Il messaggio contenuto nella consegna finale del Risorto ai discepoli consiste in un'apertura missionaria di dimensioni universali. Destinatari dell'evangelizzazione sono genericamente «tutti i popoli», cioè l'intera umanità che attende il messaggio del Regno.
Il messaggio contenuto nella consegna finale del Risorto ai discepoli consiste in un’apertura missionaria di dimensioni universali. Destinatari dell’evangelizzazione sono genericamente «tutti i popoli», cioè l’intera umanità che attende il messaggio del Regno. E’ comprensibile la sorpresa di fronte a tale progetto, che Gesù affida agli Undici convenuti in Galilea, di cui alcuni dubitavano (Mt 28,17): «Andare dunque e fate discepoli tutti i popoli…». Ci si chiede come fosse possibile che un gruppo di pochi uomini, fragili e impreparati, abbia potuto realizzare un progetto tanto ampio e complesso. L’evangelizzazione dei popoliimplica una pretesa senza precedenti, fondata sulla rivelazione di Cristo: il Vangelo non è destinato a un solo gruppo sociale, ma è offerto a tutte le nazioni di tutti i tempi e ha come finalità la salvezza integrale dell’uomo. Tale affermazione è diversa rispetto all’impostazione culturale e alla prassi giudaica del tempo, centrata sull’appartenenza etnica. Fin dal suo esordio la missione dei cristiani ha come orizzonte non solo il «popolo dell’alleanza», ma l’annuncio della «nuova ed eterna alleanza» in Dio per tutte le genti, in virtù della connotazione universalistica della Pasqua di Cristo. Fermiamo la nostra attenzione sulla dimensione biblica e pastorale dell’universalismo cristiano, per approfondire la specificità e le caratteristiche che devono accompagnare l’autentica missione affidata alla Chiesa e ai giovani.
Chi sono «i popoli»?
L’identificazione dei «popoli» nella Bibbia va cercata a partire dai racconti delle origini del mondo. Secondo le antiche tradizioni narrative di Israele, l’impiego del concetto di «popolo» distingue la realtà di Israele «popolo di Dio» (eb. ‘am Jhwh) e la costituzione delle altre «nazioni» (eb. gojim; gr. ethnƒì) sulla terra. Tale distinzione non è solo di natura etnica o politica, ma definisce la natura teologico-religiosa dell’«elezione» di Israele. Ne deriva una conseguenza notevole: se il popolo eletto ha ricevuto una vocazione specifica da Dio e gli appartiene in un modo speciale, gli «altri popoli» rappresentano quelle «genti» che non hanno conosciuto Dio e ricoprono un ruolo diverso nel progetto della salvezza. Secondo i racconti delle origini la distinzione delle razze e delle civiltà antiche è il frutto della «separazione» prodotta dal peccato di Adamo ed Eva (Gen 3,14-24). Dai progenitori pre-diluviani (Gen 5) e dalla famiglia di Noè discende la genealogia dei popoli (cf Gen 9,18; 10). In particolare l’episodio della torre di Babele produce la separazione/confusione delle lingue e suppone una progressiva diversificazione delle nazioni e delle razze (Gen 11,5-8; cf Dt 32, 8-9). In tale contesto spicca la figura di Terach e del figlio Abramo, la cui vocazione rappresenta l’esordio dell’elezione di Dio (Gen 12,1) e della promessa di una paternità tra tutte le famiglie della terra, che darà origine ad un «nuovo popolo» (Gs 24,2). Il binomio particolarismo/universalismo è insito nella stessa natura di vocazione di Abramo, che sarà sviluppata successivamente nel pensiero giudaico e in modo speciale nella riflessione paolina (cf Rm 4). Abramo è il padre del popolo eletto e allo stesso tempo è «benedizione» per tutti i popoli. E’ questo lo sfondo che dà origine all’identità dei «popoli» secondo i racconti biblici.
Israele e i popoli
La tradizione giudaica concepisce l’atto creativo di Adamo nell’orizzonte cosmico dell’intera umanità, nata dalla separazione del caos dal cosmo. Questo non significa che l’elezione di Israele elimini il ruolo delle altre nazioni. Nella cerimonia denominata havdƒÅlƒÅh, con la quale si chiude la giornata del sabato presso gli Ebrei, si recita la seguente benedizione: «Benedetto sei tu, Signore nostro Dio, re del mondo, colui che ha distinto tra sacro e profano, tra luce e tenebre, tra Israele e le genti, tra il settimo giorno e i sei giorni destinati alle opere…». La visione giudaica della «distinzione» va intesa come esperienza di relazione singolare con Dio e non come esclusione negativa di altri popoli, che invece sono parte integrante dell’unica creazione di Dio. Se non ci fossero gli altri popoli, Israele non potrebbe sperimentare la sua elezione, così come non c’è luce senza tenebre, né sacro senza profano, né sabato senza gli altri giorni. La consapevolezza della chiamata di Israele a costruire una singolare relazione con Dio si fonda sull’esperienza della liberazione dalla schiavitù dell’Egitto e del dono della Legge al Sinai (cf Es 19-24). Più volte è ribadita questa verità, soprattutto nella prassi cultuale riguardante i comportamenti, i calendari e l’uso dei cibi. In Lv 20,24-25 si legge: «Io sono il Signore Dio vostro che vi ha separati di mezzo ai popoli. Separate gli animali puri da quelli impuri». La separazione/distinzione del popolo eletto rispetto agli altri popoli è motivata in chiave religiosa dalla dottrina dell’alleanza, che implica la conoscenza del vero culto a Dio, l’obbedienza ai comandamenti, la sapienza che nasce dal timore di Dio e la speranza della salvezza basata sulle promesse celesti.
La singolarità dell’identità ebraica è rielaborata nella riflessione deuteronomica (cf Dt 26,5-9; Is 41,8-9; 43,20). Tale esperienza di fedeltà e misericordia matura nella certezza che l’elezione è amore gratuito di Dio: «Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli - siete infatti il più piccolo di tutti i popoli -, ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri» (Dt 7,7-8). Nell’esperienza del Sinai, dove riceve il dono della Legge, il popolo comprende che l’elezione è dono ma anche responsabilità. Israele comprende che la sua elezione è paragonabile alla predilezione di un padre per il «figlio primogenito» (Es 4,2), ma non è solo: vi sono anche altri figli, corrispondenti agli altri popoli. La missione di Israele consiste nel testimoniare a tutti la paternità di Dio, «raccontare la gloria di Dio e dire a tutte le nazioni i suoi prodigi» (Sal 96,3).
In conformità a tale riflessione il popolo eletto ha raccontato la sua vicenda sostenuta dalla particolare assistenza di Jhwh, soprattutto nei passaggi più critici delle persecuzioni e delle distruzioni. I libri storici e gli oracoli profetici rendono testimonianza della relazione tra Israele con gli altri popoli, evidenziando soprattutto come la fedeltà religiosa sia fonte di vita mentre il peccato idolatrico sia motivo di morte. Più volte nei racconti si fa riferimento alla «funzione seducente» esercitata dai popoli pagani sulla comunità ebraica (cf 1Re 11,5-8; 2Re 16,10-18; Ez 8; 1Mac 1,43-61). Israele non deve lasciarsi condizionare né tentare dai culti idolatrici delle nazioni straniere (Dt 7,1-8). Tali nazioni verranno riceveranno il giusto giudizio di Dio alla fine dei tempi. In quest’ottica vanno interpretati gli «oracoli contro le nazioni» dei profeti (cf Is 13-21; Ger 46-51; Ez 25-32), che annunciano l’imminenza del «giorno di Jhwh» nel quale saranno eliminati gli idoli (cf Ez 38‚Äë39) e tutte le potenze nemiche (Gi 4, 9‚Äë14; Zac 14, 1‚Äë12). Le immagini distruttive sono diverse e assumono anche trame narrative nelle quali il popolo oppresso medita e attende la liberazione finale (cf il libro di Giuditta, di Ester e la rivolta maccabaica).
La salvezza dei popoli
Accanto al messaggio del giudizio escatologico contro le nazioni pagane, si trova il motivo della pacificazione e della salvezza universale, voluta secondo un preciso progetto i Dio. Se c’è possibilità di conversione per i figli di Israele, ugualmente è data a tutte le nazioni l’opportunità di ritornare a Dio e di sperimentare la sua salvezza. In tale prospettiva vanno interpretati gli oracoli di pace e di salvezza che accomunano Israele e gli altri popoli del mondo (Is 2,2-5 / Mi 4,1-3). La visione escatologica della salita dei popoli sul monte Sion e della pace universale assume una rilevanza programmatica. Gerusalemme è il luogo in cui il «Dio vivente» si rivela al popolo eletto, che a sua volta esercita la mediazione della pace e della salvezza nei riguardi di tutte le genti (cf Is 45; 60; Zac 14,16). Ponendo fine alla dispersione di Babele, Dio, riconosciuto come re, riunisce attorno a sé tutte le nazioni e tutte le lingue (Is 66, 18‚Äë21). Ugualmente tutti i popoli vedranno in Sion la loro madre (Sal 86), così come hanno visto nel «servo di Jhwh» il consacrato, inviato dal Signore per svolgere la funzione di mediatore della salvezza (Is 42,1-6). In definitiva nella tradizione giudaica convivono due tendenza: da una parte si trova il rifiuto del contagio pagano rappresentato dalle nazioni straniere e dalla loro minaccia. Dall’altra l’apertura di Israele a tutti i pagani di «buona volontà», che accolgono la parola della salvezza e si aprono alla conversione (Giona). In tale contesto si colloca la missione di Gesù, che estende il messaggio del Regno di Dio a tutti.
Gesù e i popoli
Dalla lettura unitaria della missione di Gesù nei Vangeli, emerge la doppia valenza del particolarismo e dell’universalismo. In primo luogo il Signore si rivolge alla comunità giudaica nella linea della predicazione del Battista, invitando tutti all’accoglienza del Regno e alla conversione (Mc 1,15). Inviando i suoi apostoli nella prima missione di evangelizzazione, Gesù raccomanda di «non andare fra i pagani e non entrate nelle città dei samaritani», ma di rivolgersi alle «pecore perdute della casa di Israele» (Mt 10,5-6). Con la stessa indicazione particolaristica Gesù evidenzia la priorità della sua missione per i «figli di Israele» rispetto alle nazioni pagane (cf Mc 7,27). Accanto al particolarismo ebraico, il Signore esalta la grande fede del centurione pagano (Lc 7,9-10), del lebbroso samaritano (Lc 17,17) e della cananea (Mt 15,28). Al netto rifiuto di voler accogliere il vangelo del Regno da parte delle autorità giudaiche dal cuore indurito, segue l’orientamento universalistico della predicazione di Cristo. Egli rivela che tutte le genti sono comprese nel piano della salvezza e sono chiamate a partecipare al «banchetto escatologico». Le espressioni che attestano questa esigenza sono molteplici: il Regno è accolto da coloro che sono «lontani» (cf gli esempi profetici: Lc 4,16-30; Mt 12,40-41), l’invito al banchetto è esteso a tutti i «poveri, storpi, zoppi e ciechi» sollecitati ad entrare (cf Lc 14,15-24). In modo particolare l’evento pasquale, segnatamente l’istituzione dell’Eucaristia, è segnato dal versamento del suo sangue «per la moltitudine, in remissione dei peccati» (Mt 26,28). Comprendiamo come la risurrezione di Cristo e il mandato missionario assumono una chiara valenza universale.
La Chiesa e l’evangelizzazione dei popoli
La comunità cristiana ha compreso il proprio compito di evangelizzare ricordando le parole del Signore: «Questo vangelo del regno sarà annunciato in tutto il mondo, perché ne sia data testimonianza a tutti i popoli; e allora verrà la fine» (Mt 24,14). Occorre comprendere che l’apertura universale dell’evangelizzazione non esclude gli ebrei (cf Mt 25,32). Possiamo vedere la prefigurazione dei «popoli» nei Vangeli: i popoli sono simboleggiati dalla figura dei Magi (Mt 2,1-12), dalla scelta di predicare in una regione cosmopolita come la Galilea (Mt 4,15), dalla fede del centurione di Cafarnao (Mt 8,10), dalla fede della donna cananea (Mt 15,21-28). Sia nel racconto degli Atti degli Apostoli che nella riflessione paolina la progressione della predicazione segue lo sviluppo da Gerusalemme fino agli estremi confini della terra (cf At 1,8). La testimonianza della Chiesa e segnatamente di Paolo si fonda sulla «necessità di predicare il vangelo» a tutti e per ciascuno (cf 1Cor 9,15-23; Rm 1,4-17). In Cristo Gesù tutti i credenti sono chiamati a rispondere all’appello della salvezza e a formare l’unità del corpo di Cristo (Ef 2,11-21), non essendo più rilevante la distinzione tra giudeo e greco (Gal 3,28). La nuova realtà di Cristo si manifesta nella dinamica della missione universale della Chiesa di cui i giovani devono essere protagonisti.
L’universalismo dei giovani
La comunità cristiana s’interroga sulle possibilità di evangelizzazione offerte dai nuovi mezzi di comunicazione di massa. La caratterizzazione dei «popoli» derivata dall’analisi dei racconti biblici e presente nel mandato del Risorto (Mt 29,19) assume nuovi contesti e orizzonti nel mondo contemporaneo. La rapidità della comunicazione e della mobilità etnica apre nuove prospettive e possibilità di conoscenze che hanno nei giovani i veri interlocutori. Segnaliamo tre prospettive finali che emergono dal percorso svolto:
- l’accoglienza della missione rivolta ai «popoli» chiama i giovani a uscire dai particolarismi autoreferenziali che generano solitudini e violenze. Accogliere la sfida di «andare» a tutti significa lasciarsi coinvolgere in un processo di apertura umana, culturale e religiosa che implica la conoscenza e la condivisione degli altri.
- L’universalismo caratterizzato dallo scenario della nuova mondialità implica una conoscenza e rispetto per identità degli altri. La conseguenza di questo processo di apertura a tutti i popoli è la maturazione di esperienze, di linguaggi e di confronti, che sono alla base di un processo di reciprocità e d’integrazione sociale e religiosa. La missione ai «popoli» affidata ai giovani può divenire veicolo di una «nuova umanità», fondata sulla tolleranza e sulla solidarietà.
- L’invio a «tutti i popoli» fa emergere la necessità di riscoprire il valore della missione ad gentes. Essa deve rappresentare un «salto di qualità» della vita ecclesiale e dello stile cristiano che si apre al pluralismo culturale. Un autentico cammino di maturazione della vita di fede deve suscitare l’esigenza di un rinnovato impegno per annunciare appassionatamente il Vangelo a tutti.
Giuseppe De Virgilio
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