamente con un paradosso, ci ha educati perché non aveva il problema di educarci, di convincerci di qualcosa. Lo desiderava, certo, certo pregava per questo, ma era come se ci sfidasse: “io sono felice, vedete la mia vita, vedete se trovate qualcosa di meglio e decidete”. Perseguiva tenacemente la sua santità, non la nostra. Sapeva che santi a nostra volta lo saremmo potuti diventare solo per nostra libera scelta.
 
 
B. L’EDUCAZIONE COME MISERICORDIA
 
Ma questo non è bastato, non è bastato perché si è infilato nel rapporto tra me e loro qualcosa che lo ha incrinato. Avevo 17 anni, e nonostante l’educazione ricevuta in casa si insediò in me il dubbio, lo scetticismo, insomma, andai in crisi, una crisi profonda, di cui soffrivo molto.
La cosa che mi faceva soffrire maggiormente era che il nulla divorava ciò a cui tenevo di più, divorava mio padre e mia madre, i miei fratelli e i miei amici: era un sentimento di inconsistenza della realtà, mi franava tutto addosso.
Guardavo mia madre lavorare in casa e piangevo perché sentivo che qualcosa me la stava portando via, neanche il bene che le volevo reggeva, perdevano di consistenza tutte le cose che mi erano care.
Vissi un anno o due in una crisi molto profonda, abbandonando evidentemente la pratica religiosa, che non mi diceva più niente, anzi, sfidando con cattiveria una mia sorella che nel frattempo aveva incontrato Comunione e Liberazione, dicendole: “Dimmi da che cosa ti avrebbe salvato il Salvatore, da che cosa ti avrebbe redento il Redentore? Siete come gli altri, anzi peggio degli altri, soffrite e morite come gli altri: dove sta la salvezza? Da che cosa ti avrebbe salvato? Quando esci la domenica dalla Messa che cosa puoi dire di te stessa più di quello che posso dire io?”
Non poteva evidentemente dire allora (aveva 19 anni), non poteva rispondermi quello che oggi, risponderemmo insieme: che il di più che Gesù ha portato nella vita è semplicemente l’io, l’io, una persona che prima non c’era, una coscienza di sé e delle cose che prima non c’era, e che era quello che io stavo cercando.
Che cosa era mancato nell’educazione che avevo ricevuto? Era successo ai miei genitori quel che sarebbe accaduto al padre di una mia alunna qualche anno dopo. Vi racconto brevemente l’episodio.
 
Una volta è venuto a trovarmi il papà di una mia alunna (un po’ strana, un po’ fuori di testa), molto preoccupato e addolorato per la figlia che lo faceva tribolare. Suonò il campanello quella sera a casa mia, cenammo insieme, e alla fine, affrontando il problema che gli stava a cuore scoppiò a piangere, si tirò su la manica della camicia facendomi vedere le vene e, quasi urlando disperatamente, mi disse (siccome aveva capito che tra me e sua figlia, invece, un po’ di feeling era nato, ci si intendeva, insomma), mi disse, battendosi la mano sul braccio: “Professore, io la fede ce l’ho nel sangue, ma non la so più dare a nessuno. Può farlo lei? Lei può farlo: lo faccia, per carità, perché io ce l’ho nel sangue, ma non la so più comunicare nemmeno a mia figlia”.
 
Ecco, lì m’è venuta l’idea che il problema della Chiesa  fosse il metodo, la strada, che tutta la genialità del contributo che don Giussani offriva alla Chiesa e al mondo era questo: la scoperta che la fede, tornando ad essere un avvenimento presente, fosse finalmente dicibile, comunicabile.
Poi ho capito che tutto il dramma di quel genitore era questo:  pensava che tra lui e sua figlia ci fosse una generazione di differenza, e invece s’erano infilati tra lui e sua figlia quattrocento anni, cinquecento anni di una cultura che aveva negato tutta la sua tradizione e le cose di cui lui viveva, e che televisione e scuola – dal secondo dopoguerra in poi – avevano infilato tra lui e sua figlia.
Ecco cosa era mancato ai miei genitori e a quel padre: la consapevolezza di questa distanza e il metodo, la strada per superarla. E la si poteva superare solo riproponendo il cristianesimo nella sua elementare radicalità: una presenza viva, capace di illuminare le contraddizioni dell’esistenza in modo convincente. Non la soluzione dei problemi ma un nuovo punto di vista da cui affrontarli, non una teoria contrapposta ad altre teorie, ma, per dirla con Guardini “l’esperienza di un grade amore nel quale tutto diventa avvenimento nel suo ambito”.
E’ il grande richiamo di Benedetto XVI nel memorabile discorso di Verona alla Chiesa italiana. Allargate la ragione, sfidate la modernità per raccogliere tutto il positivo ma anche per denunciare le insufficienze di una cultura nichilista e relativista che si è costruita negli ultimi secoli e che per tanti aspetti si è rivelata nemica dell’uomo.
 
Poi è avvenuto l’incontro con don Giussani: folgorante.
Venne a casa mia. La mia povera mamma aveva un dolore grande, e cioè che il primo dei dieci figli, che era stato in seminario, ne era uscito sull’onda della contestazione e aveva non solo abbandonato la pratica religiosa e la Chiesa, ma aveva  fondato uno dei primi gruppi extraparlamentari dei nostri paesi, insieme ad altri sette ex-seminaristi. Don Giussani venne a conoscere i miei genitori: confessò la mia mamma, che credo gli abbia parlato del suo dolore. Mio fratello non era in casa quel giorno. La settimana dopo da Milano arrivò un pacco di libri  per questo mio fratello che lui non aveva conosciuto. E con mio grandissimo stupore il pacco di libri, invece che contenere Bibbie o Vangeli, conteneva Il Capitale di Carlo Marx e altri libri di quel tipo. Fu il giorno in cui ebbi il primo sospetto serio che Dio esistesse, perché solo Dio può fare una cosa così; ho avuto lì l’idea che l’altro nome dell’educazione sia misericordia, sia carità, sia quella cosa per cui Dio ti viene incontro lì dove sei: non ti chiede prima di cambiare, non ti chiede prima di fare qualcosa, è lì dove sei tu, con i tuoi gusti, con i tuoi interessi,  col tuo temperamento, con i tuoi peccati.
Vedere  Giussani che senza paura, senza venir meno a niente di se stesso, regalava Carlo Marx a mio fratello perché sapeva che lui era lì, ecco, mi fece venire questa idea: che l’educazione è questa misericordia in atto, per cui Dio ci viene incontro lì dove siamo. Insomma mi venne il sospetto che quell’uomo avesse a che fare con Dio, perché non mi avrebbe mai chiesto di cambiare prima di volermi bene: mi voleva bene così come ero.
 
E’ la natura stessa dell’amore. Gratuità assoluta. “In questo sta l’amore: che Dio ci ha amati per primo, mentre eravamo ancora peccatori”.
 
Questa identificazione dell’educazione con la misericordia porta con sé alcune conseguenze che mi sembrano decisive:
 
a.   che l’educazione non poggia su tecniche psicologiche o pedagogiche o sociologiche. E’ l’offerta della propria vita alla vita dell’altro. E’ l’offerta di una proposta di vita esistenzialmente significativa e convincente che ha le sue radici nella esperienza lieta e certa del testimone. Se per educare fossero bastate le parole sarebbero piovuti Vangeli, invece Lui è venuto, compagno della nostra povera esistenza.
b.   Se è così l’azione missionaria del cristiano e della Chiesa tutta non può che consistere in una coraggiosa testimonianza della fede là dove gli uomini vivono, dove i giovani consumano la loro giovinezza, in primis la scuola. Non si può più immaginare di svolgere l’azione pastorale in ambiti chiusi, diversi dai luoghi di studio e di lavoro, e di divertimento, ma bisognerà ricominciare a incontrare i nostri fratelli uomini là dove essi vivono i loro interessi, i loro affetti, la loro intelligenza e operosità. Una fede che non si dimostrasse pertinente alla vita reale, che non si mostrasse capace di esaltare l’io, il cuore e l’attesa del singolo, non potrà mai suscitare curiosità e interesse e desiderio di seguire.
c. Il problema coi figli o con gli alunni non può essere farli diventare cristiani, farli pregare, farli andare in Chiesa. Se ti poni così sentiranno questo come una pretesa da cui difendersi e da cui prendere le distanze.
Tutto il segreto dell’educazione mi pare che sia questo: i tuoi figli ti guardano: quando giocano non giocano mai soltanto, qualsiasi cosa facciano in realtà con la coda dell’occhio ti guardano sempre, e che ti vedano lieto e forte davanti alla realtà è l’unico modo che hai di educarli.
Lieto e forte non perché sei perfetto (tanto non lo crederanno mai, e come è patetico e triste il genitore che cerca di nascondere ai figli il proprio male) ma perché sei tu il primo a chiedere e ad ottenere ogni giorno di essere perdonato.
Così tra l’altro con loro sei libero, anche di sbagliare, libero dall’angoscia di   dover far vedere una coerenza impossibile, perché il tuo compito di padre è semplicemente quello di guardare un ideale grande, sempre, e loro ti tentano, loro tendono l’elastico, ti mettono alla prova sempre: sono tutti figliol prodighi.
E’ quella che nel Rischio educativo si chiama  “funzione di coerenza ideale” è la grande funzione educativa: che tu stai, che tu resti, resti lì, e magari loro si allontanano e di sottecchi guardano sempre se tu sei al tuo posto, se tu hai una casa, se tu sei una casa, e torneranno, anche quando fanno le cose peggiori.
Questa solidità, questa certezza che hai tu e che vivi tu con i tuoi amici e con tua moglie, è l’unica cosa di cui hanno bisogno i figli per essere educati, è l’unica cosa che anche senza saperlo ci chiedono, e su questa testimonianza poggia la loro speranza. Si tratta di scommettere tutto sulla loro libertà.
Pensate alla parabola del figliol prodigo (che ora che ho letto il libro del Santo Padre  chiamerò sempre “la parabola dei due fratelli”): noi siamo sempre tentati di trattenerli in casa, e invece loro vogliono andare, misurarsi con tutto il reale, e noi a volerli tenere sotto una campana di vetro. Abbiamo paura della loro libertà, perché è uno strappo, una ferita che sanguina. Oppure confondiamo la responsabilità con il nostro diventare come loro: lascio anch’io la casa con te, così magari ti tengo d’occhio da vicino. Ma che disperazione per i nostri figli se, volendo tornare un giorno a casa, scoprissero che non hanno più dove tornare, non hanno più chi li aspetti, chi li perdoni!
  E’ il RISCHIO EDUCATIVO: Un amore sconfinato per la libertà dell’altro perché è questa libertà che il Padre ha amato e stimato fino a sopportare lo strappo del figlio che se ne va.
 
 
C. L’EDUCAZIONE COME SLANCIO MISSIONARIO
 
Una volta mio figlio Andrea mi ha detto (era in prima liceo) serissimo. “ma papà, noi siamo una famiglia normale?” Perché tutto fuori di qui dice il contrario: scuola, TV, amici.
Allora ho capito che sentiva una estraneità tra l’insegnamento in casa e la vita, la vita nel mondo normale. Si trattava di fargli veder un altro “mondo”, un altro mondo in questo mondo.
 
Esempio della Sierra Leone e della domenica sera.
 
Che si sposa con quello che ho detto all’inizio: la testimonianza di un ideale grande, verificato e verificabile ogni giorno nel paragone con tutto l’orizzonte dell’esperienza umana, con tutto il mondo.
Così che siano loro a poter dire “questa è la vittoria che vince il mondo: la nostra fede”. Ma devono ricevere una proposta decisa, intera che tenga conto di tutti gli aspetti della realtà e di tutte le dimensioni della persona. Con la consapevolezza che l’esito non è in mano nostra: non sappiamo cosa Dio riserva a noi, al Paese, al mondo. Dobbiamo probabilmente accettare l’idea di essere a lungo una minoranza, un piccolo gregge, forti solo di due cose: la certezza che ”portae inferi non prevalebunt” e la certezza della sua misericordia, di ciò che la tradizione chiama “merito”. Cioè la speranza certa che per la fede di alcuni molti saranno salvati, come insegna l’episodio biblico di Abramo che contratta con Dio la salvezza della città per i meriti di dieci giusti.
Franco Nembrini
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