Quella del rapporto tra giustizia e misericordia è una questione antica, che segna fin dalle origini lo svolgersi della civiltà occidentale. E che si è affacciata, puntualmente, tutte le volte che il pensiero ha tentato di mettere ordine tra polarità tendenzialmente avversarie, come tra libertà personale e ordine sociale, tra colpa e pena, tra recupero e riscatto.
del 03 dicembre 2008
Due virtù che zoppicano  se non camminano a braccetto di Angelo Bagnasco
 
La convinzione a cui è pervenuta la Chiesa, confrontando quanto ha visto accadere lungo i suoi duemila anni di storia con la rivelazione biblica, è che (...) non si ristabiliscono l'ordine e l'armonia infranti, se non coniugando fra loro giustizia e misericordia. Ripeto:  coniugandole tra loro. Sarebbe infatti un vero delitto se, nelle circostanze attuali, a fronte delle divisioni che attraversano l'umanità e i singoli paesi, come a fronte delle rivalità che contrappongono le tribù, le famiglie e le persone, si concludesse che parlare di giustizia e misericordia è del tutto inutile. Io credo invece che nonostante le difficoltà che talune situazioni presentano, si possa e si debba parlarne. Soprattutto che si debba farlo quando si ha chiaro che giustizia e misericordia non sono parole tra loro alternative, e non indicano prospettive tra loro opposte. Come se appartenessero a due sfere non comunicanti, proprio come una certa sensibilità odierna vorrebbe oggi il rapporto tra laicità e fede. Diceva Giovanni Paolo II, nella sua fondamentale enciclica Dives in misericordia, che 'sarebbe difficile non avvedersi che molto spesso i programmi che prendono avvio dall'idea di giustizia e che debbono servire alla sua attuazione nella convivenza degli uomini, dei gruppi e delle società umane, in pratica subiscono deformazioni. Benché essi continuino a richiamarsi alla medesima idea di giustizia, tuttavia l'esperienza dimostra che sulla giustizia hanno preso il sopravvento altre forze negative, quali il rancore, l'odio e persino la crudeltà' (n. 12). In effetti, l'esperienza del passato come quella del nostro tempo dimostrano che la giustizia umana è sempre fragile e imperfetta, esposta com'è ai limiti e ai condizionamenti personali o di gruppo, e dunque va esercitata e in un certo senso supportata dalla misericordia, che è la forma interiore dell'amore. Anzi, precisa sempre Giovanni Paolo II, diventa 'più palese che l'amore si trasforma in misericordia quando occorre oltrepassare la precisa norma della giustizia:  precisa e spesso troppo ristretta' (ibidem, n. 5).
Quella del rapporto tra giustizia e misericordia è una questione antica, che segna fin dalle origini lo svolgersi della civiltà occidentale. E che si è affacciata, puntualmente, tutte le volte che il pensiero ha tentato di mettere ordine tra polarità tendenzialmente avversarie, come tra libertà personale e ordine sociale, tra colpa e pena, tra recupero e riscatto. In questo sforzo speculativo così vivo nel mondo greco - da Socrate ad Aristotele e Platone - e in quello romano - da Cicerone a Seneca a Marco Aurelio - il cristianesimo si inserisce proponendo una sintesi audace, nuova pur accogliendo molti spunti della classicità, e che segnerà la storia successiva. Sintesi in cui l'ordo iustitiae e l'ordo amoris sono distinti e contemporaneamente si compenetrano profondamente tra loro.
Giustizia e misericordia, con l'annuncio cristiano, smettono definitivamente di essere alternative e diventano virtù che non solo si richiamano vicendevolmente, ma non possono più fare a meno l'una dell'altra. 'La misericordia senza giustizia è madre della dissoluzione', dirà san Tommaso, aggiungendo che 'la giustizia senza misericordia è crudeltà'. Un rapporto simbiotico in cui però la dignità della persona è la bussola decisiva, deputata a conferire alla giustizia il suo vero dinamismo, il suo vero valore, spingendo la giustizia stessa verso mete sempre più alte che, trovando completamento nella misericordia, rendono il cammino dell'umanità sempre più confacente all'immagine di Dio impressa nel volto umano.
'Chi ama, rifiuta l'ingiustizia e la verità è la sua gioia' ammonisce san Paolo (1 Corinzi, 13, 6). La vera misericordia infatti domanda prima di tutto giustizia, base necessaria della vita sociale, dove deve regnare l'ordine del Bene. Chi vuole essere misericordioso deve anzitutto essere giusto e deve sentire riecheggiare dentro di sé quella 'fame e sete di giustizia' di cui Gesù parla nel discorso della montagna. La misericordia deve produrre anzitutto la giustizia, se vuole compiere il suo vero corso. Per questo la misericordia non si oppone né creerà alibi alla giustizia, ma la contiene come sua espressione prima e come suo momento essenziale. Quindi, la ispira e la comanda, le dà anima e luce perché superi in meglio le proprie distinzioni rigide e formali.
Questa prospettiva trova la sua espressione più alta negli insegnamenti e nella vita stessa di Cristo. Il Signore, in numerosi passi del Vangelo, pur manifestando quello che oggi chiameremmo 'rispetto delle istituzioni' e delle leggi dell'epoca, allo stesso tempo indica la via per una giustizia superiore, che oltrepassa quella angusta e psicologica, trasfigurandola. E lo fa fino all'ultimo respiro. Torturato, oltraggiato e messo in croce proprio dai rappresentanti della legge, viene implorato solo dal 'ladrone', da un criminale. Ma sarà proprio il 'ladrone' - forse un assassino - per quel suo gesto di umiltà e di pentimento, a meritare per primo il Paradiso. Realizzazione effettiva di quello che Gesù stesso aveva predetto a una casta che si riteneva per antonomasia onesta e osservante della legge - e formalmente lo era:  'I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno di Dio' (Matteo, 21, 31).
Il mirabile equilibrio tra legge e amore, tra giustizia e misericordia, non è mai stato, dicevamo, un dato acquisito pacificamente. Piuttosto, è stato un depositum che la Chiesa ha cercato di conservare e riproporre continuamente alla luce delle acquisizioni del tempo, e di una sempre maggiore consapevolezza di sé che l'uomo va guadagnando attraverso le generazioni.
Pensiamo, per fare un nome, a sant'Agostino e a quella che è stata la monumentale elaborazione del De civitate Dei, dove il vescovo di Ippona mostra - in particolare nel capitolo XIX, sulla 'vera giustizia' - con impareggiabile efficacia la profondità del rapporto fra giustizia e misericordia, che nella visione cristiana allude al mistero del rapporto fra Città dell'uomo e Città di Dio.
Ma per venire più direttamente a noi e ai nostri anni, è interessante notare come gli ultimi Pontefici abbiano voluto darci indicazioni preziose proprio su questo tema, incastonandole nel loro insegnamento più rimarchevole. Pensiamo a che cosa ha rappresentato, nel pontificato di Paolo VI, la prospettiva della 'Civiltà dell'Amore', quale ideale di vita proprio di chi intende compenetrare verità e carità, giustizia e misericordia. O pensiamo ancora per un istante a quello che è stato il nuovo significato che Giovanni Paolo ii ha inteso dare proprio alla parola misericordia, il cui significato vero e profondo 'non consiste soltanto nello sguardo, fosse pure più penetrante e compassionevole, rivolto verso il male morale, fisico o materiale. La misericordia si manifesta nel suo aspetto vero e proprio quando rivaluta e promuove e trae il bene da tutte le forme di male esistenti nel mondo e nell'uomo. Così intesa, essa costituisce il contenuto fondamentale del messaggio messianico di Cristo e la forza costitutiva della sua missione' (Dives in misericordia, n. 6). Non credo sia sbagliato dire che il Papa venuto dall'Est, conoscitore dei regimi gelidi e anti-umani che allora esistevano in quella parte del continente, abbia riabilitato la parola misericordia, sottraendola dal vocabolario pietistico, per consegnarla alla modernità come prospettiva convincente e plausibile.
Sulla stessa linea si pone anche Benedetto XVI, che ha intitolato significativamente un capitolo della sua prima enciclica, la Deus caritas est, proprio 'Giustizia e carità'. 'Il giusto ordine della società e dello Stato - egli avverte - è compito centrale della politica. Uno Stato che non fosse retto secondo giustizia si ridurrebbe a una grande banda di ladri, come disse una volta Agostino', ricorda sempre il Papa (al n. 28). Per il quale, tuttavia, mai va dimenticato che 'l'amore - caritas - sarà sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c'è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell'amore'. Benedetto XVI fa presente come nel mondo, per quanto la politica faccia progredire a livelli sublimi la giustizia, ci sarà sempre sofferenza, ci sarà sempre solitudine, ci sarà sempre inadeguatezza rispetto alle attese del cuore umano. In altre parole, ci sarà sempre bisogno della carità che si traduce in condivisione e misericordia. 'Lo Stato che vuole provvedere a tutto, che assorbe tutto in sé, diventa in definitiva un'istanza burocratica che non può assicurare l'essenziale di cui l'uomo sofferente, ogni uomo, ha bisogno:  l'amorevole dedizione personale' (ibidem, n. 28). Non è questione dunque solo di interstizi da raggiungere e da coprire, ma di intelligenza e di finalizzazione dell'azione pubblica, nel suo porsi come atto di giustizia. La convinzione comune, secondo la quale strutture finalmente giuste renderebbero superfluo qualunque impeto di misericordia, nasconde, per il Papa, 'una concezione materialistica dell'uomo:  il pregiudizio secondo cui l'uomo vivrebbe 'di solo pane' (Matteo, 4, 4) - convinzione che umilia l'uomo e disconosce proprio ciò che è più specificamente umano' (ivi).
Un richiamo, quest'ultimo, che suona particolarmente prezioso in un momento storico in cui si rischia di schiacciare l'esercizio della misericordia addosso alla Chiesa, illudendosi che lo Stato da solo, in base a una concezione prometeica della laicità, riesca a raggiungere la perfezione della giustizia. Sarebbe una fatale illusione. Giustizia e misericordia o camminano a braccetto, preparando l'una il passo all'altra, o entrambe zoppicano, annaspando nella nebbia.
 
 
 
La misericordia vera forza della giustizia di Giovanni Maria Flick
 
Il luogo della giustizia è la vita collettiva, perché l'essere-altro, l'essere-separato, dall'altra parte, è ciò che distingue la giustizia, dall'amore, dove è abolita la distanza e gli individui non vengono a contrapporsi l'uno all'altro, quali separate altruità, come degli estranei.
Il giusfilosofo tedesco Josef Pieper ha scritto che 'essere giusto vuol dire convalidare l'altro come tale, vuol dire insomma offrire il riconoscimento, là dove non è possibile l'amore. E la giustizia avverte, dal canto suo, che esiste un altro, il quale non è come me e tuttavia ha anche lui il diritto al suo'. Dunque, la giustizia è la virtù che ci porta a riconoscere a ciascuno ciò che gli spetta, ciò che è suo.
Ma cosa significa 'rendere il suo a ciascuno'? Padre Joseph de Finance, nella sua Etica generale, individua due significati di 'suo'. Il primo è quello tradizionale, di pronome possessivo, che designa una unità di possedente e di posseduto:  quest'ultimo è riferito al primo come la parte al tutto, l'organo al vivente, lo strumento all'agente. In questo senso - scrive de Finance - si dirà che 'ogni esistente 'possiede' i suoi principi intrinseci:  (...) essi sono i 'suoi' perché maggiormente collegati al suo essere', senza i quali quell'individuo non potrebbe essere quello che è, senza dei quali non potrebbe esistere. Sotto questo aspetto, la giustizia rappresenta, per ciascun individuo, il suo dovuto, proprio per consentirgli di essere, unico e irripetibile.
Ma c'è anche un senso diverso di 'suo', un senso riflessivo. In tale prospettiva, 'suo' - quale riconoscimento basilare della giustizia - non è semplicemente ciò che è unito al soggetto mediante una relazione oggettiva di possesso, ma è piuttosto la coscienza e la consapevolezza di tale possesso:  è un modo dell'essere sé, un'esperienza intrasoggettiva di ciò che si possiede o che si deve possedere. In questo senso, 'rendere a ciascuno il suo' è anche rendere a ciascuno la coscienza di sé, dunque la libertà:  aggiunge de Finance che 'volere rendere a ciascuno ciò che è suo' è dunque in fondo, innanzitutto 'volere che ciascuno sia sé stesso', cioè che sia libero.
Nell'ordine pratico, la prima manifestazione della giustizia - l'imprescindibile condizione del suo manifestarsi - è dunque la libertà. La volontà costante e perpetua di rendere a ciascuno il suo diritto è, innanzitutto, volontà costante di riconoscergli il diritto alla libertà, primo fondamento di ogni relazione tra gli uomini, pre-condizione dell'eguaglianza:  quest'ultima - e con essa la virtù della giustizia chiamata a garantirne la realizzazione - non potrebbe neppure ipotizzarsi senza il riconoscimento della reciproca libertà. La relazione umana si struttura tra eguali - e può dunque configurarsi come 'giusta' - solo se gli 'eguali' sono, innanzitutto, egualmente liberi. Dunque, la giustizia è virtù fondata sulla costante autolimitazione, per garantire, innanzitutto, a ciascun altro di essere sé stesso, di essere libero.
Anche per la misericordia iniziamo dal tòpos, dal luogo, attraverso l'origine ebraica di ciò che oggi traduciamo con misericordia. Il termine con il quale l'Antico Testamento indica la misericordia è rehamim, che propriamente designa le 'viscere', al singolare, in senso materno ventre. Dunque, a differenza della giustizia, che si struttura nella relazione, la misericordia si colloca, anche topograficamente, nell'antro più segreto della corporeità del singolo uomo.
Ovviamente, si tratta di un senso traslato, metaforico:  serve, linguisticamente, a esprimere quel sentimento intimo, profondo e amoroso che lega due esseri per ragioni di sangue o di cuore, come la madre o il padre al proprio figlio o un fratello all'altro. Essendo questo legame riposto nella parte più intima dell'uomo - le viscere, appunto, come quando noi parliamo di amore sviscerato o di odio viscerale; ma in genere preferiamo il termine cuore - il sentimento che ne scaturisce è spontaneo e aperto a ogni forma di tenerezza.
La misericordia è, dunque, innanzitutto la irripetibile tenerezza della madre per il figlio, che continua a rimanere nelle sue viscere anche dopo il parto; o la profondità amorosa, incorruttibile dal tempo, che proviamo verso il nostro fratello di sangue, più giovane o anziano che sia. È, per il cristiano, la consapevolezza dell'amore infinito posto a base della nostra creazione. Essa muove - ha ben scritto il giovane prete sardo don Alessandro Simula - da un sentimento spontaneo, non da una deliberazione cosciente.
D'altra parte, della misericordia iniziale, Dio conserva memoria per gli uomini:  a condizione che gli uomini siano fervidi nella speranza di riceverla, fino all'insistenza, fin quasi all'insolenza. Come Abramo allorquando apre la 'trattativa' con il suo Signore per cercare di salvare Sodoma, con una intercessione sublime, che finisce per commuovere e fa tremare chi legge (e turba la legge). (...) Si salverà solo Lot, come sappiamo:  ma Abramo insegna la compassione che dovremmo avere per i peccatori, e mostra con quanta intensità dovremmo pregare per loro, cioè per noi stessi.
Nella tradizione ebraica, che non ha ritenuto di far propria l'aurora della Croce, giustizia e misericordia si fronteggiano da sempre:  persino nel nome della divinità.
Il Dio della misericordia subentra, nella tradizione ebraica, a quello della giustizia e del rigore. Ricorda Haim Baharier, anticonformista studioso della Torah e del Talmud, che - come insegnano alcuni maestri della Kabbalà, interpretando, sulla scia del Midràsh, il primo versetto della Genesi - Dio creò e distrusse venticinque volte ciò che aveva creato; alla ventiseiesima volta, creò una parola nuova, dai, in ebraico, che corrisponde al nostro basta - e finalmente contemplò l'opera del suo verbo.
L'atto della creazione è dunque il primo - nell'ordine temporale, ma anche in quello assiologico - atto di misericordia:  si potrebbe dire, è ciò che fonda la misericordia futura tra tutti gli uomini. Anche a costo di annacquare la giustizia, mettendone in forse la sua perfezione, rischiando - e la cancellazione della scena delle precedenti venticinque creazioni ne è la conferma - un mondo claudicante.
La misericordia, nella sua prima epifania, è dunque un atto di ritrosia del perfetto rigore:  un cedimento della giustizia, una rinuncia alla sua perfetta completezza per creare un mondo imperfetto e donarlo agli uomini. Da allora, da quest'atto fondativo, sarà sempre così:  la misericordia sarà un atto di trasfigurazione della giustizia, un subentrare a essa, una sua sublimazione.
Sotto questo aspetto, la misericordia è la forza reale della giustizia. La misericordia intesa come clemenza, come esercizio clemente della giustizia è sintomo della vera forza di quest'ultima:  un po' come il pianto è la vera forza del bambino inerme.
L'apostolo Paolo descrive in una frase la condizione per poter pensare al mistero della giustizia:  in generale, direi, per poter pensare. La condizione - egualitaria quanto la morte - del peccato, che ci accomuna in una umanità diversissima in tutto il resto, ma parificata in questo; la misericordia, che egualmente ci solleva tutti, distribuendo amore infinito a tutti, senza distinzione. Al problema delle disuguaglianze del mondo, la prospettiva cristiana risponde che l'unica possibile eguaglianza - e anche la più importante - è ai punti estremi della nostra condizione umana:  tutti uguali nella caduta; tutti uguali nell'amore che ci solleva. Così, la misericordia diviene la giustizia cui si unisce la carità:  essa è il perfezionamento della giustizia, ma, al tempo stesso, il suo superamento.
Il pensiero paolino è chiarissimo sul punto:  per rendersene conto è sufficiente rileggere uno dei passi più noti e intensi (e, letterariamente, più belli), quale l'Inno alla carità (1 Corinzi, 13, 1-13):  'E se anche distribuisco tutte le mie sostanze, e se anche do il mio corpo per essere bruciato, ma non ho la carità, non mi giova a nulla. La carità è magnanima, è benigna la carità, non è invidiosa, la carità non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità; tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine...'.
La giustizia, se non unita alla carità, resta imperfetta, monca:  una dimensione regolativa che scivola, progressivamente, nel legalismo. La finitudine della giustizia, che risalta al cospetto della grandezza infinita della misericordia, è resa bene in due parabole evangeliche.
La prima è la parabola del debitore spietato (Matteo, 18, 23) nella quale il re scopre un servo debitore di diecimila talenti, ma recede, per le sue suppliche, dall'originario proposito di venderlo con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, affinché saldasse il suo debito. Appena uscito, quel servo ne trova un altro come lui che gli doveva cento denari. Lo afferra e lo soffoca, dicendogli di pagare il dovuto. Il debitore spietato non vuole esaudire le suppliche del suo compagno e lo fa gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito. Venutolo a sapere, il re lo fa richiamare e gli dice:  'Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato. Non dovevi forse avere anche tu pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?'. E, sdegnato, 'lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto'.
Il comportamento del debitore spietato è, in punto di giustizia, ineccepibile:  dal condono del suo debito non deriva affatto alcun obbligo, per lui, di condonare a sua volta. E, per averlo fatto gettare in carcere a causa dell'inadempimento, nessun giudice lo avrebbe a sua volta potuto condannare. A condannarlo è, invece, la clemente misericordia che gli è stata usata e che egli non è stato capace di interiorizzare:  la misericordia arriva là dove la giustizia mai potrebbe, e lascia un segno che nessuna decisione di giustizia mai potrebbe lasciare. Il debitore spietato sceglie di scivolare nel legalismo e cade, tuttavia, a sua volta nella rete della giustizia:  chi è stato con lui misericordioso era 'al di là del bene e del male', ma il servo ha scelto di ripassare questo confine.
La seconda parabola è quella degli operai nella vigna (Matteo, 20, 1-16). Quale legge, quale principio di giustizia, potrebbe mai prevedere che lavori diversi, per durata, fatica e intensità, siano retribuiti allo stesso modo? E quale giudice mai potrebbe dar torto a quegli operai della mattina che, pensando di essere stati trattati ingiustamente, mormoravano contro il padrone:  'Questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo'!
Eppure, il padrone della vigna sa mettere in crisi lo stesso concetto umano di giustizia, fondata sulla scala ordinata dei valori e dei meriti ('Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse:  Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te. Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono? Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi').
La misericordia, abbiamo detto, invece non presuppone meriti:  li supera; evade la logica, come ogni vera grandezza dell'animo; di più, è autenticamente eversiva, nel senso etimologico di 'fuori dal verso delle cose, dalla loro direzione ordinaria', come nessuna giustizia umana - nel nome della quale pure si sono intraprese centinaia di rivoluzioni - potrebbe mai esserlo.
L'imprevedibile gratuità della misericordia scardina completamente la limitata visione della mentalità umana e diventa pietra d'inciampo persino dei principi di giustizia. La giustizia di Dio non contrasta, in realtà, con la giustizia umana (ogni operaio della parabola riceve la retribuzione concordata), ma la trascende, completandola e trasformandola con l'amore.
Per il giurista che insegue quotidianamente la giustizia, la consapevolezza di questo superamento è una speranza intensa e irrinunciabile.
 
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