Il Leopardi di D'Avenia è fragile, quindi fortissimo

Questo mondo ha ancora bisogno di Leopardi, della sua gioia...

Il Leopardi di D’Avenia è fragile, quindi fortissimo

 

Dobbiamo davvero stupirci dei ciclici e improvvisi ritorni di Leopardi nelle nostre vite? Dobbiamo davvero meravigliarci che il nostro mondo piallato e lucidato da manuali di ogni tipo (dal potere del riordino alla «saggezza Zen in dieci mosse») abbia bisogno di questo personaggio prigioniero di un corpo deforme e di passioni irrisolte? Eppure, lui torna periodicamente come un amante fedele alla distanza, in forma di film di successo, di biografie ormai long seller o esperimenti linguistici quali Io venìa pien d’angoscia a rimirartidi Michele Mari ora riedito da Einaudi. Qual è il nodo che unisce la sua poetica della precarietà alle nostre vite de-odorate, de-sideranti (alla lettera: lontani dalle stelle), ansiose di ridurre la complessità in simboli, schermate di pixel, definizioni wikipediane?

 

Alessandro D’Avenia se lo è chiesto e la risposta l’ha cercata là dove va sempre a cercare la soluzione ai grandi interrogativi: negli occhi e nelle parole dei ragazzi. L’arte di essere fragili (Mondadori), libro che si estende a racconto teatrale con tappe in diverse città italiane, nasce dalle domande e dalle aspirazioni degli studenti del Collegio San Carlo di Milano, con i quali lo scrittore divide le mattinate alla lavagna. Sono le stesse domande e le stesse aspirazioni che il giovane figlio di Monaldo e Adelaide incasellava nella solitudine dell’immensa libreria di Recanati, disimparando lentamente l’uso della pazienza in favore di un ardore segreto che cresceva parallelamente a un corpo sbagliato, non funzionale.

 

Ecco il Leopardi che si snoda in questo libro scritto a mo’ di lettere a Giacomo e di riflessioni intercalate da poesia: è un uomo che per tutta la vita ha cercato di trascendere la funzionalità. La funzionalità (quanto sanno essere brutte le parole!) dei corpi, dei vocaboli, dei sentimenti, persino delle azioni politiche, in virtù di una fragilità che avvertiva come indispensabile. Urgente. Nutrimento per la sua poesia.

D’Avenia muove in parallelo il libro e il racconto teatrale (il debutto è il 15 novembre al Teatro Carcano di Milano), parti dello stesso progetto. Sul palcoscenico, insieme all’autore e con la regia di Gabriele Vacis, scorrono immagini di Giacomo e della luna, delle stelle e del pastore errante dell’Asia, delle parole che tornano con insistenza nell’opera leopardiana. Non è uno spettacolo ma una «lezione a porte aperte» come la definisce lo scrittore di origini palermitane, nella quale trovano spazio suggestioni nate spontaneamente dalle città ospiti, come un quadro, una strada, un personaggio. Perché lui, Giacomo, era uso leggere a fondo anche nelle cose apparentemente più ordinarie e a trovarvi significati nascosti, in un continuo esercizio di «affinamento del sentire» che, sì, lo distruggeva, ma lo alimentava.

 

Convinto che l’intelletto potesse diventare una prigione ben più angusta del corpo deforme. La vita, quella vera, dov’era per lui?, si chiede D’Avenia nel libro e sul palco. Stava forse nei libri che il padre aveva accumulato in dieci anni o stava oltre quella finestra, oltre quell’amato colle, peraltro oggi deturpato dal terremoto del Centro Italia? Dove stava la vera arte? Stava in quelle sei o sette lingue straniere che imparò da solo o in quel fallito tentativo di fuga che lo restituì inglorioso ma indomito alla famiglia? Qual è il vero messaggio che Leopardi oggi consegna, agli studenti, certo, ma anche a tutti noi?

 

Dimentichiamo le etichette scolastiche come il «pessimismo» e guardiamolo in faccia, questo ragazzo che sapeva anche scherzare con la propria gobba (giocava alla lotteria toccandosi la gibbosità portafortuna con ironia) e che sapeva riconoscere un amore impossibile (meglio: acerbo). Ci vuole coraggio per ridere delle proprie disgrazie però non è ancora questo il Leopardi che D’Avenia ci fa conoscere passo dopo passo. Il vero atto eroico di Giacomo fu nello scegliere la poesia quando il suo maestro, Pietro Giordani, gli consigliava la prosa. Fu nello scegliere le domande a dispetto delle certezze che la famiglia si aspettava da lui. Seguì la strada dolorosa del sublime trascurando l’ordinario, volle il rapimento e non il banale. D’Avenia conduce poco alla volta il lettore, lo spettatore e gli studenti su questo terreno accidentato che è l’ardore, contrappeso spesso scomodo in un’epoca che ci vuole allenati, perfetti, profumati.

Ecco perché questo mondo de-odorato e de-siderante ha ancora bisogno di Leopardi. Della sua gioia racchiusa nello Zibaldone: «La somma felicità possibile dell’uomo in questo mondo, è quando egli vive quietamente nel suo stato con una speranza riposata e certa di un avvenire molto migliore». Altro che pessimismo.

 

 

Roberta Scorranese

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