Il primo ha presentato le condoglianze della Turchia ai discendenti delle centinaia di migliaia di armeni sterminati nel 1915; il secondo ha preannunciato un messaggio di cordoglio in occasione della Giornata della Shoah.
Forse la 'Realpolitik' si è travestita da colomba della pace, forse la scaltrezza di due leader ha partorito l’impensabile, o forse ancora un barbaglio di umanità è trapelato dalle crepe dell’intransigenza e del furore ideologico.
Altro non potremmo immaginare di fronte a due gesti paralleli, quello del premier turco Recep Tayyp Erdogan e quello del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Abu Mazen: il primo ha presentato per la prima volta le condoglianze della Turchia ai discendenti delle centinaia di migliaia di armeni sterminati nel 1915; il secondo ha preannunciato a Israele un messaggio di cordoglio in occasione della Giornata della Shoah, che si celebrerà il 28 aprile prossimo.
Due gesti, due annunci che non possono non sorprenderci. La Turchia, uscita giusto un secolo fa dalla lunga agonia dell’impero ottomano sotto la guida di Kemal Atatürk, quella Turchia fortemente laicista e avversa ad ogni vestigia del passato, capace di vietare il fez e il velo (poi ripristinato nel 2000 dal partito islamista al governo), di introdurre il suffragio universale e i caratteri latini non fu tuttavia in grado di rimuovere quell’enorme buco nero chiamato Ermeni Soykirimi, ovvero la deportazione e il genocidio di oltre un milione di armeni. Una tragedia il cui 99° anniversario cade oggi, 24 aprile, ma la cui memoria in Turchia, il semplice farvi cenno come 'genocidio' (la dizione corrente – l’unica ammessa – per i turchi benpensanti era: «I fatti del 1915») comportava fino a poco tempo fa un reato d’opinione punibile con il carcere. Una damnatio memoriae inammissibile per un Paese che da molti anni aspira ad entrare nell’Unione Europea e che per quasi un secolo ha esercitato sul tema uno spietato negazionismo, come ben sa il Premio Nobel turco Orhan Pamuk, che incappò nella censura di Ankara per aver menzionato il genocidio armeno. Ora Erdogan, vincitore morale delle recenti elezioni amministrative e in procinto di candidarsi alla presidenza della Repubblica, ha offerto agli studiosi di tutto il mondo la libera consultazione degli archivi di Stato, perché la questione armena possa essere affrontata «in una prospettiva pluralistica, democratica e moderna». Con un occhio a Bruxelles, dove le procedure di adesione di Ankara alla Ue sono desolatamente ferme al primo capitolo: ne mancano ancora 34 sulla strada della trasparenza e della democrazia. E il riconoscimento del genocidio armeno è uno di quelli centrali.
Di analoga portata l’annuncio di Abu Mazen, che per la prima volta riconosce la Shoah come «la tragedia più grande della storia moderna». Annuncio epocale, si direbbe, che tuttavia cade nello stesso giorno della ritrovata riconciliazione politica fra Fatah (il partito di Abu Mazen maggioritario in Cisgiordania) e Hamas (il movimento filoiraniano e antisionista che controlla la Striscia di Gaza). Il che un po’ stona se si considera la feroce intransigenza palestinese nei confronti di Israele: l’Olp e Hamas hanno tuttora nel programma politico l’annientamento della nazione ebraica, senza dimenticare i loro alleati iraniani e siriani, che usano alludere a Israele semplicemente come alla «entità sionista».
È quasi imbarazzante, insomma, mettere sullo stesso piano il cordoglio palestinese nei confronti dello sterminio degli ebrei nei campi di concentramento nazisti e la ritrovata unità fra il partito di Yasser Arafat e la costola radicale di Hamas e del suo braccio armato, le brigate Ezzedin al-Qassam: il primo a non crederci è il premier israeliano Netanyahu, per il quale «ogni volta Abu Mazen preferisce fare la pace con Hamas piuttosto che con Israele». Al di là delle strumentalizzazioni, i due annunci – quello di Erdogan e quello del presidente palestinese – non sono da deprecare. La Storia – ricordava Edward Hallett Carr nelle sue insuperate Lezioni di Cambridge – «non è un nucleo duro di fatti storici che esistono obbiettivamente e indipendentemente dalle interpretazioni, ma è un dialogo senza fine fra il passato e il presente». Ed è sempre questa l’unica via per ogni possibile riconciliazione.
Giorgio Ferrari
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