Il comandamento della felicità

Parlare di felicità è molto di moda. Si organizzano convegni e dibattiti, si scrivono libri e ricettari. Eppure, nelle nostre società nulla sembra più incerto e fuggente della felicità. Gli psicologi dicono che abbiamo perso la capacità di desiderare e di lottare per ottenere ciò che sogniamo. Siamo spesso depressi e insoddisfatti. Di sicuro abbiamo dimenticato il più originale e paradossale decalogo sulla felicità: quello delle Beatitudini.

Il comandamento della felicità

da Quaderni Cannibali

del 08 gennaio 2006

Chiedimi se sono felice. Titolo riuscito per un film di qualche anno fa. Domanda difficile, perché in bilico tra la banalità marzulliana e lo scavo psicoanalitico. Chi si azzarda oggi a chiedere serenamente a un amico, un parente, un figlio: «Ma, al di là delle parole dette o non dette, e delle maschere indossate, sei felice?». Nel migliore dei casi ci si limita a un «come va?» di routine, gettato lì senza impegno, in attesa di una risposta ugualmente poco impegnativa. Né le cose vanno meglio con se stessi, con il proprio io («Sono felice?», mah, sì, compatibilmente...), o nelle comunità parrocchiali: usereste mai la parola felicità per descrivere un’assemblea che si ritrova per la celebrazione eucaristica o a proposito di una riunione dei vescovi e di un convegno ecclesiale?

Non sono domande oziose, se pensiamo che, per esempio, in francese e in altre lingue, le Beatitudini proclamate da Gesù sono inviti alla felicità, il beato è heureux, felice. Utopia? Sogno? Bene transitorio? Stato perenne? Condizione genetica o faticata conquista? Chissà. In ogni caso, negli ultimi tempi, tanti si interrogano sulla felicità: lo scorso anno, a Napoli, una tre giorni dedicata all’Arte della felicità ha messo a confronto scienziati e uomini di fede, filosofi e artisti; a Milano, il dipartimento di Economia politica dell’Università Bicocca, dopo un primo seminario del 2003 – giunto alla conclusione che la felicità è materia che non può essere estranea all’economia – ha approfondito le condizioni oggettive e le caratteristiche soggettive che consentono di sperimentare la felicità, dando appuntamento nel 2007 per una 'biennale della felicità'. Dagli Stati Uniti, poi, arrivano studi che spiegano come indagare 'scientificamente' questa condizione, come quelli di Edward Diener, psicologo dell’Università dell’Illinois, che ha brevettato la 'scala della soddisfazione esistenziale', o di Martin Seligman, autore del manuale La costruzione della felicità. In Olanda esiste persino una rivista che si intitola Journal of Happiness Studies. E pure in Inghilterra la felicità è un tema che va alla grande: così, mentre la diocesi di Westminster ha promosso un’indagine per verificare il morale dei suoi sacerdoti e capire se sono felici o meno, lo psicologo Richard Stevens ha condotto un esperimento sugli abitanti di Slough, una cittadina nelle vicinanze di Londra, arrivando alla conclusione che la felicità consiste in dieci piccole cose: dal guardare meno la televisione al trovare un’ora alla settimana per parlare con qualcuno cui si vuole bene, dal prendersi cura di una pianta al sorridere a uno sconosciuto o farsi una bella risata e mangiare un cioccolatino.

Al di là della formule e dei decaloghi, ogni metodo non può prescindere da un contenuto biografico, da una vita reale, come spiega nell’intervista che segue lo psicoanalista Umberto Galimberti. È dunque con il proprio vissuto e con la propria visione del mondo che bisogna fare i conti. Per questo, cominciamo l’anno cercando di andare alle radici della felicità: per capire che fine abbia fatto nella nostra società e quale sia lo specifico della felicità cristiana. Già, perché secondo un’idea piuttosto diffusa, sembrerebbe che la felicità non abbia nulla a che vedere con il cristianesimo, spesso accusato di inseguire un ideale di tristezza o, nel migliore dei casi, di gravitas monastica, disprezzando i piaceri del corpo e le gioie della vita. Come se il contemptus mundi e le mortificazioni fossero la condizione normale del cristiano. E non ci fosse spazio nella sua vita per il desiderio e il piacere.

Niente di più falso, invece, visto che il modello delle Beatitudini è proprio un invito alla felicità. Certo, una felicità alla rovescia, paradossale («felici i poveri, felici coloro che hanno fame e sete di giustizia...»), perché non è mai disgiunta dall’amore e dalla giustizia. Una felicità alimentata da un desiderio mai totalmente soddisfatto, perché esso troverà la sua piena realizzazione nel Regno, ma al quale si aspira con la stessa intensità splendidamente descritta nel Salmo 42: «Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio».

La felicità è, dunque, legata all’attesa, di un Altro e di un altrove, di cieli nuovi e di terre nuove, in cui il male sarà vinto e la morte messa a morte. Ma di essa, tuttavia, ci è offerto già qui, su questa terra, un anticipo, una prefigurazione. Una felicità che è promessa e, nello stesso tempo esperienza già data, perché nessuno, come dice sant’Agostino nelle Confessioni, desidererebbe tanto la felicità, se non la possedesse in qualche modo. È come quando si cerca un oggetto smarrito, una sensazione o un piacere di cui abbiamo perso il ricordo, ma di cui la mente conserva la traccia. La felicità, secondo Agostino, è, dunque, «la gioia che viene dalla verità», cioè «dal godimento di te, che sei la verità, o Dio, mia luce, salvezza del mio volto». Agostino parla di ordo amoris, quella disposizione dell’animo che si apre alla pace e all’amore di Dio. Esperienza che raggiungerà il suo culmine nel Regno, quando risuonerà la musica di Dio e gli eletti balleranno, ebbri di gioia, perché, secondo l’autore delle Confessioni, Dio è musica, ritmo, armonia.

La ricerca della felicità, nella storia del pensiero cristiano, ha avuto accenti e toni diversi, come un fiume carsico che a tratti riemerge.

È stata ricerca di felicità – come rovesciamento dell’ingiustizia e ricerca del Regno – anche la tentazione millenarista, che talvolta si è trasformata in conflitto, fanatismo e violenza in nome di un paradiso perduto, come durante la rivolta dei contadini tedeschi (1525), guidati dal predicatore Thomas Müntzer, avversario di Lutero. Ma è stata ricerca della felicità anche il filone dell’utopia, la ricerca pacifica di terre e cieli nuovi: basti pensare a Tommaso Moro, alla sua isola che non c’è, in cui la logica delle Beatitudini rovescia quella mondana. Certo, la storia contemporanea ha mostrato spesso la faccia violenta e odiosa dell’utopia, perché quando si impone la felicità per legge essa diventa caricaturale, mostruosa. Eppure, alla base delle grandi rivoluzioni sociali e dei grandi cambiamenti, non può che esserci l’idea di una felicità possibile per tutti.

Secondo Agostino, il paradiso terrestre sta all’inizio e alla fine della vicenda umana. Per i cristiani esso è, dunque, il tramonto e l’alba di una vita nuova. Scrive Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose: «Significativamente, questo simbolo fa parte del racconto della creazione, degli eventi del principio, eventi che riguardano ogni uomo, l’umanità tutta. Questo ci dice anzitutto che le pagine della Genesi necessitano non solo di una lettura teologica, ma anche teleologica: il paradiso arriva a designare il destino a cui tutta l’umanità è chiamata. La comprensione che i Padri della Chiesa ebbero del racconto creazionale tradusse questo principio in una formula molto efficace: 'Dio creò l’uomo e lo pose nel paradiso, cioè in Cristo'. Il giardino della comunione piena e senza ombre con Dio non sta tanto alle spalle dell’uomo quanto davanti a lui. Se la storia è la nostra condizione, il paradiso è la nostra vocazione; esso è il dono di Dio che ci attende, piuttosto che la realtà che abbiamo perduto».

Quali sono i riflessi di questa ricerca della felicità nella pastorale, nella vita quotidiana delle parrocchie, nelle omelie domenicali? Lo chiediamo a don Gennaro Matino, docente di Teologia pastorale a Napoli, parroco e scrittore: «Mi domando se non abbiamo paura di dire alla gente che vale la pena lottare per essere felici», risponde. Certo, non farlo è tradire il messaggio cristiano, aggiunge. Eppure è difficile «coniugare il Vangelo, che è una bella, gioiosa notizia, con il carico di limitazioni o di divieti che imponiamo nella nostra predicazione. Quando parliamo con la gente, diciamo piuttosto ciò che non devono fare. Persino i santi, nelle nostre chiese, hanno perso il sorriso. E anche il modo di celebrare le liturgie e di vivere la passione religiosa, sembrano essere una scuola di eccessiva e inadeguata serietà rispetto all’annuncio cristiano».

Ma non c’è anche – come dicono alcuni – un problema strutturale del cristianesimo, cioè l’impossibilità di annunciare una felicità a tutto tondo perché gravati da un senso di colpa atavico, tipico della cultura giudaico-cristiana? «L’impianto giuridico giudaico», spiega don Matino, «privilegia la relazione premio-castigo, che è la garanzia perché la legge possa essere rispettata. Ma ben restando alti i comandamenti che la legge ci ha consegnato, non dobbiamo dimenticare che Gesù, salito sul monte, ha lanciato la sfida ai dieci comandamenti, al loro superamento, dicendo di essere beati, felici». In fondo, osserva con amarezza don Matino, «è più facile dire alla gente che andrà all’inferno se non rispetta la legge e non, invece, che sarà felice se incontrerà Cristo. Con la paura si possono riempire le chiese, incoraggiando a vivere l’allegria della fede si rischia qualcosa».

Facendo eco alle parole di don Gennaro, ci si potrebbe chiedere perché oggi la nostra Chiesa sembra comunicare rigore e severità, più che la 'leggerezza' della fede. «Sì, oggi stiamo riproponendo uno schema di tipo legalista. Mi chiedo quando arriverà il momento in cui riconosceremo all’adulto cristiano la responsabilità delle sue scelte, senza imboccare continuamente i credenti su ciò che devono e non devono fare. Questo atteggiamento è indice di paura e di mancanza di fiducia nell’uomo, cui si pretende continuamente di indicare il percorso. Un uomo felice diventa libero, imprendibile. E allora è preferibile averlo castigato e... più controllabile».

La felicità cristiana, dunque, dovrebbe andare a braccetto con libertà e responsabilità. Un annuncio gioioso che punti al cuore di cristiani maturi si trova riassunto in una della pagine più belle del Vangelo. «Il maestro diceva che per entrare nel Regno dei cieli – che non è solo prospettiva futura ma condizione presente del cristiano – bisogna tornare bambini. Non è la proposta di un infantilismo religioso, ma recupero del bambino che vive dentro ciascuno di noi». Un’operazione che, secondo don Matino, ha tre caratteristiche: «Primo, non perdere la meraviglia, l’atteggiamento di stupore in positivo e in negativo rispetto alle cose», insomma farsi sorprendere dalla realtà, rifuggendo dall’atteggiamento cinico di chi sembra già conoscere tutto. «In secondo luogo, vivere la vita come dono, che mi è stato dato gratuitamente e per il quale sono continuamente grato. Infine, un atteggiamento di fiducia: il bambino sa che può fidarsi dei genitori. E, come dice il salmo, si abbandona: 'Se anche andassi per valle tenebrosa non proverei alcun male perché Lui è con me...'».

Vittoria Prisciandaro

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