La cosa che colpisce è la naturalezza con cui i jihadisti attuano e documentano le atrocità. Ognuno di loro è protagonista di un terrificante gioco di rinforzo: più uccidono, più diffondono, più ottengono riconoscimenti.
Hanno tra i 20 e 30 anni, si svegliano si vestono, trascorrono la giornata umiliando, stuprando, seviziando, uccidendo, decapitando, esercitando le più abominevoli mostruosità. Documentandole compiaciuti. Sono gli uomini dello Stato islamico (Is), che stanno procedendo compatti in Iraq e Siria con il segno distintivo dell’atrocità. L’indottrinamento jihadista non basta a spiegare la ferocia sistematica con cui agiscono i miliziani del Califfato.
E nemmeno la psicologia del terrore fornisce uno strumento di analisi sufficiente. Il volume e le modalità dell’avanzata fondamentalista in atto tra Iraq e Siria impostano le coordinate di un fenomeno che ha pochi precedenti. Gli uomini dello Stato islamico non sono assimilabili ai loro antesignani di al-Qaeda. La struttura della rete poggiava su solidi presupposti ideologici, coerentemente cementati dall’ostilità verso gli Stati Uniti e Israele. Osama Benladen era il “Principe del male”, figura indiscussa e capace di coniugare un’assenza carismatica e una presenza costante e manipolatrice. Era il regista di un network (la rete, appunto) che agiva per cellule isolate, nutrite di solitudine e distacco rancoroso dal mondo che si predisponevano a colpire. Per al-Qaeda, soprattutto, il terrorismo era il “fine”, la cambiale, la garanzia di una supremazia trasversale.
Lo Stato islamico, al contrario, considera il terrorismo solo un mezzo, uno dei tanti da utilizzare per la conquista (tutt’altro che “concettuale”) del territorio: qui si tratta di procedere metro dopo metro, segnando i confini precisi del Califfato, i piedi ben piantati nel terreno. E in connessione, eccome, con il mondo. Non si ritengono terroristi, i jihadisti dell’Is, ma un vero esercito. Che agisce in un nome di una religione, l’islam, grossolanamente interpretata. Gli analisti concordano sul fatto che la maggior parte di loro (a differenza dei qaedisti) ha una conoscenza limitata del Corano. Al netto di un indottrinamento di facciata, dal Libro Sacro attingono solo il necessario per imbastire proclami ad effetto. Il fondamentalismo è nella pratica, molto più che nella teoria. L’occupazione massiva lanciata a colpi di massacri ha poco a che vedere anche con i genocidi del recente passato: quello in Serbia, quello in Ruanda, per esempio.
Lì a dirigere l’azione, con terribile, logica ritualità, era l’“archetipo del nemico”, con l’individuazione precisa di un “altro” (ostile) capace, come sempre, di orientare e canalizzare le peggiori pulsioni dell’aggressività umana.
Il fatto è che lo Stato islamico un nemico non ce l’ha. O meglio, ne ha così tanti (gli americani, gli europei, i musulmani moderati, i sunniti politicizzati, gli sciiti, gli alauiti, i rivali qaedisti, al-Nusra sopra tutti, i peshmerga, la popolazione locale) da doversene “inventare” uno: le minoranze cristiane e yazida. Carne da macello da esibire sul mercato dell’orrore. Ovviamente online. La gestione mediatica dell’offensiva è la “specifica” più evidente dell’Is. E il motore del fenomeno. Era stata al-Qaeda a inaugurare la stagione della propaganda sul Web. Ma i filmati prodotti e diffusi in Internet (rozzi, primitivi se paragonati a questi dell’Is) erano diretti soprattutto al mondo musulmano. L’obiettivo era propagare il contagio di un’esaltazione altrimenti confinata all’interno delle singole cellule, operative o dormienti. I video erano riversati sui siti arabi, i protagonisti parlavano in arabo, in arabo erano i testi scritti, arabi tutti i riferimenti simbolici, decriptati di volta in volta dagli analisti occidentali.
I filmati dello Stato islamico hanno un altro scopo, un altro pubblico e un altro circuito. Sono fatti per “noi”. Per l’Occidente chiamato a vedere di cosa i miliziani sono capaci. Di quali vendette sono capaci («Obama, vattene dal nostro territorio»). I video della decapitazione dei giornalisti americani James Foley e Steven Sotloff sono stati girati in inglese e sottintendono un’attenta regia. Gli altri in circolazione non sono da meno. I jihadisti iracheni e siriani hanno buone conoscenze tecnologiche e strumenti avanzati a disposizione: “fanno” e “filmano” e “pubblicano” con maniacale dedizione. Finendo con il configurare una gestione “orizzontale” dell’orrore che, guarda caso, si adatta perfettamente alla dimensione open source dei social network. E che riflette con fedeltà la mancanza di organizzazione gerarchica dello Stato islamico.
Il sedicente esercito del Califfato è in realtà una formazione paramilitare ben equipaggiata, ben retribuita, feroce, temibile, ma con una catena di comando poco strutturata e una miope strategia. I miliziani traggono coraggio dalla consapevolezza che difficilmente gli Occidentali metteranno truppe a terra. Procedono a vista, rispondendo a una costellazione mutevole e rissosa di comandanti in campo che faticano a consolidare le posizioni. E si limitano a riconoscere senza troppa deferenza un leader, il “califfo” Abu Bakr al-Baghdadi, che è poco più di un riferimento simbolico, paradossalmente più utile a un Occidente in cerca di nomi da incasellare che ai suoi stessi seguaci. Questo li rende diversi dagli “esecutori” nazisti, che praticavano ogni genere di atrocità dentro una struttura gerarchica rigida e definita. Costruendo, presumibilmente, il necessario “schermo” psicologico sul senso distorto di assolvere a un dovere. I miliziani dell’Is aderiscono spontaneamente alla barbarie, e l’unico “schermo” a cui lavorano è quello dell’iPhone, con cui filmano il peggio.
La cosa che più colpisce di questa crisi è proprio la naturalezza con cui i jihadisti attuano e documentano le atrocità. Ognuno di loro è protagonista di un terrificante gioco di rinforzo: più uccidono, più diffondono, più ottengono riconoscimenti. Stimolando emulazione in tutto il mondo e richiamando affiliazioni anche dai Paesi occidentali. Sarebbero tre-quattromila i giovani europei partiti per combattere in Siria e Iraq nelle file dell’Is. Quattrocento solo i britannici. Sono numeri significativi e preoccupanti. Se inseriti nel quadro demografico dei flussi migratori (si stimano approssimativamente più di 50 milioni di musulmani in Europa; un milione in Spagna, un milione e mezzo in Italia, tre milioni in Gran Bretagna, tre milioni e mezzo in Francia, quattro in Germania) suggeriscono però l’utilizzo di una lente psicologica più che sociologica per mettere a fuoco le motivazioni (di tanti singoli, non di una comunità). Lo stereotipo dell’arruolamento in moschea come alternativa alle difficoltà di una vita segnata da povertà ed emarginazione non sembra più funzionare. Il profilo del “jihadista fai da te” delinea di un giovane (di seconda o terza generazione) con una famiglia inserita alle spalle, senza particolari difficoltà economiche e in grado di offrire un buon grado di scolarità. Quel che manca a questi ragazzi, forse, è il riconoscimento di un’identità forte in un continente dove l’integrazione è ancora un laboratorio. Su questi presupposti si innestano fragilità interiori che trovano facile approdo su Internet. E la “forza” del messaggio jihadista concretizza le nemesi di ogni debolezza. Anche a costo della vita.
Il “successo” dell’Is finisce così con il diventare – dentro e fuori il Califfato – il più potente anestetico di una generazione altrimenti fallita, prodotto di regimi ventennali-trentennali (Gheddafi, Assad, Saddam Hussein, Mubarak, Ben Ali) collassati dentro Primavere irrisolte. L’aria malsana della dittatura ha incubato uno dei virus peggiori della storia. Il vuoto di potere l’ha sviluppato. Il Web lo sta propagando. Per la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale, la comunità internazionale si ritrova schierata su uno stesso identico fronte. Creare un "cordone sanitario" con i raid è opportuno, urgente e necessario. Ma la soluzione è contenuta soltanto in un vaccino efficace, che sappia stimolare, con ragionevolezza, gli anticorpi di valori e democrazia.
Barbara Uglietti
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