Il difficile ruolo dell'insegnante. Educazione: illusione o realtà?

Compito della scuola è di formare la persona nell'unità dei diversi piani: culturale, umano, psicologico, valoriale. Per questo l'insegnante è, per sua natura, un educatore. Uno dei problemi dell'insegnante è spesso quello di non avere spazi per conoscere individualmente i suoi alunni. E' un rapporto tra un individuo e un gruppo. Ma sarebbe bello...

Il difficile ruolo dell'insegnante. Educazione: illusione o realtà?

 

del 14 dicembre 2012

 

 

          Dopo alcuni anni di distacco dalla scuola (per un contratto all'università), quest'anno sono tornato a insegnare al liceo. Avevo voglia di rientrare in classe, anche perché la scuola italiana sta attraversando cambiamenti importanti, sebbene spesso controversi. Nell'assegnazione sono stato fortunato: un liceo scientifico statale di buona tradizione in una città della provincia Piemontese. L'ambiente è cordiale e sereno: gli alunni svegli e motivati, i docenti seri e preparati, il preside (anzi, ora si chiama dirigente scolastico) efficiente ma non inutilmente efficientista.

          Insegno lettere, e quando la mattina leggo Omero a una classe di quindicenni attenti e curiosi, mi sembra straordinario che questo miracolo si possa ripetere ancora. Dimentico la fatica della levataccia antelucana, alla quale non ero più abituato, e sento che non vorrei essere da nessun'altra parte. Se all'università si studia la letteratura in modo "scientifico", e quindi distaccato, a scuola le pagine degli autori si interrogano su un piano più umano, che dovrebbe coinvolgere i ragazzi, portandoli, a partire dall'ascolto di altre voci, a interrogarsi su sé stessi. In questo, la funzione "maieutica" dei professori è importantissima.

Burocrati o educatori?

          Ma quale ruolo attribuiscono gli studenti ai loro insegnanti? Ho proposto di recente, come compito in classe, l'analisi di un brano di uno scrittore russo, Viktor Erofeev, incentrato sulle figure dei genitori. Le domande poste in calce al brano chiedevano agli studenti di parlare del loro rapporto con i genitori. A parte la lamentela di qualche alunno che ha obiettato su una questione di privacy (assurdo! Se così fosse, allora, non si potrebbe più proporre alcun "tema personale"; ma questo la dice lunga su come una certa mania del "politicamente corretto" abbia contagiato anche la scuola e gli adolescenti...), i ragazzi hanno risposto per lo più riconoscendo ai genitori un ruolo importante, fondamentale, decisivo, per orientare le loro decisioni, compiere delle scelte, confidarsi, sapendo che su di loro si può contare.

          Con qualche differenza, certo: chi si apre più facilmente con la madre, chi dialoga meglio con il padre. Qualche costante ricorrente: padri troppo assenti e madri troppo apprensive. Insomma, per me uno spaccato interessante, anche per capire chi sono - al di là del loro stare cinque ore sui banchi ogni mattina - questi adolescenti. Perché uno dei problemi dell'insegnante è spesso quello di non avere spazi per conoscere individualmente i suoi alunni. E’ un rapporto tra un individuo e un gruppo. Ma sarebbe bello, ogni tanto, come in questo caso (alla faccia della privacy!), conoscerli un po' meglio.

          L'ultima domanda della verifica chiedeva agli studenti di confrontare, evidenziando analogie e differenze, il ruolo educativo del genitore con quello dell'insegnante. Ebbene, nel leggere le risposte è stata molto forte la mia delusione. Sono rimasto sorpreso - e diciamo pure sconcertato - della leggerezza con cui il lavoro del docente veniva per lo più liquidato. A parte rare eccezioni, è emerso che mentre ai genitori i ragazzi attribuiscono una funzione educativa, agli insegnanti ne assegnato un ruolo puramente strumentale. C'è l'idea che l’insegnante non sia più di tanto coinvolto emotivamente nel processo di apprendimento «perché tanto a fine mese lui il suo stipendio lo prende ugualmente, sia che impariamo sia che non impariamo» {così ha scritto una studentessa}. «La scuola», scrive uno studente, «ci deve trasmettere delle conoscenze che ci saranno utili nel mondo del lavoro, mentre la famiglia ci forma per la vita: le due cose non si possono paragonare». Se compito della famiglia è quello di trasmettere dei "valori", la scuola trasmette solo "nozioni" e "conoscenze".

          Dicevo di essere rimasto piuttosto deluso perché se questa è l'idea che gli studenti hanno della scuola, ciò significa che noi insegnanti non siamo in grado di trasmettere tutta la passione professionale e il coinvolgimento umano che caratterizza il nostro lavoro. Ho scelto di insegnare - non esito a pronunciare questa parola impegnativa - "per vocazione". Nonostante lo stipendio piuttosto modesto (sempre più modesto rispetto al costo della vita...), ho deciso di fare questo lavoro perché lo amo. Non credo di essere un burocrate o un impiegato delle Poste: con tutto il rispetto per i burocrati e per gli impiegati delle Poste. Ma l'insegnamento è un lavoro diverso, in cui entra in posizione centrale l'affectus.

          L'altra questione per me negativa è che all'insegnamento non venga riconosciuto un ruolo educativo in senso lato. Non credo infatti che compito della scuola, soprattutto di un liceo, sia quello di formare i ragazzi in vista del futuro lavoro. Compito della scuola è invece quello di formare la persona nell'unità dei diversi piani: culturale, umano, psicologico, valoriale. Per questo l'insegnante è, per sua natura, un educatore. Se questo aspetto non viene percepito o riconosciuto, noi insegnanti dobbiamo farci quanto meno un piccolo esame di coscienza.

I "valori" della scuola

          Siamo d'accordo: i valori che deve trasmettere la scuola non sono gli stessi che trasmette la famiglia. Come insegnante posso essere credente, ma è ovvio che non sta a me preoccuparmi della formazione religiosa della mia classe. Caso mai farò passare indirettamente, con i miei comportamenti quotidiani, i discorsi, le mie parole, i miei gesti, la mia sensibilità, i valori universali della mia fede. Tuttavia anche la scuola ha il compito di trasmettere alcuni precisi valori. Ad esempio, quello del rispetto delle regole, individuali e collettive (queste ultime in funzione della convivenza sociale nel gruppo-classe). Si tratta di un'educazione "civica", o se vogliamo anche "civile", che nell'esperienza della vita comunitaria (a buon diritto si parla di scuola, infatti, come di "comunità educativa") gli studenti hanno occasione di sperimentare.

          Altri valori, poi, vengono trasmessi anche in base alle diverse materie, quando esse non siano un semplice campo per esercitazioni nozionistiche. Alcune discipline si prestano meglio di altre: storia, filosofia, letteratura. Lo studio della storia - per dirne una - potenzia l'identità collettiva, insegna a tutti a sentirsi parte di una nazione e di un insieme di nazioni, superando quell'individualismo che oggi è uno dei mali più grandi presso gli adolescenti. Una materia come la filosofia dovrebbe insegnare, prima di tutto, a pensare correttamente: mica è una cosa facile, a pensare bene s'impara (perciò dovrebbe essere un po' rispolverata la vecchia logica, magari a scapito della storia della filosofia).

          Insegnando italiano e latino, cerco di far capire ai ragazzi quanto le parole siano importanti. E quanto anche la grammatica sia importante. Quando lo scorso anno a Brembate (Bg) sparì nel nulla una ragazzina, Yara, inizialmente fu accusato di omicidio un giovane muratore marocchino. Ciò avvenne sulla base di un'errata traduzione del contenuto di un'intercettazione telefonica. Commentando quell'episodio scriveva Claudio Magris sul  Corriere della Sera del dell'8.12.2010: «La lingua regge il mondo, nel suo potere di comunicare, informare, plasmare e talora plagiare gli  animi. Determina la giustizia o l'ingiustizia, può far trionfare la verità o la menzogna, chiarire o avvelenare la vita. Se non si mette correttamente il soggetto al nominativo e il complemento oggetto all'accusativo ma si inverte la sintassi, non si capisce più chi ruba e chi è derubato, si mette in galera la vittima e si manda libero il colpevole. Una punteggiatura sbagliata o alterata può falsare o sconvolgere l'ordine delle cose». Il magistrato e scrittore Gianrico Carofiglio ha invece sottolineato in un suo libro recente (La manomissione delle parole, Rizzoli 2010, Milano) «il rapporto fra ricchezza delle parole e ricchezza di possibilità (e dunque di democrazia)».

          Ecco il valore educativo - assolutamente tale, sfido chiunque ad affermare il contrario - della materia che insegno. Proverò a spiegarlo ai miei studenti. O, meglio, a farglielo capire. Giorno per giorno, magari con fatica, ma anche con fiducia.

 

 

Roberto Carnero

 

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