I feti sono bambini, chiamiamoli col loro nome

Nell'attuale dibattito sulla prematurità, si discute se rianimare i piccoli neonati e si sente dire che chi si applica in questo invece vuole rianimare i feti. Intanto chiariamo che al momento della nascita si deve usare il termine neonato, e che nessuno pensa certo di rianimare un neonato che non è maturo per sopravvivere....

I feti sono bambini, chiamiamoli col loro nome

da Quaderni Cannibali

del 15 febbraio 2008

 

 

 

Nell’attuale dibattito sulla prematurità, si discute se rianimare i piccoli neonati e si sente dire che chi si applica in questo invece vuole rianimare i feti. Intanto chiariamo che al momento della nascita si deve usare il termine neonato, e che nessuno pensa certo di rianimare un neonato che non è maturo per sopravvivere; ma dobbiamo chiarire qualcosa a proposito dell’innata paura verso il termine “feto”. Purtroppo chiamando feto il neonato sembra che si intervenga su un “essere” estraneo, perché associamo la parola feto con qualcosa di confuso e “altro”.

 

 

 

“Feto” è una parola fragile. La usiamo per convenzione, ma proviamo a riflettere su tre punti e molte cose si chiariranno:

 

1) Lo chiamiamo feto un minuto prima del parto e bambino un minuto dopo. Cosa è cambiato? Sul piano fisico quasi nulla. E’ arrivata la luce agli occhi ed è entrata l’aria nei polmoni. Si è chiuso (e non sempre) un canale tra aorta e arteria polmonare e poco più. Non sono cambiamenti sostanziali: anche prima di nascere il bambino si succhiava il pollice, poteva sentire il dolore, aveva memoria, sentiva le voci, gli/le batteva il cuore. Su questo si può trovare ampia documentazione scientifica. Certo: ora l’ossigeno arriva dall’aria e non dal cordone ombelicale… ma sono differenze strutturali, non di sostanza.

 

2) Ma da dove viene la parola “feto”? In realtà la distinzione tra “feto” (prima di nascere) e “bambino” (dopo il parto) è recente. Il termine “feto” deriva da una radice indoeuropea che significa “succhiare”, e la parola “fetus”  in epoca romana significava “frutto”  oppure “progenie” (Catullo indicava come “dulces musarum fetus” i figli delle muse, cioè le poesie).  Insomma, i romani non avevano un termine per indicare il bambino nascituro… perché sapevano bene che era un “puer”: già in epoca romana il bambino non ancora nato poteva ereditare e la lex Cesarea istituì il diritto del figlio di nascere anche per via operatoria (da qui il termine “parto cesareo”) se la madre stava per morire. Questa coscienza della continuità della vita  proseguì nel tempo e appare chiara anche dai famosi disegni di Leonardo da Vinci che mostrano il bambino prenatale, e ne illustrano l’inequivocabile umanità, associandovi la parola “putto”, cioè “bimbo”.

 

Eppure ad un certo punto della storia, si è verificata questa cesura, che ha un peso che va ben oltre lo scopo “descrittivo”: qualcuno ha usato un termine che fino ad allora era un sinonimo di “figlio” (“feto”, appunto) per indicare qualcosa che, nella sua idea, figlio non è ancora. I termini “bambino”, “adolescente”, “anziano”, “adulto” descrivono gli stadi di sviluppo di qualcuno che tutti riconosciamo come “persona”; invece il termine “feto” serve a denotare un minor livello di diritti. Sottolinea questa spersonalizzazione del termine il fatto che il termine “feto” non abbia un corrispettivo femminile: è una forma “neutra”, che come tale non ha la caratterizzazione sessuale che è la principale caratteristica della persona.

 

3) D’altronde anche il termine “embrione” dovrebbe veder riparata la stessa ingiustizia, dato che più che una parola è una specie di aggettivo che vuol dire “che fiorisce dentro” (en- brỳein), il cui soggetto, evidentemente è “il bambino”, ed ha la stessa origine della parola “brio”, che esprime, come tutti sanno “vita ed esuberanza”: altro che “umano in progetto” o “diritto dei genitori”.

 

Ma perché dobbiamo usare per il bambino prenatale un termine dirottato dal suo significato originario? Forse perché tutti noi usiamo termini stigmatizzanti per indicare qualcuno che “non è dei nostri”. E’ un fenomeno dell’antilinguaggio –spesso inconscio-, come lo definiva Orwell: un bambino è un bambino, ma se lo chiamiamo feto…

 

Lasciamo il termine feto ai ricordi del secolo scorso! Può forse servire in qualche discussione nostalgica, ma deve ritornare la nostra lingua ad usare i termini giusti. Lasciamo la nostra vista e il nostro cervello concordino sull’evidenza e iniziamo a chiamare i bambini per quello che sono… semplicemente bambini, anche se sono piccolissimi, nascosti nell’utero, talora malati: la scienza non serve a questo? E impariamo a discutere su come curarli – prima e dopo la nascita -, su come soccorrerli e far progredire la ricerca scientifica nel loro esclusivo interesse, invece di passare il tempo a discutere se far venir meno il nostro obbligo di assistere chiunque. I bambini e le loro famiglie ce ne saranno grati.

 

Carlo Bellieni

http://www.loccidentale.it

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