Il prof. Massimo Gandolfini, neurochirurgo e bioeticista, ci illumina su alcune parole chiave...
Quando parliamo di fine vita, utilizziamo termini di cui spesso conosciamo poco, soprattutto da un punto di vista medico- scientifico. Durante le ultime tre settimane il Prof. Massimo Gandolfini, neurochirurgo e bioeticista, ci ha introdotto in modo semplice e chiaro ai significati di alcune importati parole: terapia e cura, accanimento terapeutico, stato vegetativo.
Grazie a questo percorso possiamo affrontare la parola più usata, discussa e probabilmente abusata di questo ambito:EUTANASIA.
Prof. Gandolfini, che cos’è l’eutanasia?
Azione od omissione di atto terapeutico che di natura propria procura la morte del malato. Si è soliti operare una distinzione, peraltro non del tutto necessaria né appropriata, fra EUTANASIA ATTIVA ed EUTANASIA OMISSIVA, intendendo con la prima un’azione che direttamente provoca la morte, e con la seconda la mancata attivazione di un trattamento salvavita.
In che senso né necessaria, né appropriata?
La distinzione fra eutanasia attiva ed eutanasia omissiva è “inutile” in quanto è l’atto eutanasico in sé che conta, a prescindere dall’azione che compio per raggiungere lo scopo.
C’è differenza tra eutanasia e suicidio assistito?
Sul piano pratico, non c’è differenza fra eutanasia e suicidio assistito. Entrambe portano alla morte del paziente. Nel caso del suicidio assistito – a mio avviso – sul piano della relazione umana la pratica è ancora più deprecabile. Prendiamo l’esempio della Svizzera, ove l’eutanasia è reato, mentre il suicidio assistito è legale. Ecco come funziona: l’equipe tanatologica accoglie la persona in un ambiente tranquillo e “sereno”; quindi, gli fornisce il medicamento letale e lo istruisce sulle modalità di utilizzo; infine è il paziente stesso che lo deve assumere, senza partecipazione diretta di altra persona (altrimenti è eutanasia). Si tratta di una vera e propria eutanasia, ipocritamente camuffata da suicidio.
Si parla di testamento biologico, dove la persona può indicare le condizioni alle quali accetta le cure e quelle in cui chiede l’eutanasia o il suicidio assistito. Da un punto di vista medico, come è possibile che una persona possa prevedere questo tipo condizioni?
Innanzitutto va definito lo strumento del “testamento biologico” ; in Italia – se e quando si farà – si chiamerà “Dichiarazioni Anticipate di Trattamento”: “Documento con il quale una persona dotata di piena capacità esprime la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidererebbe o no essere sottoposta nel caso in cui, nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse più in grado di disporre il proprio consenso o dissenso informato” – definizione del Comitato Nazionale di Bioetica, 1995.
E’ possibile definire un limite alla sofferenza sopprotabile dalle persone? Invalidante e insopportabile può essere uno stato vegetativo, ma anche una paralisi, uno stato depressivo…
Per chi, come me, condivide un’impostazione personalistica della medicina e del biodiritto, le Dichiarazioni Anticipate di Trattamento non devono prevedere due condizioni: la richiesta di eutanasia e la richiesta di sospensione delle “cure di sostegno vitale”, in particolare alimentazione ed idratazione (si veda la distinzione tra terapia e cura) . Le motivazioni richiedono un discorso lungo e complesso. Vorrei limitarmi ad una sintesi:
perché il “diritto di morire” non fa parte del patrimonio giuridico italiano espresso dalla Costituzione (l’articolo 32 garantisce e tutela la “salute”, cioè l’esatto contrario della morte); perché garantire il diritto di esigere la morte, deve necessariamente prevedere la formazione di un “corpo speciale” di cittadini italiani autorizzati ad uccidere (e tutto il nostro ordinamento giuridico condanna ogni forma di omicidio); perché il bene vita, costituzionalmente riconosciuto e protetto, fondante ogni altro diritto, non può coesistere con una condizione che lo annulla (se si garantisce la libertà, non si può contemporaneamente garantire la schiavitù !); perché, sul piano etico, la vita è un bene indisponibile, e la condizione della morte autoinflitta (suicidio) è una condizione di patologia dell’umano
Perché curare tutti?
L’obbligo sociale e giuridico della cura per tutti è patrimonio della società civile moderna, l’obbligo morale della cura fa parte della costituzione relazionale dell’uomo, nel nome di quella solidarietà umana che non ha tempo.
Esiste una vita indegna di essere vissuta?
Nel 1921/22 Hoche e Binding, un medico ed un filosofo, coniarono il concetto di “vite indegne di essere vissute”, riferendolo soprattutto agli ammalati psichiatrici, degenti nei manicomi tedeschi. Si diede così avvio ad una campagna di “eutanasia di stato”, che portò alla soppressione di circa 70.000 malati psichici.
Anche nell’attuale gergo corrente, non è raro imbattersi in affermazioni del tipo “vite indegne”, “indegna qualità di vita”, che sottendono un giudizio di valore sulle persone con gravissime disabilità. Non di rado, anche oggi, per queste persone si invocano scelte eutanasiche. Personalmente, ritengo che la dignità della persona umana non dipende dalle qualità che possiede o dalle capacità che manifesta di compiere azioni o compiti qualificanti. La semplice esistenza in vita, senza ulteriori specificazioni, fonda la dignità inviolabile di ogni persona umana, ed impone il rispetto della sua esistenza. Anzi, il valore di civiltà di una società si misura proprio sul parametro di quanto sa prendersi cura delle persone più deboli e fragili.
Anna Pelleri
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