Elementi di attualità nel Sistema Preventivo di Don Bosco

Stralcio da una conferenza di don Francesco Motto. «Il fine ultimo dell'educazione preventiva di DB - che oggi definiremmo un'esistenza umana individuale, sociale e religiosa compiuta - è storicamente espresso nella classica espressione di “salvezza dell'anima”. Essa è il punto di arrivo di un lungo cammino iniziato su questa terra attraverso una vita di grazia di cui...».

Elementi di attualità nel Sistema Preventivo di Don Bosco

da Don Bosco

del 29 gennaio 2007

 1.  Le caratteristiche dell’operare di Don Bosco

 

L’essere e l’operare di Don Bosco fin dai primordi manifestano caratteristiche assistenziali, sociali e pedagogiche. Per Don Bosco il presupposto per un discorso educativo vero e proprio è la sollecitudine per il soddisfacimento dei bisogni fondamentali dei giovani: vitto, vestito, alloggio, sicurezza, lavoro, sviluppo fisico e psichico, inserimento sociale, un minimo di valori ecc. Viene poi - ma i due momenti non sono cronologicamente separabili - l’educazione vera e propria del giovane volta alla promozione ed all’espansione della dimensione cognitiva, affettiva ed etica: competenza decisionale, capacità di responsabilità morale e civile, indispensabile cultura di base e professionale, cosciente e coerente impegno religioso ecc.

Dunque il Sistema Preventivo si modula in due distinte operazioni: un’assistenza che provvede ai bisogni umani primari nel tentativo di prevenire i possibili pericoli di disagio e ogni forma di marginalità umana culturale e sociale; e una prevenzione propriamente educativa (o anche rieducativa) per una maturazione sociale, morale e religiosa del giovane.

Tale discorso sembra oggi ancora attuale, considerando come, a seguito dalle profonde trasformazioni avvenute nella società, sia in atto un deciso recupero delle valenze assistenziali e sociali del Sistema Preventivo, come anche di quelle valoriali proprie della sfera affettiva, emotiva, naturale e soprannaturale.  (…)

 Oggi l’impegno educativo si estende sempre di più e i compiti dell’educatore sono sempre più difficili da eseguire e verificare. Se un tempo vi erano quasi solo il cortile, la chiesa, il laboratorio, la scuola, oggi siamo in presenza di diversi tipi di scuole, di istituti educativi e terapeutici, di comunità di accoglienza per ragazzi e giovani in difficoltà, di centri di prevenzione contro la tossicodipendenza, di consultori, di interventi umanitari per i giovani che vivono per la strada, di campi profughi con gran numero di ragazzi e giovani, di centri di accoglienza per immigrati… E tutto ciò all’interno di una società complessa e cosmopolita.

   

 

 2. Lo spazio sempre più “aperto” per un’educazione preventiva 

 

Don Bosco ha attuato il suo progetto attraverso la cooperazione di vaste cerchie di persone. Nell’utopia di un movimento vasto come il mondo ha sognato la collaborazione e la complementarità di tutti i cattolici militanti e di tutti gli uomini di buona volontà interessati al futuro dell’umanità. Concretamente però la sua esperienza si è attuata per lo più in un istituto: un sistema “istituzionale” chiuso, separato, apolitico, autonomo dove tutto si svolgeva all’interno di un preciso spazio educativo autosufficiente, dove i maestri ufficialmente riconosciuti erano Don Bosco e i suoi”figli” e dove vigeva un’unica e semplice cultura: quella cattolica della classe popolare, la cui unica aspirazione era il provvedersi di sufficienti mezzi di vita terrena, in attesa del premio celeste di tale vita.

Oggi per poter praticare il Sistema Preventivo sembra invece necessario il massimo coinvolgimento, con relativa responsabilità morale, di tutti gli “operatori“ di educazione, auspicabilmente di tutti gli adulti che, a vario titolo, incidono sull’educazione dei giovani e sulla loro capacità di compiere scelte esistenziali: genitori, insegnanti, educatori, assistenti e operatori socio-sanitari, politici, economisti, amministratori a tutti i livelli, agenzie educative, organizzatori scolastici, gestori di mezzi di comunicazione di massa, associazioni culturali, sportive, di tempo libero, religioni, chiese.

Per la valorizzazione della funzione educativa di tale galassia di adulti si richiede necessariamente un progetto educativo, che contempli orientamenti etici, strumenti giuridici, sussidi economici, strutture capaci di coordinare, mettendole sinergicamente in rete, tutte le forze attive disponibili a dare il loro contribuito alla crescita umana della gioventù. Formare alleanze condividendo strategie, tempi, modalità comporta logicamente non piccole difficoltà, tenuto conto della disomogeneità e divergenze delle forze in questione. Ma si tratta di una conditio sine qua non per cogliere i frutti del nostro impegno educativo . 

 

  

3. Santità e salvezza

 

Nella teleologia pedagogica donboschiana la salvezza dell’anima è il motivo ispiratore che dà vita al suo dinamismo e al suo metodo educativo, in piena sintonia con la pastorale ottocentesca che dell’ansia per la salvezza faceva un imperativo categorico del proprio agire.

Il fine ultimo dell'educazione preventiva di Don Bosco - che oggi definiremmo un’esistenza umana individuale, sociale e religiosa compiuta - è storicamente espresso nella classica espressione di “salvezza dell’anima”. Essa è il punto di arrivo di un lungo cammino iniziato su questa terra attraverso una vita di grazia di cui è garante la Chiesa, che può crescere fino a forme eroiche di amore di Dio e del prossimo. In tal caso siamo di fronte alla santità da altare, alla santità canonizzata.

    Ma santità altrettanto vera e propria, la più diffusa - la “feriale” per restare al tema di queste giornate - è anche quella di chi vive in stato di grazia abituale perché è riuscito, con lo sforzo personale e con l’aiuto dello Spirito, ad evitare il peccato nelle forme più comuni dei giovani: cattivi compagni, discorsi cattivi, impurità, scandalo, furto, furto, intemperanza, superbia, rispetto umano, mancanza ai doveri religiosi…     

    La capacità di conseguire tale “salvezza-santità” è condizionata dalle diverse disposizioni o disponibilità delle succitate categorie di giovani “discoli, dissipati, buoni”. Pertanto saggia pedagogia è quella del Sistema Preventivo di Don Bosco, che, in relazione alle diverse capacità di capire, assimilare e vivere, agisce con gradualità, differenziazione e gerarchizzazione di fini, di contenuti, di proposte.  

    Ma anche la “santità” tour court non è un obiettivo proposto solo a qualche ragazzo “buono”, a qualche élite aristocratica, ma a tutti i giovani di Valdocco, studenti e artigiani indifferentemente: “è volontà di Dio che ci facciamo tutti santi; è assai facile di riuscirvi; è un gran premio preparato in cielo a chi si fa santo”. Solo che i migliori presero alla lettera tale vocazione; uno per tutti, Domenico Savio, vissuto nel “piccolo seminario di Valdocco” (“Io mi sento un bisogno di farmi santo, e se non mi fo santo, io fo niente. Iddio mi vuole santo ed io debbo farmi tale”; altri la realizzarono in solo maniera pregevole, (Francesco Besucco, Michele Magone), altri ancora come potevano. E sarà poi Don Bosco ad indicar a ciascuno l’itinerario congruo, dalle forme più alte di costante contatto col Signore a quelle, più semplici, di compimento del proprio dovere quotidiano.

 

 

 4. Il noto trinomio

 

Ragione

 

 L’educatore in sintonia con Don Bosco crede che la ragione è dono di Dio, ed è grazie ad essa che si possono scoprire i valori del bene, fissare gli obiettivi da perseguire e trovare mezzi e modi per raggiungerli. Alla ragione e alla ragionevolezza (che diventa facilmente buon senso, sano realismo, autentico rispetto delle persone) si collega la capacità dell’educatore di adattarsi ai vari ambienti e situazioni in cui si trova ad operare, di prestare una diversa attenzione ai singoli giovani. Nel Sistema Preventivo la ragione appare come un mezzo educativo fondamentale in quanto essa deve avere la meglio sull’impostazione violenta, sull’accettazione indiscussa del comando. Una ragione che va anche educata attraverso lo studio, la scuola, l’istruzione, rispettosa dei valori umani e cristiani. Nell’introduzione di uno dei suoi primi libri, la Storia Sacra, Don Bosco scrisse: “In ogni pagina ebbi sempre fisso quel principio: illuminare la mente per rendere buono il cuore”. 

    Ma anche la ragione, come le altre due parole del trinomio, sono da rileggersi alla luce di evidenti rivoluzioni di concetti e di mentalità. All’epoca di Don Bosco e per buona parte del secolo successivo la “cultura” salesiana si è rivelata molto tradizionale, conservatrice, e per lo più unicamente funzionale ad una professione o studentesca o artigiana; anche la modalità di trasmissione di tale “cultura” è stato prevalentemente autoritaria, chiusa a libere letture, alla ricerca personale, al confronto e al dibattito.

    Oggi a fronte della razionalità tecnologica, dell’evasione nell’emozionale immediato, dell’avvento del “pensiero debole” e insieme della domanda di “pensiero critico” all’interno di una “società liquida”, la ragione è invitata a recuperare la pienezza del suo significato e delle sue funzioni: osservare, riflettere, capire, provare, verificare, cambiare, adattarsi, decidere, sviluppare, assimilare prontamente, e in modo flessibile, tutte le proposte e le suggestioni provenienti dal “campo di lavoro educativo” e dalla riflessione accademica.

Ed è proprio con la “ragione” che si costruisce quell’antropologia aggiornata ed integrale di cui sopra, con la quale l’educatore legge attentamente i segni dei tempi e ne individua i valori emergenti che attraggono oggi i giovani: la pace, la libertà, la giustizia, la solidarietà, la partecipazione, la promozione della donna, le urgenze ecologiche…

 

 

Religione

 

 La forma più alta della ragione-ragionevolezza umana è l’accettazione del mistero di Dio. Per Don Bosco la religione costituisce l’obiettivo massimo, l’elemento unificatore di tutto il suo sistema di educazione. La religione, intesa sia come religiosità che come religione positiva, si pone al culmine del processo educativo, ma nello stesso tempo è strumento di educazione, funzionale ad una vita cristiana orientata alla comunione con Dio creatore e Gesù redentore. Don Bosco è convinto che non sia possibile una vera educazione senza un’apertura al trascendente:

Non si tratta di una religione speculativa e astratta, ma di una fede viva, radicata nella realtà, fatta di presenza e di comunione, di ascolto e di docilità alla grazia. Non per nulla “le colonne” dell’edificio educativo sono l’Eucaristia, la Penitenza, la devozione alla Madonna, l’amore alla Chiesa e ai suoi pastori. L’educazione è allora un “itinerario” di preghiera, di liturgia, di vita sacramentale, di direzione spirituale:: per alcuni, risposta alla vocazione di speciale consacrazione; per tutti, la prospettiva e il conseguimento della santità.

 Quella che fu preoccupazione di Don Bosco di fronte ai fenomeni dell'indifferentismo, dell'anticlericalismo, della irreligiosità, della proselitismo protestante, del paganesimo non dovrebbe essere molto diversa da quella degli educatori di oggi, ai quali però si chiede                        un ben più sodo e approfondito confronto cultura-fede, non fosse altre per il fatto che fra loro e don Bosco si colloca, come s’è accennato, il secolo che ha visto il modernismo, il movimento liturgico, la fondazione e il rinvigorimento della morale e della spiritualità, il ritorno alle fonti del messaggio cristiano annunciato nella Scrittura, il Concilio Vaticano II, l’ecumenismo, la riscoperta del ruolo dei laici nella Chiesa… e anche, contemporaneamente, guerre e rivoluzioni politiche e sociali di dimensioni planetarie, diffusione di una mentalità relativistica nei campi sia del sapere che del vivere, ricorrenti fondamentalismi e cortocircuiti tra religione, stato, politica, crisi del diritto internazionale…

 

 

Amorevolezza

 

Il termine Amorevolezza è onnipresente nella letteratura salesiana, anche se inteso in modalità diverse. E’ costituita da una vera disponibilità per i giovani, simpatia profonda per loro, capacità di dialogo, bontà, cordialità, comprensione. Propria dell'educatore preventivo, essa si traduce nell’impegno di essere un persona 'consacrata' al bene degli educandi, sempre presente in mezzo a loro, pronta ad affrontare sacrifici e fatiche nell’adempiere la propria missione.

Siamo così pervenuti ad un altro termine “mitico”: l’assistenza, sovente unicamente inteso come assillante e onnipresenza fisica in grado di difendere un minore e proteggere un debole sprovveduto, senza porre sufficiente attenzione al rischio di bloccarne il naturale e legittimo processo di autonomia maturante.

Nella prospettiva dell’amorevolezza vengono privilegiate le relazioni personali. Don Bosco ama usare il termine familiarità per definire il rapporto corretto tra educatori e giovani. Il quadro delle finalità da raggiungere, il programma e gli orientamenti metodologici da seguire acquistano concretezza ed efficacia, se improntati a schietto spirito di famiglia, cioè vissuti in ambienti sereni, gioiosi, stimolanti. A questo proposito va almeno ricordato l’ampio spazio e la dignità dati da Don Bosco al momento ricreativo, allo sport, alla musica, al teatro e al cortile. È nella spontaneità ed allegria dei rapporti che l'educatore sagace coglie modi di intervento, tanto lievi nelle espressioni, quanto efficaci nei risultati per la continuità e per il clima di amicizia in cui si realizzano. Per non parlare dell’esperienza di gruppo, elemento fondamentale della tradizione pedagogica salesiana.

    Oggi l’amorevolezza tradizionale andrebbe ripensata tanto dei fondamenti, quanti nei contenuti e nelle sue manifestazioni. Lo esigono l’inedito rapporto tra adulti e giovani e l’autocoscienza di questi, sempre più attenti a lasciarsi “catturare” affettivamente e pericolosamente dagli adulti (pedofilia), la critica situazione delle loro famiglie, caratterizzata dalla mancanza di relazioni fraterne (figli unici), di costante presenza della madre (inserita nel mercato del lavoro ) di rapporti duraturi fra genitori (divorzi, separazioni).

  Si rende così quanto mai necessario “inventare una concreta e articolata “pedagogia preventiva familiare”, che riapplichi, con particolare cura critica, in situazioni mutate, i concetti chiave del “sistema”, in particolare la problematica “amorevolezza”, oscillante tra creatività affettiva, senso rassicurante di appartenenza, possessività ansiosa, violenza” (P.Braido, Prevenire, non reprimere…,p. 403).

  E come lo stesso “spirito di famiglia” rivissuto e attualizzato, dovrebbe superare quelle forme di paternalismo e di familismo proprie del passato per giungere ad attuare relazioni “libere” e liberanti, autenticamente personalizzanti, anche l’”assistenza” intesa come “chiusura di porte e finestre” dell’ambiente giovanile e presenza costante dell’educatore accanto al giovane dovrebbe fare i conti con giovani che autonomamente navigano su Internet, comunicano con cellulari, interagiscono con centinaia di canali televisivi, si incontrano dove e come vogliono.

Così pure per rispondere alle legittime, esplicite e sempre più frequenti richieste di forme di attivismo, di autogoverno, di autogestione, il Sistema Preventivo dovrebbe proficuamente e nei limiti del possibile coniugarsi con esse, valutandole con attenzione e soddisfacendole nelle forme più idonee.

 

       

5. Educatore padre, fratello ed amico 

 

L’efficacia del Sistema Preventivo risiede nella capacità dell’educatore, programmare attuare, controllare i contenuti del proprio intervento; in altri termini: di sapere esattamente cosa vuole, che cosa fare e cercare. In un certo modo si potrebbe dire che Il Sistema Preventivo è l’educatore. L’espressione potrebbe suonare esagerata se non fosse che nella mens di don Bosco l’educatore è il detentore incontestato dell''intero sistema.

Il primo compito dell’educatore è dunque quello di esserci e di non stare fuori del campo dove viene giocata la partita. Se è vero che nell’educando ci sono tutte le disposizioni per realizzare la sua vita piena, è altrettanto vero che, lasciato a se stesso, potrebbe correre il rischio di non attuare tutte o completamente le sue possibilità di crescita.

L’educatore sicuro e rassicurante, consapevole del proprio compito e responsabile, autorevole e non autoritario, cerca di instaurare un autentico dialogo e un costruttivo confronto con un giovane. Vitalmente implicato nella relazione educativa, la sua personalità, il suo passato, le sue paure, le sue ansie incidono sulla formazione dell’educando. E’ la sua persona che educa.

 Oggi, lo si è appena detto, le relazioni giovani-adulto si sono profondamente trasformate rispetto a quello del tempo di don Bosco, il che comporta anche in questa prospettiva un modo radicalmente nuovo di interpretare e sperimentare l’ idea e il ruolo stesso di educatore “padre”, “fratello”, “amico”. E’ anzitutto necessario che, non ritenendosi più possessore e interprete unico del sistema, e così imporre o proporre certezze preconfezionate, egli si renda capace di interpretare i bisogni giovanili difficilmente esprimibili da loro stessi, di accompagnarli nella loro non facile ricerca delle risposte alle domande fondamentali della vita, di rispettarli nel loro diritto di essere e sentirsi protagonisti, di ridurre la propria funzione predominante per educarsi mentre educa sia sul facile terreno del confronto che su quello difficile, ma altrettanto utile, dell’inevitabile scontro. ,

    Nell’educatore il giovane non cerca più tanto il padre che pensa a tutto in sua vece, l’amico che gli organizza il tempo libero, il fratello che si interessa della sua crescita, l’adulto che distribuisce ordini, o il sorvegliante che minaccia castighi, ma l’uomo capace di mettersi accanto a lui, più attento alla sua persona che alle esigenze generiche dell’educazione, più disponibile ad offrirgli un contributo positivo allo sviluppo delle sue potenzialità inespresse. che non attento a unicamente neutralizzare gli elementi negativi e controproducenti. 

 

 

don Francesco Motto

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