I giovani non sono solo “destinatari”, ma elemento dinamico essenziale per la Famiglia Salesiana. Don Bosco è interpellato da Dio attraverso i giovani: quelli rinchiusi nei carceri torinesi, quelli incontrati sulle vie, le piazze e i prati delle periferie torinesi, quelli che bussano alla sua porta per avere pane e rifugio, quelli incontrati nelle scuole...
Quella straordinaria “comunità narrativa” che è la famiglia salesiana nasce da un sogno che ha il sapore evangelico di Marco 9, 36-37: «Gesù prese un bambino, e lo portò in mezzo a loro, lo tenne in braccio e disse: “Chi accoglie uno di questi bambini per amor mio accoglie me. E chi accoglie me accoglie anche il Padre che mi ha mandato”».
I giovani non sono solo “destinatari”, ma elemento dinamico essenziale per la Famiglia Salesiana. La storia salesiana dimostra che il lavoro tra i giovani poveri e abbandonati, destinatari privilegiati, attira le benedizioni di Dio, è sorgente di fecondità carismatica e religiosa, di fecondità vocazionale, di rigenerazione della fraternità nelle comunità, è il segreto della freschezza e del successo delle opere.
Don Bosco è interpellato da Dio attraverso i giovani: quelli rinchiusi nei carceri torinesi, quelli incontrati sulle vie, le piazze e i prati delle periferie torinesi, quelli che bussano alla sua porta per avere pane e rifugio, quelli incontrati nelle scuole popolari della città dove è chiamato per il ministero.
«Gesù chiamò un bambino, lo mise in mezzo a loro e disse: “Vi assicuro che se non cambiate e non diventate come bambini non entrerete nel regno di Dio”» (Matteo 18, 2-3). Frase difficile da prendere alla lettera, soprattutto da chi è quotidianamente esasperato dalla convivenza con tiranni in formato ridotto. I bambini hanno davvero qualcosa da insegnarci?
Don Bosco impara dai giovani: certe note connotative del sistema preventivo sono frutto della frequentazione del loro mondo e della comunanza di vita, sentimenti, aneliti; certi aspetti qualificanti della spiritualità giovanile di don Bosco sono tratti dalla conoscenza dell’animo giovanile e dalla scoperta delle altezze a cui essi possono arrivare; certe caratteristiche carismatiche dello spirito salesiano vengono proprio dalla sintonia con il mondo giovanile.
Quello che ci insegnano i piccoli
Il mestiere di educatore può essere una condanna alla schiavitù e alla nevrosi o un viaggio entusiasmante che arricchisce e trasforma. Uno degli elementi che fa la differenza è la disponibilità ad imparare. Di solito gli educatori pensano a ciò che possono insegnare ai loro destinatari. Forse, una volta tanto, devono chiedersi che cosa possono imparare da loro.
Il mestiere di educatore non è un estenuante fioccare di attività e interventi pratici, è un cammino spirituale: un susseguirsi di esperienze che svelano, poco a poco, il senso profondo della vita e della persona. E in questo cammino si è spesso condotti da manine paffute sporche di Nutella che hanno appena rovinato in modo irrimediabile la nuova costosissima decorazione dell’oratorio.
Perché sono loro i più vicini alle sorgenti della vita.
Fare gli educatori è scuola in cui si apprende più di quanto si riesca ad insegnare. A patto, naturalmente, di volerlo fare. Sarà facile scoprire che guardare i ragazzi è meglio che guardare la televisione o navigare su Google. E più istruttivo.
Ecco alcune delle cose che ci possono insegnare i ragazzi.
La crescita permanente. I ragazzi “costringono” gli educatori a conoscersi a fondo: hanno uno straordinario talento nel disintegrare i ruoli e arrivare alla “carne viva”. Si può mentire agli adulti con qualche speranza di successo: mentire ad un bambino è impossibile. I bambini avvertono le emozioni con intensità e sensibilità maggiori delle nostre e le manifestano con assoluta spontaneità.
Questo provoca negli educatori una forte crescita del senso di responsabilità e la necessità di una sempre maggiore capacità di autocontrollo. Anche la mente è stimolata. Ogni giorno, la vita con i ragazzi li pone di fronte a scelte, a sfide, a problemi e difficoltà. In ogni momento della giornata la mente di un educatore è costretta a sviluppare prontezza di spirito, intelligenza del cuore, inventiva.
L’attenzione. “Guarda!” I bambini desiderano la presenza dell’educatore. Non un semplice “essere lì”: vogliono un’attenzione totale, indivisa, senza giudizi o aspettative. Una presenza che riscalda, che fa diventare importante, fa sentire di valere. Essere presente significa essere disponibile: sono qui, per te. Un’attenzione pura, che non invade e non dirige, ma è intensamente presente e basta. Noi sfioriamo tutti, non siamo più attenti alle persone, neanche a quelle che amiamo.
Il rispetto e la pazienza. I figli reali non sono mai simili a quelli sognati e aspettati. Si ribellano alle aspettative che impediscono loro di crescere secondo le leggi interne del loro essere. Hanno un loro ritmo, un loro progetto interno, inclinazioni originali. Diceva don Bosco: «Lasciare ai giovani piena libertà di fare le cose che lo-ro maggiormente aggradano... E, poiché ognuno fa con piacere quello che sa di poter fare, io mi regolo con questo principio, e i miei allievi lavorano tutti, non solo con attività ma con amore» (MB, XVII, 75).
Diceva ai suoi collaboratori: «Si dia agio agli allievi di esprime-re liberamente i loro pensieri». Insisteva: «Li ascoltino, li lascino parlare molto».
La felicità e gratitudine per la vita.I giovani sonol’investimento più importante nel campo della realizzazione e della felicità personale. Sono un compito, talora arduo, ma anche una benedizione. La vita con i giovani può essere una faticaccia, ma quale profonda felicità può generare una giovane persona che matura affidandosi a noi con tutta la fiducia del mondo?
Don Pascual Chávez Villanueva
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