Spesso, musica e dolore non sono termini antitetici; la musica non è solo “entertainment”, come diceva qualcuno “non son solo canzonette”. Da sempre hanno scritto canzoni su amori disperati!”. Ed è un'osservazione non solo ovvia, ma banale a dismisura, in quanto la sofferenza troppe volte non è oggettivata, né in un amore non corrisposto, né in altro. A volte è “soltanto” disagio esistenziale, senso d'inadeguatezza verso la vita, oscurità...
del 20 ottobre 2005
 
“... Quando arrivò al pezzo It is too late, è troppo tardi, andai giù di un colpo. Già nelle ultime settimane, quando non sapevo più per cosa vivevo e dove andavo, questo It is too late mi aveva preso su ai nervi. Avevo pensato che questa canzone descriveva esattamente la mia situazione…”.
Sono le parole dell’adolescente Christiane F., scossa dalle parole del suo idolo David Bowie. Christiane, autrice di Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino, libro-documento sul problema (all’epoca emergente) della droga e icona, fra tante, del male di vivere. Erano gli anni ’70… oggi abbiamo superato il “mitico” 2000, ma restano il disagio, il dolore e anche la voglia (spesso non priva d’interessi “altri”) di parlarne. Ecco allora i libri-verità, le Melisse P., J.T. Leroy… ma c’è anche chi dall’ombra non esce, neppure per scrivere un libro. Non è il caso di scomodare le statistiche per scoprire quanti siano i casi di depressione, giovanile e non, questa non è certo un’indagine psicologica. La depressione non è un “modo di vivere”, ma un malessere, una malattia, che ha come peculiarità la chiusura verso gli altri e l’incapacità di comunicare. Del resto tutto ciò che è “fuori” è spesso percepito come estraneo, se non addirittura ostile. Niente a che vedere con un banale cattivo “umore”.
Dove nasca e perché, purtroppo ancora non si sa. Non esistono “misure di prevenzione”, amuleti magici che proteggano da questo virus. Se ne parla, questo sì, sempre più spesso psichiatri e psicologi sono tra gli ospiti più gettonati dei talk-show. Ma non è tutto qui… c’è sempre stata l’esigenza di dare voce e corpo alle ombre, e qua l’arte svolge un ruolo importante, rivelandosi impalpabile interprete efficace, più di tanti trattati e tavole rotonde. Spesso, musica e dolore non sono termini antitetici; la musica non è solo “entertainment”, come diceva qualcuno “non son solo canzonette”. L’obiezione più ovvia a questo punto sarebbe: “Bella scoperta! Da sempre hanno scritto canzoni su amori disperati!”. Ed è un’osservazione non solo ovvia, ma banale a dismisura, in quanto la sofferenza troppe volte non è oggettivata, né in un amore non corrisposto, né in altro. A volte è “soltanto” disagio esistenziale, senso d’inadeguatezza verso la vita, oscurità… darkness, che però non si pasce di se stessa, ma si scontra con la voglia di andare avanti, con un tendere verso il bello e proprio verso quella leggerezza che appare così lontana. A volte il vuoto, il senso di disgusto verso ciò che circonda, può essere un punto di partenza per una nuova realtà che non sempre nasce dall’evolversi naturale, ma necessita di una vera e propria rivoluzione. Una vittoria contro l’apatia, uno tra i più noti “volti” della depressione. La realtà però non è certo esclusivamente ottimista, non c’è sempre il lieto fine, ma spesso è “fine” e basta. Il rifiuto di ciò che circonda è forte, disperato, ma non viene vista altra via d’uscita, se non quella dell’annullarsi.
Si può a questo punto fare una grossa, forse sommaria, suddivisione tra il dolore “reattivo”, quello “nichilista” e anche quello “fatalista”, proprio di chi si trascina aggrappandosi a un concetto di speranza statico.
 
 
Quelli che… “Io non ci sto”
 
Guardarsi intorno e trovare solo vuoto, ed ecco che ogni mattina doversi alzare da letto appare una, inutile, fatica… Non sempre però; c’è anche chi RIESCE (perché a volte non basta volerlo) a vedere un senso nell’andare avanti, nell’accettare ogni giorno come una sfida, del tipo: “O.k., non lo so che ci faccio qui, in mezzo a questo schifo… ma ci sono e mi merito di meglio, e giuro che lotterò per ottenerlo”.
 
“Io capisco i tuoi problemi
Io posso immaginarmi le ragioni
Ma io non posso accettare ciò che vedo…
Ci deve essere una via d’uscita… “.
 
È l’urlo di guerra dei Black Flag (storica formazione punk degli anni ’70-’80), nella loro Life of pain. Non c’è disperazione o rassegnazione. C’è piuttosto rabbia, ma non fine a se stessa; c’è la voglia di rovesciare ciò che circonda, ma non per il capriccio di buttare tutto all’aria, bensì per cambiare uno stato di cose. Erano gli anni ’70…
Ora come ci si confronta con il disagio esistenziale? Nonostante il ritmo poco originale, quasi “dance”, la hit In the shadows non ha un testo da buttare via.
Le parole degli emergenti The Rasmus esprimono anche loro un malessere propulsivo, che non si traduce in staticità, ma nella consapevolezza che una via d’uscita c’è ed è percorribile in prima persona:
 
“… Non dormo finché non avrò finito
di trovare la risposta
Non mi fermerò finché non avrò trovato
la cura per questo cancro…
A volte sento che dovrei andare a giocare con il tuono
In qualche modo non voglio restare qui
ad aspettare il miracolo…”.
 
Tono decisamente diverso per il testo di Sogna, ragazzo, sogna, di Roberto Vecchioni. Il nostro cantautore “prof” utilizza parole ed immagini più tenui, meno “battagliere”, ma comunque estremamente vitali:
 
“… Stringi i pugni, ragazzo, non lasciargliela vinta neanche un momento…
sogna, ragazzo, sogna, quando cala il vento
ma non è finita, quando muore un uomo per la stessa vita che sognavi tu…”.
 
Infine, rimanendo ancora in Italia, una presenza significativa è il Vasco nazionale, che da sempre ha alternato momenti di alta poesia, a dichiarazioni ribelli e trasgressive. Io no è una delle sue vecchie, amate e coraggiose canzoni:
 
“C’è chi dice qua… c’è chi dice là
Io… non mi muovo!…
Tanta gente è convinta
che ci sia nell’aldilà… qualche cosa…
chissà?!
Quanta gente comunque ci sarà…
che si accontenterà!
C’è chi dice no! C’è chi dice no…
io non ci sono!
C’è chi dice no! Io non ci credo.
C’è chi dice no… io sono un UOMO…”.
 
Sulla stessa linea i Queen, formazione ormai nella storia della musica pop inglese, con Innuendo, uno degli album più intensi (e che, amaramente, precede di poco la scomparsa del loro leader, Freddie Mercury, stroncato dall’aids):
 
“Si può essere tutto ciò che si vuol essere
Basta trasformarsi in tutto ciò
che si pensa di poter essere.
… Arrendetevi al vostro vero io, siate liberi…
Mostratevi, distruggete le nostre paure,
toglietevi la maschera…”.
 
Il messaggio è unanime: vale la pena di lottare, per riappropriarsi del proprio sé.
 
“Non dirmi cosa è giusto…
Non dirmi come vincere questa battaglia
non è un tuo diritto prendere l’unica cosa che è mia…”.
 
È la combattiva As I am, dall’ultimo album dei Dream Theater.
Insomma, per non tralasciare una delle armi più potenti (e troppo spesso sottovalutate), l’autoironia si può proprio affermare che “la vita, la vita, la vita l’è bela…”.
 
 
Quelli che… “Speriamo che andrà meglio”
 
In un certo senso sono dei vinti. Non camminano, ma si trascinano, a volte perché è impossibile muoversi altrimenti (non dimentichiamo che la depressione è perdita del piacere di vivere e di ogni istinto vitale), ma altre volte perché ci si aggrappa ad un’idea di speranza paralizzante e, allo stesso tempo, comoda. Si è presa la coscienza di “stare male”, ma dove finisce la malattia e dove comincia invece uno “spleen” che si pasce di se stesso?
 
“La gente pensa che sono pazzo
perché sono sempre corrucciato.
Tutto il giorno penso a delle cose
ma niente sembra soddisfarmi.
Penso che perderò la testa se non trovo qualcosa che mi dia pace…
Ho bisogno di qualcuno che nella vita
mi mostri le cose che non riesco a trovare.
Non riesco a trovare le cose che danno
la vera felicità, devo essere cieco…
Non riesco a provare felicità
e l’amore per me è così irreale…”.
 
È parte del lamento dei leggendari Black Sabbath, in Paranoid.
Sulla stessa linea di pensiero si muovono, un paio di decenni dopo, i Guns’n Roses. La sofferta Right next door to hell ha parole di denuncia anche nei confronti di chi vede “da fuori” il disagio, ergendosi a giudice di ciò che spesso non conosce perché teme troppo:
 
“… A un passo dall’inferno
Sembra che le parti mi si chiudano addosso
Mia madre non mi ha mai detto molto
Era troppo giovane e spaventata
“Freud” direbbe è quel che mi serve…
Tempi duri ed emozioni da poco…”.
 
Certo l’angoscia si percepisce da ogni sillaba, ma può emergere anche una sorta di ambiguità che rischia di trasformare un vero malessere in status symbol. Come dicevano i nostrani C.S.I., maestri di una saggia ironia:
 
“Io sto bene, io sto male,
io non so come stare.
Non studio, non lavoro non guardo la tv, non vado al cinema, non faccio sport…”.
 
A volte però è una forte, autentica, paura a paralizzare e a rendere invisibile qualsiasi, potenziale, via d’uscita. Questo lo esprime bene, con amarezza consapevole, la bella Dido con una nota canzone del 2003, Life for rent:
 
“Un po’ ho talmente paura di fallire
da non provare nemmeno…
Allora come posso dire di essere viva?…”.
 
 
Quelli che… non ce la fanno
 
Non c’è niente che si possa dire davanti alla morte, neppure nei confronti di chi la sceglie. Anche se, forse, il termine “scelta” non è proprio corretto. Perché spesso se si arriva al suicidio non esiste, non appare alternativa. A che scopo andare avanti? Non esiste alcuna scienza oggettiva in grado di fornire soluzione, le “risposte” si trovano solo dentro di noi, purtroppo o per fortuna. A volte la disperazione è la voce che parla più forte, ed è già allora che inizia la morte, prima di compiere qualsiasi atto materiale.
 
“… Non dirò mai più una parola.
Striscerò via per il bene di tutti…
Ho sempre saputo che saremmo arrivati
a questo.
Le cose non sono mai andate tanto
alla grande.
e io non sono mai stato tanto bene…”.
 
Sono le parole di You know you’re right, canzone-testamento di Kurt Cobain, leader dei Nirvana ed emblema del male di vivere. Dopo Marylin Monroe il cantante è un’altra splendida ed eclatante vittima del vuoto e della disperazione, mali non guaribili da bellezza e fama.
Parole amarissime, di estrema stanchezza, anche quelle della dolce melodia My immortal, degli attualissimi Evanescence:
 
“… Sono così stanca di essere qui,
soffocata da tutte le mie paure infantili…
queste ferite sembrano non guarire
questo dolore è ancora troppo reale
c’è già così tanto che il tempo
non potrà cancellare…”.
 
Dunque si può affermare che “vivere stanca”, soprattutto quando ciò su cui si aprono gli occhi appare, se non ostile, estraneo. Muoversi diventa allora molto difficile, circondati da ombre, freddo e avvolti dall’apatia.
 
“Vivere qui non è ciò che sembra.
Sono qui ma non ci sono davvero.
Visi sorridenti sempre più rari…
camminiamo in uno spazio pi√π profondo,
qui non è proprio il posto dove vivere…”.
 
È lo Strange world secondo gli Iron Maiden, un mondo “estraneo”, più che strano.
A volte invece la morte è vista come un estremo gesto di ribellione, come l’unico modo per non soccombere… anche se proprio in quest’ottica nasce spontanea la domanda: “perché allora non combattere?”. Eppure sembra una dichiarazione di resistenza ad oltranza, più che il preludio ad un suicidio, il testo di Cara è la fine, dei Marlene Kuntz:
 
“Non glieli daremo per ungersi dei nostri mali stillanti le mani avide:
che ci tocchino morti, secchi e gelidi.
Oh, non piangere, urla piuttosto
e lasciamo di noi un ricordo toccante…”.
 
Morire per non arrendersi? Eroico? Forse, in un certo senso lo è, eppure… sotto sotto suona un po’ da “ritirata”.
 
  Articolo tratto da: NOTE DI PASTORALE GIOVANILE. Proposte per la maturazione umana e cristiana dei ragazzi e dei giovani, a cura del Centro Salesiano Pastorale Giovanile - Roma.
Erika Furci
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