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Fratello clandestino

Adesso guardo queste persone con occhi diversi ‚Äì conclude Cecilia ‚Äì Mi pongo delle domande, cerco di leggere la loro sofferenza, mi chiedo cosa posso fare per loro nel mio piccolo. Non voglio restare indifferente, voglio essere scossa, turbata dalle umane sofferenze. Ho capito che ci stiamo chiudendo troppo, che stiamo diventando insensibili”.


Fratello clandestino

da Quaderni Cannibali

del 01 maggio 2012(function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk'));

Nelle nostre città vi sonodonne e bambini schiavizzati,costretti a elemosinare, a prostituirsi,eppure li scansiamo con fastidio,ormai assuefatti alla loro presenza.

           Per più tempo Cecilia si è chiesta chi fosse quel ragazzo che ogni mattina trovava riverso, addormentato, sui gradini di un palazzo. Perché dorme lì? Da dove viene? Qual è la sua storia? Possibile che nessuno si sia accorto di lui e non faccia niente per aiutarlo? Domande cui di giorno in giorno se ne aggiungevano altre (dov’è la sua famiglia? Come, dove trascorre le sue giornate?…), che però cadevano e si perdevano nel vortice degli impegni quotidiani che dirottavano l’attenzione di Cecilia su altri fronti. Fino al mattino dopo, quando il suo sguardo cercava e trovava quel ragazzo che, a vederlo così, sembrava avere l’età del suo fratello quindicenne che in quel momento si stava dirigendo a scuola dopo aver fatto colazione e aver trascorso una tranquilla nottata nel tepore della sua casa.

           Così per almeno due settimane. Erano giorni freddi, grigi, e Cecilia si sentiva sempre più scossa e assalita da rimorsi perché dopo averlo visto tirava dritto. “Non sapevo cosa fare – racconta – Ogni giorno incontro barboni e persone che chiedono l’elemosina e di cui non mi curo affatto, ma con lui era diverso, mi faceva pena, ero intenerita dal suo aspetto indifeso, dal suo modo di dormire, con i pugni chiusi. Alla fine non ho resistito al desiderio di aiutarlo, nonostante continuassi a dirmi di lasciar perdere, che sicuramente qualcun altro se ne sarebbe occupato, che prima o poi qualche associazione di volontariato o la polizia si sarebbero accorti di lui…”.

La foto del cellulare

           Cecilia si è detta: “È giusto che me ne lavi le mani, che mi disinteressi a lui con la giustificazione che non saprei come aiutarlo e che altri lo avrebbero fatto?”. E allora ha deciso di agire, sapeva di un’associazione che aiuta i senza fissa dimora, ha telefonato pregandoli di intervenire, ha addirittura fotografato il ragazzo col suo cellulare ed è andata da quei signori a farglielo vedere, sperando sull’effetto di quei pugni chiusi e dell’inconfondibile aspetto di un adolescente che ha bisogno di protezione. “Il giorno dopo non l’ho più visto – continua – ho telefonato a quell’associazione e mi hanno detto che adesso lui era con loro. Mi hanno addirittura ringraziata per averglielo segnalato. Sono ritornata da loro, volevo conoscere quel ragazzo, dare risposta alle mie domande”.

           Ed ecco la storia di Reza, 16 anni, clandestino. Siamo abituati a definire “clandestini” tutti coloro che si introducono di nascosto nel nostro Paese, ignorando che molte di queste persone fuggono dalla loro terra perché hanno paura di essere uccise, torturate, imprigionate. La storia di questo ragazzo è così pesante da far arrossire di vergogna al pensiero di certi provvedimenti (ad esempio i respingimenti in mare) assunti dall’Italia in più occasioni, negando il diritto alla protezione internazionale sancito da precise disposizioni europee.

           Secondo la ricostruzione dei volontari, Reza ha lasciato il suo Paese, l’Afghanistan, quando aveva appena 9 anni, dopo l’uccisione del padre da parte dei talebani. La madre lo ha fatto partire per salvarlo e lui è andato in Pakistan, poi in Grecia… Infine è arrivato in Italia nascosto in un camion, senza documenti, senza un posto dove andare.

Una guerra lontana

           Ogni anno varcano la frontiera del nostro Paese circa 7 mila minorenni “non accompagnati”, che non sono cioè al seguito o non hanno la possibilità di ricongiungersi con genitori o parenti entro il quarto grado (fratelli, zii, cugini ecc.) o comunque con adulti legalmente responsabili ai sensi dell’ordinamento italiano. Sono fra i soggetti a maggior rischio di caduta nei circuiti della microcriminalità e ovviamente dello sfruttamento minorile. Al 90 per cento di sesso maschile, arrivano soprattutto dall’Afghanistan, dopo un lungo percorso di violenze e soprusi attraverso Paesi dove molti perdono la vita, derubati e uccisi sulle montagne tra l’Iran e la Turchia o annegati nei mari della Grecia o soffocati nei camion che cercano di portarli clandestinamente in Europa. Vengono anche dal Nord Africa: nel 2011 la primavera araba e la guerra in Libia hanno spinto sulle nostre coste circa 4 mila minori non accompagnati, di età 16-17 anni.

           Non sorprende che Reza e quelli come lui siano abituati a badare a se stessi, diffidenti e reticenti a raccontarsi. E non sorprende che siano svegli, intraprendenti e pronti a cogliere ogni opportunità che la vita offre loro. Hossein, ad esempio, oggi ha 19 anni: è arrivato in Italia che ne aveva 15, è stato “intercettato” da un’associazione di volontariato che l’ha accompagnato all’Ufficio stranieri del Comune. Inserito in una comunità, ha imparato bene l’italiano e conseguito il diploma di scuola media inferiore, dopodiché ha frequentato un corso triennale di formazione professionale e oggi è assunto presso una piccola impresa con regolare contratto.

           Molto probabilmente anche Reza seguirà più o meno lo stesso percorso, grazie anche a Cecilia che ha contribuito a toglierlo dalla strada prima che fosse troppo tardi. “Questa esperienza mi ha fatto riflettere molto su come ormai ci siamo quasi “narcotizzati”, abituati a certi fatti, al punto da non essere nemmeno più in grado di accorgerci di tragedie che si consumano sotto i nostri occhi. Sappiamo che anche nelle nostre città vi sono donne e bambini schiavizzati, costretti a elemosinare, a prostituirsi, eppure li scansiamo con fastidio, ormai assuefatti alla loro presenza”.

           “Adesso guardo queste persone con occhi diversi – conclude Cecilia – Mi pongo delle domande, cerco di leggere la loro sofferenza, mi chiedo cosa posso fare per loro nel mio piccolo. Non voglio restare indifferente, voglio essere scossa, turbata dalle umane sofferenze. Ho capito che ci stiamo chiudendo troppo, che la nostra casa sta diventando una fortezza, che stiamo diventando insensibili”.

Patrizia Spagnolo

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