Il “medico del vino” nella vigna del Signore Don Gianluca Brisotto racconta la s...

Quando nelle cattedrali di tutto il mondo viene celebrata un'ordinazione presbiterale, si è soliti affermare che il Signore ha chiamato nuovi operai per la sua vigna. Nel caso di don Gianluca Brisotto, vicario parrocchiale della “salesiana” Santa Croce, Gesù ha scelto un giovane che di vigne e vigneti, e anche di vino, se ne intende proprio, e per quelle vie, che sono sempre infinite, l'ha accompagnato dai filari fino alla sua Chiesa.

Il “medico del vino” nella vigna del Signore Don Gianluca Brisotto racconta la sua vocazione sacerdotale

da Teologo Borèl

del 19 novembre 2008

L’amore per la terra

Nato nel 1971 a Monastier, piccolo paese in provincia di Treviso, Gianluca respira fin dalla culla il profumo inebriante della terra. Glielo porta a casa ogni sera il padre contadino, il cui amore per la natura, e le tante ore passate nei campi con lui, lo spinge ad iscriversi, dopo le medie, alla scuola enologica di Conegliano Veneto, Istituto di grande tradizione (risale addirittura al 1870), con l’obiettivo di un diploma di perito agrario. Un traguardo raggiunto non senza sacrifici: la distanza da casa e le tante ore di scuola (in quarta e in quinta ben quaranta) lo costringono a trovare una sistemazione nel collegio, retto da sacerdoti diocesani, di Vittorio Veneto. «Tuttavia non abbandonai mai la mia grande passione – racconta –: lo scoutismo. Una “vizio di famiglia”: fratello scout, zia scout, lo stesso per uno zio… Dagli 8 ai 26 anni ho sempre fatto parte dell’associazione, una filosofia di vita che mi ha dato moltissimo».

 

Segretario del cappellano

Un giorno arriva a casa la fatidica “cartolina rosa”. Destinazione Trieste, corpo di Fanteria meccanizzata. «Non so se sia stato un segno premonitore di quello che sarebbe successo alcuni anni dopo nella mia vita – continua don Gianluca – sta di fatto che diventai segretario del cappellano militare. E in un modo a dir poco curioso. Alla richiesta del sacerdote di presentarsi nel suo ufficio chiunque avesse un’esperienza di parrocchia, io non risposi perché ero impegnato altrove. Il giorno dopo però attaccai un post it alla porta del suo studio, motivando la mia assenza. Scelse me tra altre trenta persone». Piccoli incarichi, pulitina al pavimento della chiesa – con il sottofondo del trombettiere che si esercitava nella cappella perché fuori tirava la Bora – e opera consolatoria delle reclute a cui mancava la mamma e la morosa.

 

Un corso di erboristeria

Concluso il militare, è Urbino ad attendere Gianluca, per un corso universitario di erboristeria: 2.800 persone per soli 300 posti, praticamente una lotteria. «Lo stesso giorno della licenza arrivai di sera a Urbino, in cerca di un albergo. Ma non avevo calcolato che quasi 3mila persone avrebbero potuto riempire un centro così piccolo anche in estate». Dopo aver vagato da hotel in hotel, sentendosi dire come a Maria e Giuseppe “non c’è posto”, a Gianluca non resta che un tetto fatto di stelle e un prato come materasso. «Lo dico sempre ai miei ragazzi dell’oratorio: mai disperare, adattarsi alle situazioni anche più scomode, come insegna la filosofia scout», sottolinea. Il test d’ingresso va a buon fine: cinquantanovesimo e di fronte al futuro don Brisotto si presentano tre mesi di un corso serratissimo, otto ore al giorno e alla sera ripetizione ai tanti farmacisti che con la botanica non sapevano proprio da dove cominciare.

 

“Il medico del vino”

«Con il diploma in tasca potevo aprire un’erboristeria – prosegue – ma non avevo la disponibilità economica. Così lavorai per tre mesi come magazziniere in un maglificio, poi mi assunsero in una ditta che vendeva prodotti per l’agricoltura, come responsabile del settore hobbistica. Un reparto frequentato da proprietari di orti, piccoli allevatori, padroni di cani e di gatti». È il vino però ad avere la meglio. «Da settembre a novembre si rivolgevano all’azienda un migliaio di clienti, piccoli produttori vinicoli, da 10-15 ettolitri ciascuno per consumo familiare. Chiedevano consigli sul loro vino. Presto diventai il loro referente: raccoglievo i campioni, li mandavo in parte ad analizzare, altri li assaggiavo io, aggiustavo alcune cose per rimediare i difetti del loro prodotto. Ero “il medico del vino” che curava anche la vite. Mi piaceva moltissimo, perché è un lavoro quasi investigativo e mi permetteva di stare in mezzo alla gente, di allacciare relazioni. Sono sempre stato un ciacolon».

Le sere e i fine settimana restano però dedicati alla parrocchia e naturalmente agli scout. «Feci parte del Consiglio pastorale – dice –. Qualcuno per scherzo, ma non troppo, disse che ero già un capelan, cioè un curato.  Io non ci pensavo assolutamente: la mia fede è sempre stata forte, ma io volevo trovare una brava ragazza e farmi una famiglia».

 

L’incontro con i salesiani

I salesiani in tutto questo cosa c’entrano? «Fino a questo punto della storia poco – risponde –. Li conobbi quando avevo 17 anni, in occasione dell’anno di volontariato extra associativo obbligatorio quando si entra per la prima volta in un clan. Scelsi con un mio amico la comunità salesiana di recupero per tossicodipendenti di Conegliano Veneto diretta da don Toni Prai, perché era vicino al collegio e perché ero interessato ai problemi della tossicodipendenza. Quelli furono anni caldi in cui l’impegno sociale si sentiva fortemente». Un servizio durato 12 mesi, ogni giovedì pomeriggio, con il compito di aiutare i ragazzi nella rilegatoria. I salesiani Gianluca li rincontrerà solo quattro anni dopo.

 

“Folgorato” dall’Eremo

Torniamo quindi al perito agrario, con 120 clienti al giorno a cui dare risposta. Un buon stipendio, soddisfazioni, responsabilità di alcune filiali, riconoscimenti dai datori di lavoro che però pretendono sempre di più. “Devi portarti il lavoro a casa”, gli dicono. Ma per Gianluca questo è inaccettabile, perché non gli permetterebbe di continuare a «darsi da fare per gli altri». La vita non poteva essere solo lavoro. La crisi diventa completa quando Gianluca si lascia con la sua ragazza dopo tre anni. «Soffrii molto, anche perché la cosa mi costrinse a mettere in discussione tutta la mia vita, i miei progetti, le mie aspettative». Ma le burrasche non vengono tutte per nuocere. «Nell’agosto del 1996 partii con mio fratello e il suo gruppo scout per Assisi, dove tra le altre cose facemmo visita all’Eremo delle Carceri. Un luogo bellissimo. Rimasi folgorato, tanto che chiesi al responsabile del convento se era possibile trascorrere tra quelle mura una decina di giorni. Così feci. Ritornai a casa, chiesi le ferie e mi recai un’altra volta ad Assisi. All’Eremo vissi come i frati: stessi orari, stesse abitudini... Pensai veramente che la mia vita fosse seguire San Francesco. Lo confidai anche a un religioso, il quale mi consigliò di andare a casa, riflettere, far sedimentare la cosa e casomai di ritornare ad Assisi. A gennaio fui di nuovo in Umbria». Cinque giorni, documentati su un diario che don Gianluca sfoglia, con la delicatezza con cui si accarezza il viso di un bambino. Il francescanesimo lo prende dentro, ama quel modo di vivere e servire Dio, l’isolamento dal mondo è una boccata di ossigeno in una vita con l’orologio in mano, ma per un ragazzo che ama stare in mezzo alla gente, quella strada non fa per lui. “Vivere in una comunità di fede e servire i giovani”, scrive sull’ultima pagina: la chiamata si svela nella forza delle parole.

 

La mia strada è don Bosco

Il passo successivo è una telefonata a don Prai, il “prete dei tossici”, che lo mette subito in contatto con don Enrico Peretti, delegato dell’ispettore salesiano per la pastorale giovanile vocazionale. «”Voglio farmi salesiano” è stato l’esordio della telefonata. “Vuoi dire obiettore?”, mi risponde don Enrico. “No prete”. Poveretto gli era mai capitata una richiesta simile, non ci credeva!», ride don Gianluca.

Ma come l’ha presa la sua famiglia? «Benissimo – risponde –. Mi padre mi disse: “Pensavo che ti facessi frate”. Lui aveva visto più lontano di me. Il solo fatto che io consegnassi quasi tutto il mio stipendio in casa, lo aveva convinto che non avrei mai messo su famiglia e che il mio impegno in parrocchia e negli scout era indice di un’altra vocazione». A storcere il naso sono invece i datori di lavoro, che si abbandonano a mille “perché” come se Gianluca invece di farsi prete avesse annunciato di soffrire di una brutta malattia. «Alla comunità dei capi scout, invece, lo comunicai a modo mio: con una mega caccia al tesoro in paese. Alla fine però furono tutti contenti».

Gianluca Brisotto diventa “don” il 24 giugno del 2006 a San Donà del Piave, a 35 anni. E dopo la conclusione degli studi (licenza in Teologia spirituale a Roma), è inviato subito a Verona, nella parrocchia di Santa Croce dove si occupa del settore giovanile.

 

Mai il vino è una passione

E il vino che fine a fatto? «Croce e delizia. Nel senso che “per obbedienza” ai miei superiori mi è accaduto più volte di tenere delle degustazioni per confratelli, soprattutto a Roma. Una volta mi è capitato perfino per un gruppo di professori israeliani! Ora tutto si limita ad aprire una bottiglia, tanto per fare compagnia». Ma sono passioni difficili da abbandonare. Tanto che don Gianluca ha un sogno nel cassetto: «Vorrei scrivere un manuale dove raccogliere la storia e le caratteristiche dei vitigni autoctoni del Triveneto. Con un capitolo riservato ai vini che da essi vengono prodotti. Ma il tempo è poco, l’oratorio ti assorbe dalla mattina alla sera». Rimpianti? «Mai avuti. Ero partito volendo rassettare la mia vita dal passato. Ma ho ascoltato i miei maestri. D’altronde la forte esperienza del collegio, dello scoutismo e del lavoro rimane dentro di me e influenza positivamente la mia nuova vita».

Scusi la domanda irriverente: non le è mai capitato mentre sta celebrando la Messa di pensare “questo vino sa da tappo”? «Finora mai – conclude –. Qui a Santa Croce usiamo un Recioto bianco, molto buono. Poco, ma ottimo».

 

 

Fonte: Verona Fedele

 

Elena Zuppini

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