Da Diario di un dolore «Siamo arrivati allo stesso punto, lui con la sua vanga e io, che ora non sono molto bravo a scavare, col mio strumento. Ma è chiaro che il “sono tutte prove” deve essere capito nel modo giusto. Le prove non sono esperimenti che Dio fa sulla mia fede o sul mio amore per saggiarne la qualità...».
del 01 gennaio 2002
E poi uno dei due muore. E noi lo vediamo come un amore interrotto; come una danza arrestata a metà giravolta, o un fiore con la corolla miseramente strappata: qualcosa di troncato, e quindi privo della sua giusta forma. Ma è così? Se, come non posso fare a meno di sospettare, anche i morti sentono i tormenti della separazione (e questa potrebbe essere una delle loro pene purgatoriali), allora per entrambi gli amanti, senza eccezioni, la perdita dell’altro è una parte universale e intrigante dell’esperienza d’amore. Essa segue il matrimonio con la stessa normalità con cui il matrimonio segue il corteggiamento o l’autunno l’estate. Non è un troncamento del processo, ma una delle sue fasi; non è l’interruzione della danza, ma la figura successiva. Noi siamo “tratti fuori di noi” dall’amata fintanto che essa è qui. Poi viene la figura tragica della danza, nella quale dobbiamo imparare ad essere ugualmente tratti fuori di noi, anche se la presenza corporea è stata tolta, dobbiamo imparare ad amare Lei, e a non ripiegare sull’amore del nostro passato, o del nostro ricordo, o del nostro dolore, o del nostro sollievo dal dolore, o sull’amore del nostro stesso amore. […]
A che punto sono? Allo stesso punto, credo, di un vedovo d’altro genere che alla nostra domanda si fermerebbe un istante e, appoggiandosi alla vanga, risponderebbe: “Che volete? Non Bisogna lamentarsi. Certo che è dura senza di lei. Ma, come si dice? Sono tutte prove”. Siamo arrivati allo stesso punto, lui con la sua vanga e io, che ora non sono molto bravo a scavare, col mio strumento. Ma è chiaro che il “sono tutte prove” deve essere capito nel modo giusto. Le prove non sono esperimenti che Dio fa sulla mia fede o sul mio amore per saggiarne la qualità. Lui, questa, già la conosce; ero io che non la conoscevo. È piuttosto una chiamata in giudizio, dove Dio fa di noi gli imputati e al tempo stesso i testimoni e i giudici. Lui l’ha sempre saputo che il mio tempio era un castello di carte. L’unico modo per far sì che lo capissi anch’io era di buttarlo giù. […]
E io devo sicuramente ammettere che, se il mio era un castello di carte, lo si doveva abbattere al più presto. E solo la sofferenza poteva farlo. Ma in tal caso il Sadico Cosmico ed Eterno Vivisezionatore diventa un’ipotesi non necessaria.
(da Diario di un dolore di C. S. Lewis)
Clive Staples Lewis nasce nel 1898 a Belfast, Irlanda. Nel 1908 i genitori e il fratello maggiore muoiono, conseguentemente è costretto a vivere e studiare in numerosi collegi.
Nel 1929 abbandona l'ateismo degli anni giovanili e ritrova la Fede Cristiana. Con lo stesso ardore che aveva dedicato alle ricerche ermetiche, si mette allora a propagandare la Fede espressa nella Bibbia: opere come The Pilgrim's Regress (1933), The Problem of Pain (1940), A Preface to Paradise Lost (1942) e Christian Behaviour (1943) ne sono l'evidente risultato. Scrive anche penetranti saggi critici come The Allegory of Love (1936) e Studies in Medieval and Renaissance Literature (pubblicato postumo nel 1966), e l'autobiografia Surprised by Joy (1955).
Muore di cancro a Cambridge nel 1963.
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