L'emergenza educativa continua a riproporsi come il fattore fondamentale di un Paese come il nostro impegnato a ridisegnare il proprio futuro.
del 09 maggio 2006
Sono di questi giorni i dati dei suicidi tra i giovani che hanno dai 15 ai 24 anni: il periodo che dovrebbe essere quello dell’apertura consapevole alla realtà, quello delle scelte fondamentali e della maturazione di un progetto di vita. I dati sono preoccupanti: il suicidio in questa fascia di età è la seconda causa di morte. Le aride cifre ci danno questo quadro devastante e largamente sottostimato: ogni centomila ragazzi fra 15 e 24 anni, si tolgono la vita in 7 mentre è di 1,4 l'incidenza fra le ragazze. Se si guardano i tentativi di suicidio, i maschi diventano minoranza: 300 maschi ogni centomila abitanti contro 600 ragazze. Per non parlare della cosiddetta “intuizione suicidaria”: in Italia un ragazzo su quattro e una ragazza su tre pensano al suicidio. Commenta Caffo, fondatore e presidente di Telefono Azzurro, che «dietro a molti comportamenti anomali di un ragazzo si nasconde una volontà distruttiva che a sua volta nasconde un disturbo dell'umore non riconosciuto e non trattato. Questo vale anche per molti comportamenti di dipendenza dalle nuove sostanze che vengono usate come auto-cura con effetti devastanti per le competenze mentali dei giovani. Bisogna però arginare il fenomeno e sviluppare nuove competenze nell’ambito di tutte le professioni coinvolte con i ragazzi per cogliere precocemente i segnali di pericolo e sviluppare nelle situazioni più negative interventi mirati. Si deve cercare di riadattare il ragazzo al contesto sociale e al tessuto familiare». Interventi mirati, forme di riadattamento...Espressioni che chiamano in causa gli adulti, i padri assenti, le famiglie che non ci sono, ma che nello stesso tempo disegnano in qualche modo una strategia obbligata. Il recupero del fondamentale capitale sociale del Paese, quel capitale che nasce da una stima di sé capace di modellarsi in vocazione alla vita, al lavoro, alla scelta di stato, può avvenire solo dentro il prendersi cura del giovane da parte della realtà adulta: non assistenzialismo, bensì provocazione all’esistenza attraverso un rapporto. L’alternativa tra assistenzialismo e personalizzazione del rapporto educativo è tra l’altro il tema di fondo di ogni svolta riformistica nel campo della istruzione che sia degna di tale nome. Sappiamo (o forse dovremmo sapere) che un vecchio rapporto di una quarantina d’anni fa sosteneva che il background culturale e sociale degli studenti è determinato solo per il 10% da fattori scolastici quali le caratteristiche degli insegnanti, il curriculum, i materiali didattici. Da allora ferve la discussione sul peso che la scuola ha sulla vita dei giovani e se forse dal 10% si è oggi arrivati al 20%, a fronte di generazioni meno ribelli, non c’è comunque di che rallegrarsi. Se la scuola vuole giocare un ruolo nella formazione del giovane sappia che la battaglia sulle quantità (più ore a scuola, più discipline, più insegnanti per classe, più attività) è già persa in partenza. Non perché non la si possa fare e magari anche vincere quando ci si mettono i sindacati a protestare. Ma perché non utile ultimamente a mutare i fattori in gioco. Nulla al mondo può surrogare ciò di cui c’è veramente bisogno, ovvero la compagnia educativa che si instaura tra chi è alla ricerca di un significato e chi, adulto, può dalla sua esperienza ricavare una proposta coinvolgente. Questo può avvenire anche nella scuola. Una scuola però che lasci più spazio alla libertà di insegnamento e di intrapresa del docente. Non meno. Ricordiamocene oggi di fronte ad una possibile, nuova, non sappiamo quanto temibile, controriforma.
 
 
Fonte: Didattica e innovazione scolastica
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