Prima di parlare del "silenzio di Dio" di fronte al male, abbiamo provato ad ascoltare il grido che si solleva da questo male?
di ALESSANDRO MANFRIDI, tratto da vinonuovo.it
Prima di parlare del "silenzio di Dio" di fronte al male, abbiamo provato ad ascoltare il grido che si solleva da questo male?
Il messaggio che passa nell’episodio della teofania vissuta da Mosè credo sia tutto in quella motivazione drammatica che guida Colui che gli parla.
Il silenzio di Dio, registrato ed assunto dai protagonisti della Shoah come tremendamente assordante, corrisponde, a ben vedere, ad uno sbaglio di prospettiva.
Nella cosiddetta Storia della Salvezza, i testi biblici ci raccontano come il Dio d’Israele si sia sempre voluto servire di alcuni uomini e di alcune donne per realizzare i suoi progetti.
D’altronde, lo stesso Gesù di Nazareth, avrebbe invitato i suoi seguaci ad invocare e farsi guidare dal lume dello Spirito Santo non solo per costruirsi un lasciapassare per l’aldilà: piuttosto, per costruire un mondo in cui misericordia, giustizia e pace diventino gli elementi imprescindibili su cui ricostruire le relazioni umane, alla luce del desiderio e del disegno di Dio.
Dunque, quel “dio tappabuchi” rifiutato da Bonhoeffer, a ben vedere non appartiene non solo al messaggio evangelico, ma anche alla più grandiosa storia di liberazione che la Bibbia ci racconta. Dunque, all’origine dell’Esodo dall’Egitto, non ci sono le dieci piaghe e il passaggio del Mar Rosso.
La liberazione è possibile solo grazie a due elementi: il primo è quello legato all’udito di Dio. Dio ascolta il grido del sangue di Abele che dalla terra sale a lui. Dio ascolta notte e giorno il grido delle genti oppresse che sale a lui. Ma la sua pedagogia, culminata nel messaggio evangelico, non è più semplicemente quella di risolvere da solo, con eventi distruttivi e apocalittici (diluvio, distruzione di Sodoma e Gomorra) – in maniera radicale – il male che l’umanità realizza sulla Terra. Egli decide di uscire di scena. Per lasciare la scena agli uomini.
Ecco perché non c’è liberazione senza il secondo elemento: il grido udito da Dio può trovare risposta solo grazie ad un uomo o ad una donna che lo raccolgano.
Abbiamo appena finito di celebrare, come ogni anno, il ricordo degli orrori della Shoah. Se vogliamo raccogliere l’appello di coloro che l’hanno vissuta come protagonisti, dobbiamo fare nostro il grido che non solo la storia ma anche la cronaca ci consegna.
Come mai, mentre un nemico di nome COVID SARS si prende le scene sul palcoscenico mondiale, le nostre coscienze vengono anestetizzate e i mezzi d’informazione tacciono in maniera – questa sì, per usare il paradosso linguistico – assordante, su drammi che si consumano a pochi passi da casa nostra?
Parliamo della situazione disumana vissuta dai profughi afghani, irakeni e siriani, presenti in questi mesi sulla via dei Balcani e, secondo le testimonianze raccolte da diverse organizzazioni (Unhcr, Oim, Oxfam, Human Rights Watch, Save the Children, Amnesty International), maltrattati dalle polizie sulle frontiere di Bulgaria, Ungheria, Serbia, Croazia, Bosnia e Slovenia. Queste persone, tra le quali molti minori non accompagnati, non accolte e costrette, senza alcun riconoscimento né assistenza sanitaria, a trovare rifugio in case diroccate nel gelido inverno innevato balcanico, con temperature che arrivano anche a venti gradi sottozero, stanno vivendo un dramma nel dramma: prima la fuga dai loro paesi d’origine, ora la non accoglienza e le violenze di ogni genere da parte delle polizie di frontiera (maltrattamenti, sevizie, torture) e, cosa ancor più paurosa, dimenticati dalle nazioni della civile Europa, tra le quali la nostra Italia.
Non possiamo scordare che la guerra serbo-croata consumatisi negli anni Novanta è stato il primo grande conflitto internazionale continentale vissuto dopo il dramma della Seconda Guerra Mondiale – di cui la drammatica e veritiera trasposizione filmica in No men’s land (2001). Successivamente, lo scontro NATO-Belgrado, è stato realizzato per la escalation che, nella questione separatista del Kossovo, ha visto l’Occidente non promuovere il movimento nonviolento separatista culturale albanese kosovaro di Ibrahim Rugova quanto il braccio della resistenza armata dell’UCK sgradito a Milošević nella conferenza di Rambouillet. Secondo alcune teorie esso è stato magistralmente programmato da chi, Oltreoceano, temeva il varo dell’Euro a discapito del Dollaro sulla scena finanziaria mondiale: una guerra, si sa, favorisce sempre depauperamento e necessità di ricostruzione.
Non posso scordare le cronache di quei conflitti, tra le quali – guardando a casa nostra – vi fu il rinvenimento nella laguna di Venezia, da parte dei pescatori adriatici, del carrello di missili all’uranio impoverito di un F16 in forza NATO. Di ritorno da un raid su Belgrado, evidentemente il carrello non si era aperto e, per evitare un rapporto, il pilota aveva ben pensato di liberarsene prima del rientro. Poco importa se, uranio impoverito, il pesce pescato in Laguna avrebbe contribuito nel tempo a un inevitabile innalzamento di tumori procurati per via alimentare alla popolazione interessata.
A questi drammi vissuti nel recente passato, in quest’area che condivide con la nostra nazione confini e affaccio sull’Adriatico, si aggiunge ora un’incombente catastrofe umanitaria: quella del viaggio senza fine sulla rotta dei Balcani.
Ancora una volta, appena celebrata l’annuale Giornata della Memoria, rimane una domanda: può l’uomo nascondersi dietro il “silenzio di Dio” quando lui per primo si volge altrove davanti ai drammi dei suoi simili?
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