In questo tempo di individualismo, una dimensione particolarmente attuale dell'impegno educativo è quella della cura delle altre persone e dei propri rapporti con loro. Educare alla cura di sé comporta, da parte dell'educatore, la testimonianza vissuta di aver saputo riconciliarsi col proprio “vero io”, non per rassegnarsi ai suoi limiti, ma per affrontarli onestamente, in uno stile di pace e verità.
del 31 agosto 2011 Spunti di riflessione per quanti credono ancora al miracolo dell’educazione.           E’ importante educare i giovani ad aver cura di se stessi, per ritrovare, nel moltiplicarsi indefinito delle esperienze, un proprio centro interiore, quella profonda unità della persona, che è anche la sola difesa possibile dai meccanismi omologanti delle mode.E’ necessario educarli ad avere cura della propria storia. Oggi spesso i giovani vivono come atomi vaganti in un eterno presente, sradicati da un’origine e da una tradizione e incapaci di collegare i flash delle singole esperienze in un processo significativo. Educare ad aver cura significa valorizzare non il passato come tale, ma il rapporto che c’è tra esso e il presente, in vista della progettazione del futuro. Rientrano in questo l’educazione della memoria, la riscoperta della gratitudine, la capacità di essere discepoli, il senso della coerenza nelle proprie scelte.           In questo tempo di individualismo, una dimensione particolarmente attuale dell’impegno educativo è quella della cura delle altre persone e dei propri rapporti con loro. Si tratta di aiutare i giovani a comprendere che “nessun uomo è un’isola” e che la vita di ognuno dipende in una certa misura dalle scelte altrui. Più specificatamente, si tratta di riscoprire il senso della comunità e quello dello spirito di cooperazione che suppone l’esistenza di un fine comune. In questa prospettiva si educa a una libertà che non sia solo autonomia, ma anche, e soprattutto, responsabilità. Educare significa aprire orizzonti di senso e di futuro, sollecitando nei giovani la presa di coscienza che la vita non si può ridurre a uno sterile nomadismo senza direzione, ma esige un orizzonte di valori che la orientino, sia a livello personale che sociale. In questa logica si educheranno i giovani a percepire e contemplare la maestà della vita e-si sia o meno credenti in una rivelazione- ad aver cura della presenza di Dio, inteso come il mistero che pervade la realtà.           Oggi, più che all’etica delle regole e del dovere, i giovani sono sensibili a quella dell’autenticità. In un film di Pedro Almodova, Tutto su mia madre, si dice: “ Costa molto essere autentici. E in questa cosa non bisogna essere avari. Uno è tanto più autentico quanto più assomiglia all’idea che ha sognato di se stesso”. Essere autentici significa essere se stessi fino in fondo, rifiutare ogni immagine di sé che non rispecchia il proprio vero volto, non rinunziare ad assomigliare ai propri sogni. Il processo educativo deve assumere come meta fondamentale quella di aiutare le persone a portare alla luce il proprio volto, senza fughe nell’illusione e senza rassegnate denunce. Un’autenticità che decada a mero spontaneismo non può essere una risposta a questa esigenza. Seguire ciecamente le proprie pulsioni significa consegnarsi alla varietà indefinita di circostanze che le suscitano nelle direzioni più diverse, senza alcun filo conduttore, senza alcuna coerenza. E può portare a comportamenti devastanti per quella piena autorealizzazione che è il nome con cui oggi indichiamo la felicità. E’ illusorio credere che, per essere liberi, sia sufficiente poter fare quel che si vuole, se poi la volontà stessa è manipolata sottilmente dall’esterno. Bisogna che il volere sia in condizione di orientarsi verso un’alternativa o l’altra, dopo averne preso coscienza.  Senza consapevolezza non c’è libertà.            L’educazione mira a destare l’una e l’altra, per mettere in condizione la persona di non essere il burattino di mille “persuasori occulti” che puntano sui suoi riflessi condizionati con l’obiettivo di governare i suoi desideri.La libertà più radicale non è la pura e semplice capacità di esercitare il proprio libero arbitrio. Essa può scaturire dall’esperienza vissuta dell’interiorità e dall’ascolto delle voci profonde del proprio essere. Compito dell’educatore è di aiutare con discrezione e rispetto le persone a ritornare a questa sfera più nascosta, di cui spesso, frastornate dai rumori e dalla fretta, hanno perduto la memoria.           Educare alla cura di sé comporta, da parte dell’educatore, la testimonianza vissuta di aver saputo riconciliarsi col proprio “vero io”, non per rassegnarsi ai suoi limiti, ma per affrontarli onestamente, in uno stile di pace e verità. Comporta la capacità di individuare, in colui o colei che si vuole educare, le ferite profonde che gli rendono difficile l’accettazione di sé stesso e di rassicurarlo sul fatto che vale la pena che egli esista. Comporta l’impegno a segnalargli le potenzialità che sono in lui, valorizzandole e manifestando la piena fiducia che egli possa realizzarle. Solo in questo contesto di riconoscimento l’educatore può e deve anche far notare all’altro i difetti e gli errori, con quello stile di pazienza che ha imparato ad avere nei propri confronti.           Riconoscere l’altro significa sempre anche essergli grato per quello che è e che fa. Uno “sguardo benevolo” aiuta a crescere, nel difficile traghettamento verso la maturità. Molti ragazzi sarebbero diversi se nella loro vita avessero una volta incontrato un adulto capace di guardarli così.  Liberamente tratto dal libro “ Il coraggio di educare” di Giuseppe Savagnone, Alfio Briguglia. Editrice Elledici, 2008.
Giulia Puntel
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