Cosa evoca in noi il termine «idolatria»? Ormai abbandonata ‚Äì o, meglio, confinata alle estreme terre delle sempre più esigue popolazioni rimaste «pagane» ‚Äì l'accezione «feticistica», trasposta in ambito di popolarità sportiva o musicale la dimensione di «adorazione» incantata di un personaggio...
del 01 gennaio 2002
Cosa evoca in noi il termine «idolatria»? Ormai abbandonata – o, meglio, confinata alle estreme terre delle sempre più esigue popolazioni rimaste «pagane» – l’accezione «feticistica», trasposta in ambito di popolarità sportiva o musicale la dimensione di «adorazione» incantata di un personaggio, messa in crisi una certa idealizzazione politica con il relativo culto della personalità, non si può però certo dire che gli idoli siano scomparsi dalla nostra esistenza, con tutto il loro carico di asservimento e di appiattimento dell’uomo e della sua libertà.
Gli idoli, infatti, continuano a essere opera dell’uomo, e la loro creazione, sopravvivenza, trasformazione e funzionamento rispondono a precise istanze e bisogni antropologici.
Non dimentichiamo che l’idolo – inteso come «simulacro», «feticcio» – non è la personificazione del dio, e in questo non inganna l’adoratore che è perfettamente consapevole di trovarsi di fronte non al dio in persona bensì a un’opera delle proprie mani, un «manufatto» che egli stesso offre al dio come «immagine visibile» affinché questi acconsenta ad assumerne il volto. Così, chi adora una statua sa benissimo che il dio non coincide con quell’idolo: in essa trova il volto accettato dal divino che sta prima di ogni immagine. In questo senso si può dire che l’esperienza umana del divino precede il volto che quel divino assume in essa, l’elaborazione umana del divino anticipa il volto idolatrico e così l’idolo restituisce all’uomo, sotto la forma del volto di un dio, la sua stessa esperienza del divino.
Così quello che emerge a livello di «simulacro», di oggetto, si rivela autentico anche al livello più profondo (o più alto) dell’immagine: l’idolo, che sia esso statua o realtà immateriale o ideologia, non inganna ma fornisce certezze riguardo al divino. Anche quando appare nel suo aspetto terribile, l’idolo è rassicurante perché identifica,il divino nel volto di un Dio. Forse da questo aspetto nasce la sua sorprendente efficacia «politica»: anticamente esso rendeva vicino, a portata di mano il dio che, identificandosi con la polis, le assicurava un’identità. Ecco perché, anche dopo il tramonto del paganesimo, la politica non ha cessato di suscitare degli idoli: che siano «il grande condottiero» o «l’uomo della Provvidenza» o «il più amato dalla gente», questi uomini, divinizzati, scongiurano il divino o, se si preferisce, il destino umano. È l’idolatria a conferire dignità al culto della personalità, a trasformarla in una figura «vicina», familiare, addomesticata del divino. Qui si coglie la dimensione politica dell’idolatria, il suo essere un attentato alla libertà umana, e si comprende anche come la lotta anti-idolatrica richieda adesione alla realtà e l’attivazione dell’interiorità, di uno spazio interiore, della capacità critica, affinché la libertà non sia solo libertà di reagire, ma di agire, di proporre, di progettare.‚Ä®Non solo, ma questo annullamento della distanza, questa «familiarità» che rende schiavi (non dimentichiamo che il termine familia indicava all’origine l’insieme dei servitori di una casa), la si ritrova anche negli idoli «immateriali» così potenti ai giorni nostri: non è un caso che il mito oggi più affascinante – il successo in termini di potere, di denaro e di sesso – venga incontro e dia sfogo a tre libidines insite in ogni essere umano: la libido dominandi, la libido possidendi e la libido amandi. Così, opera non delle mani ma delle pulsioni dell’uomo, queste tre forze si ergono di fronte a lui, gli chiedono adorazione e servizio, gli rubano la libertà promettendogli partecipazione al «divino», accesso al sovraumano, protezione contro le forze mortifere.
Ora, quando il cedimento ai richiami delle tre libidines passa dalla sfera personale a quella sociale, assume connotati idolatrici che nella nostra società occidentale si possono identificare sul piano economico con l’adorazione di tutto ciò che si può calcolare, dalla quotazione di un’azione in borsa al saldo di un conto corrente, al numero di esecutori della propria volontà.‚Ä®In particolare, potremmo affermare, echeggiando il Benjamin di Capitalismo e religione, che, in una società in cui il paradigma dell’homo oeconomicus ha preso il posto dell’homo religiosus, sempre di più il denaro e le istituzioni del mercato tentano di appagare quelle preoccupazioni e quelle ansie a cui un tempo davano risposta le religioni. Forse la miglior raffigurazione dell’idolo si trova nella moneta, nella banconota: lo «spirito»del denaro si incarna nella moneta e le immagini delle banconote sono le icone che rivelano ed emanano tale spirito. Nel denaro si «crede» e, certo, la maggior parte degli uomini pone la fiducia nel denaro: il denaro dà sicurezza, fiducia. Eppure esso, ci ricorda il filosofo Vittorio Mathieu nella sua Filosofia del denaro, non è una cosa fisica e non è neppure legato alla materia se non come simbolo.
Sul piano etico e sociologico l’attitudine idolatrica si identifica invece con l’adeguarsi al comportamento della «massa»: giusto è quello che fanno tutti, in una sorta di dedizione demagogica dell’adagio vox populi, vox Dei. Ma questa «massa», la tanto decantata «gente», non è un’entità autonoma, libera, non è un corpo le cui membra interagiscono per il bene comune, bensì un agglomerato indefinito, un accostamento di individualità pesantemente manipolato: così i sondaggi non registrano l’orientamento degli intervistati ma lo determinano, così le opere della finzione – letteraria, cinematografica, teatrale – non testimoniano i sentimenti e i comportamenti di un’epoca e di una cultura ma li condizionano, così le immagini non garantiscono l’autenticità di un fatto ma lo creano. La realtà virtuale non solo supera, ma scaccia la realtà effettiva: allora vero, oggettivo è ciò che appare; lecito è ciò che tecnicamente è possibile; encomiabile è ciò che suscita invidia.
In fondo la strada verso l’idolatria resta sempre la stessa: un’affascinante strada di schiavitù, le cui catene e la cui gabbia appaiono sempre più dorate ma si rivelano sempre più rigide. È la strada dell’operare umano svincolato da un’istanza superiore – la dimensione del «divino» – che sola è capace di far emergere tutta la grandezza dell’uomo e di conferirgli unità e pienezza. È significativo che per la Bibbia non esistano gli atei, i senza-Dio: esistono invece gli idolatri ed esiste soprattutto la tentazione dell’idolatria che colpisce tutti, il credente come chi credente non può definirsi. L’uomo abbandonato a sé, l’uomo che ignora o disprezza l’immagine di Dio che abita in se stesso e nel proprio simile, l’uomo che pretende di costruire la propria vita da se stesso non è ateo, è idolatra, schiavo di quelle «emanazioni», di quelle forze oscure che penetrano nel cuore umano e ne mettono in moto gli elementi deteriori.
Enzo Bianchi
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