Alla luce di quanto ha detto e ribadito la Suprema Corte ci si può legittimamente chiedere: ci fu, da parte di Eluana, una «una dichiarazione articolata, puntuale ed espressa» sulla sua volontà di non vivere a certe condizioni? Se sì, quando e in che luogo esattamente? Non è chiaro.
Sembra ieri ed invece sono trascorsi già quattro anni da quel 9 febbraio, quando Eluana Englaro morì. Fu un giorno particolare: per qualcuno una vittoria della civiltà e dell’autodeterminazione individuale, per altri l’epilogo di un dramma. Per tutti, comunque, una data storica sulla quale, a mio avviso, c’è ancora molto su cui riflettere. Sì, perché anche quattro anni dopo di quella vicenda restano tante, troppe ambiguità. Cerchiamo qui di ricordarle brevemente e di chiarirle, in modo che ciascuno possa farsi l’idea che crede sulla fine della povera Eluana, ma che le menzogne – almeno le più esagerate – vengano smascherate una volta per tutte.
Come stava Eluana?
Cominciamo dalle condizioni di salute nelle quali versava Eluana Englaro. E’ opinione comune che la donna, dopo essere stata visitata da fior di medici, fosse stata concordemente riconosciuta – rispetto allo stato vegetativo in cui si trovava – impossibilitata ad una anche minima ripresa. Ecco, già in questa frase - verosimilmente riassuntiva del pensiero di molti – si condensano clamorose imprecisioni. Infatti non solo non è vero che la donna venne visitata da molti medici (basta leggersi le sentenze per accorgersi della presenza, ripetuta, di una sola perizia: quella del professor Carlo Alberto Defanti, incaricato dal padre di Eluana), ma non è vero neppure che coloro che la visitarono concordarono nelle conclusioni.
La riprova ci viene dalla notevole divergenza tra il parere espresso dal già citato Defanti rispetto a quello, per esempio, del dottor Giuliano Dolce, il quale – anch’egli per mandato del padre – aveva seguito Eluana per qualche tempo registrando come lei, oltre ad aver ripreso, dopo diverso tempo, un regolare ciclo mestruale, fosse in grado di deglutire autonomamente, di variare il ritmo respiratorio a seconda degli argomenti trattati vicino a lei.
Tutti elementi puntualmente trascurati dai pronunciamenti giudiziari, nei quali, come detto, compare invece la sola (e datata) perizia di Defanti, presa sempre per buona, anzi: come oro colato.
Un capitolo a parte meritano le effettive condizioni di Eluana prima della morte. Ricordiamo come quattro anni fa si siano fecero, a tal proposito, i resoconti più scabrosi. Lo scrittore Roberto Saviano, per dire, arrivò a sostenere nientemeno che sulle colonne di El Pais che Eluana aveva il «viso deformato, le orecchie divenute callose e la bava che cola, un corpo senza espressione e senza capelli» [1]. Descrizione senza dubbio impressionante, epperò frutto di pura fantasia dal momento che – da quanto si sa – l’intellettuale partenopeo non visitò mai la donna.
La vide invece – e per due volte – Lucia Bellaspiga, che fra l’altro fu anche l’ultima giornalista a farle visita prima della morte. E la descrisse così: «Eluana è invecchiata poco, è rimasta ragazza davvero, anche nella realtà, non solo in quella congelata dalle foto […] i lineamenti sono poco diversi da prima, non peggiori o migliori, diversi [...] dal suo sguardo capisci che è una disabile, a occhi chiusi potrebbe essere la persona più sana del mondo […] il volto è rilassato, pieno, normale, non abbruttito» [2]. Altro che orecchie callose, bava che cola e tutto il resto.
Nota bene: né Saviano, né altri si sono a tutt’oggi scusati per le loro gratuite e discutibilissime opere di fantasia.
La (non) vittoria del diritto
Particolarmente curioso, di quella vicenda, fu anche il dato giuridico. Si è detto che nessuno, una volta avviata la sospensione del nutrimento che avrebbe cagionato la morte di Eluana, avrebbe potuto fare nulla dal momento che, sulla vicenda, da parte della Corte d’Appello di Milano, era stata pronunciata una «sentenza passata in giudicato». Sbagliato: nessuna sentenza passò «in giudicato»; fu invece emesso un decreto di tribunale che, come tale, non era suscettibile di «passare in giudicato» ex art. 2909 c.c., perché provvedimento di «volontaria giurisdizione». Non solo: c’erano sentenze, anche precedenti, che avevano già ribadito come i decreti dei tribunali «non sono idonei ad acquisire autorità di giudicato, nemmeno “rebus sic stantibus”, in quanto sono modificabili e revocabili non solo “ex nunc”, per nuovi elementi sopravvenuti, ma anche “ex tunc”, per un riesame (di merito o di legittimità) delle ordinarie risultanze»[3].
A ben vedere anche chi ha affermato che si è trattato di una battaglia vinta sul piano del diritto non la conta giusta visto che è stato proprio il diritto, in più occasioni, a dare torto alle tesi del padre ricorrente [4]. Per bene sei volte, infatti, i magistrati – antecedentemente alla«rivoluzionaria» [5] sentenza della Cassazione del 16/10/2007 – negarono al tutore di Eluana il permesso di anticiparne la morte. Forse erano tutti magistrati all’oscuro della Costituzione e del citatissimo articolo 32 sul rifiuto delle terapie? Senza considerare che molti sono i punti poco convincenti di quella sentenza della Cassazione del 2006.
Anzitutto perché diede per certi elementi che tali non erano, come l’irreversibilità dello stato vegetativo, condizione con nette differenze cliniche da quella del coma [6], non è più considerata una condizione irreversibile dalla letteratura scientifica [7], dalla quale stanno invece emergendo prospettive interessanti in ordine ai possibili gradi di “consapevolezza” delle persone che versano in questa condizione [8]; per non parlare degli ormai molteplici casi di “risvegli” [9] alcuni dei quali clamorosi, come quello di Terry Wallis, avvenuto dopo 19 anni [10].
In secondo luogo perché la Suprema Corte diede valore ad una ricostruzione “indiretta” della volontà terapeutiche di Eluana attraverso il suo «stile di vita», si collocò in netto contrasto con altri pronunciamenti coevi della Suprema Corte. Che, quanto alla manifestazione del “non consenso” a un trattamento sanitario, in ben due sentenze – la 4211/2007 [11] e la n 23676/2008 [12] – sottolineò, mostrandosi decisamente più rigida [13], la necessità di «una dichiarazione articolata, puntuale ed espressa, dalla quale inequivocabilmente emerga detta volontà».
E’ stata Eluana a chiedere di morire?
Alla luce di quanto ha detto e ribadito la Suprema Corte ci si può legittimamente chiedere: ci fu, da parte di Eluana, una «una dichiarazione articolata, puntuale ed espressa» sulla sua volontà di non vivere a certe condizioni? Se sì, quando e in che luogo esattamente? Non è chiaro. L’unico dato certo – anche se, guarda caso, poco ricordato – è che la stessa Corte d’Appello di Milano ha messo nero su bianco come sia stato il Beppino Englaro, e non Eluana, a richiedere la sua morte: «La. S.C. non ha ritenuto che fosse indispensabile la diretta ricostruzione di una sorta di testamento biologico effettuale di Eluana, contenente le sue precise dichiarazioni di trattamento […] ma che fosse necessario e sufficiente accertare che la richiesta di interruzione di trattamento formulata dal padre in veste di tutore riflettesse gli orientamenti di vita della figlia».
Parole che demoliscono un’altra leggenda metropolitana: quella secondo cui il tutore, in questo caso, abbia agito «”con” l’incapace» [14] e che, quindi, sia stata lei, Eluana, a chiedere di non essere tenuta in vita a certe condizioni. Falso. Quella richiesta non è mai stata formulata. Non da lei, almeno: e scusate se è poco.
La morte di una donna
Queste poche righe non hanno, naturalmente, la pretesa – né potrebbero averla – di dissipare tutte le numerose ambiguità su quello che, secondo una fredda formula giornalistica, è divenuto il “caso Englaro”. E’ bene però che d’ora in poi tutti, quanto meno, tengano presenti i tre elementi – ce ne sarebbero molti altri, ma lo spazio, si sa, è tiranno – che abbiamo qui voluto mettere a fuoco:
a) Eluana Englaro, in seguito ad «eutanasia passiva» [15], è morta, ma sarebbe potuta tranquillamente vivere, perché, pur versando in condizioni di gravissima disabilità, la sua salute non era affatto in pericolo;
b) si poteva anche giuridicamente impedire la sua morte dal momento che il decreto della Corte d’Appello di Milano a cui sono seguiti il ricovero ad Udine ed il decesso della donna era revocabile in qualsiasi momento alla luce, se non altro, delle decine di esposti fioccati tanto alla Procura di Milano, tanto a quella di Udine da parte di associazioni e privati cittadini e mai, di fatto, esaminati nel merito;
c) Eluana Englaro non ha mai è espresso la volontà di morire, qualora si fosse trovata a vivere in condizione di stato vegetativo. E se lo ha fatto, la giustizia italiana non è stata – nonostante i numerosi dibattimenti e le numerose sentenze emesse sulla vicenda – in grado di accertarlo.
Riepilogando, quattro anni fa una donna innocente e gravemente disabile, in Italia, è deceduta in solitudine [16] in seguito a disposizioni per le quali non aveva mai reso «una dichiarazione articolata, puntuale ed espressa», morendo – secondo quanto paventato in un appello sottoscritto da 25 fra docenti universitari e direttori di reparti di neurologia – «attraverso una lenta devastazione di tutto l’organismo» [17].
Anche se quindi sono ormai trascorsi anni, anche se il tempo passa e tutto quello che volete, sinceramente: crediamo davvero che su quanto accaduto si debba tacere? Crediamo che la verità di un delitto, dopo un po’, debba essere taciuta? Credete veramente che nascondere la vergogna sotto il tappeto serva a non provarla più, a stare meglio? Oppure pensiamo che sì, quel che è accaduto ad Eluana debba essere ricordato, minuto per minuto, come un dramma comune, come una pagina dolorosa, come l’occasione perduta e che dobbiamo riconquistare per dire che siamo tutti uguali non solo a parole, e che se sei il più debole, in una comunità, sei non l’ultimo bensì il primo a cui tutti debbono pensare, e il primo da proteggere?
A voi, cari lettori, l’ardua sentenza.
Note: [1] Saviano R. Pidan perdón a Beppino Englaro. «El País», 11/2/2009; [2] L. Bellaspiga – P. Ciociola, Eluana. I fatti. Ancora, Milano 2009, p. 8; [3] Cass. civ., sez. Unite 17-12-2003, n.19391; Cass. civ., sez. II 29-12-2004, n. 24140; Cass. civ., sez. II 21-02-2001, n. 2517; Cass. civ., sez. II 23-02-1999, n. 1493; Cass. civ., sez. I 29-07-1993, n. 8455; [4] Particolarmente interessanti sono le motivazioni con le quali il 16 dicembre 2006 la Corte d’Appello di Milano, pur ritenendo ammissibile il ricorso di Beppino Englaro, non lo accolse perché «Eluana è viva» e sottrarle (come poi è stato fatto) alimentazione ed idratazione avrebbe configurato – hanno scritto i giudici – una pratica di «eutanasia omissiva, nonostante gli sforzi argomentativi dei reclamanti di scindere l’ipotesi in esame da quella dell’eutanasia»; [5] Dragone M. Le violazioni del diritto dell’autodeterminazione in Cendon P. (a cura di) La prova e il quantum nel risarcimento del danno non patrimoniale. Danno biologico, esistenziale e morale. Volume I, Utet Giuridica, 2008, p. 841; [6] Cfr. The vegetative state: guidance on diagnosis and management - The Royal College of Physicians – «Clinical Medicine», 2003;3(3):249-54; [7] In tal senso, all’indomani della sentenza n. 21748 (Relatore A. Giusti) della Corte di Cassazione, Vincenzo Carpino, presidente dell’A.a.r.o.i. – acronimo che sta per Associazione Anestesisti Rianimatori Ospedalieri Italiani -, si trovò costretto a precisare che in realtà «non esistono criteri precisi per accertare con sicurezza uno stato vegetativo permanente. Mancano parametri scientifici e quindi protocolli di riferimento» (“Corriere della Sera”, 17/10/07, p.3); [8] Cfr. Cruse D. – Chennu S. – Fernández-Espejo D. – Payne W.L. – Young G.B. (2012) Detecting Awareness in the Vegetative State: Electroencephalographic Evidence for Attempted Movements to Command.«PLoS ONE»(11):e49933.doi:10.1371/journal.pone.0049933; [9] Amy Pickard, Christa Lily Smith, Patricia White Bull, Donald Herbert, Jan Grzebsky, Jesse Ramirez, Sarah Scantlin. Sette nomi che non dicono nulla, che non abbiamo sentito prima d’ora e che, verosimilmente, non sentiremo più. Ma sono sette nomi importanti, perché si tratta di persone che, per anni – qualcuno addirittura per due decenni – sono vissute ferme, inchiodate ad un letto o ad una carrozzella; fino a che, come per miracolo, si son “risvegliate”, offrendo inaspettati segnali di reazione; [10] Cfr. Eelco F. M. – Wijdicks M.D. (2006) Minimally Conscious State vs Persistent Vegetative State: The Case of Terry (Wallis) vs the Case of Terri (Schiavo). «Mayo Clinic Proceedings»; 81(9): 1155-1158; [11] Cfr. Cassazione Sezione III Civile, sentenza n. 4211/2007, Presidente Varrone – Relatore Amatucci; [12] Cfr. Cassazione Sezione III Civile, sentenza n. 23676/2008, Presidente Preden – Relatore Travaglino; [13] Cfr. Beltrani S. – Blaiotta R. – Carcano D. – Cerase M. – Di Salvo E. – Eroina O. – Iacoviello F.M. Codice Penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina. Vol. II, Il reato consumato e tentato, Libro I. Artt. 39-58 bis, Giuffré Editore, Milano 2010, p. 777; [14] Pizzetti F. G. Alle frontiere della vita: il testamento biologico tra valori costituzionali e promozione della persona, Giuffrè Editore, Milano 2008, p. 322; [15] Pavone I. R. La convenzione europea sulla biomedicina, Giuffrè Editore, Milano 2009, p. 55; [16] Quando Eluana morì, era sola. Non c’era nessuno in quella stanza: il padre Beppino Englaro era a Lecco, come pure la madre. Non c’era un infermiere, un medico, nessuno di quelli che avrebbero dovuto “accompagnarla al riposo con presenza costante ed attenta”, com’è stato scritto da qualcuno; [17] «Procuratore, blocchi la condanna a morte»
Giuliano Guzzo
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