IL RETTOR MAGGIORE don Pascual Chavez V. INCONTRA LE POSTULANTI a Torino.Il Rettor Maggiore, accompagnato da don Adriano Bregolin e suor Celestina Corna, arriva verso le dieci del mattino e rimane per un'ora, prima di recarsi al Santuario della Consolata per la Messa con i Capitolari.
del 28 febbraio 2008
25 febbraio 2008
 
 
 
 
Il Rettor Maggiore, accompagnato da don Adriano Bregolin e suor Celestina Corna, arriva verso le dieci del mattino e rimane per un’ora, prima di recarsi al Santuario della Consolata per la Messa con i Capitolari.
 
RETTOR MAGGIORE: Prima di tutto, presentatevi!Io non posso cominciare a ricevere domande né a dare risposte se non so chi ho davanti!
 
La comunità si presenta: dodici FMA (Suor Mary, suor Teresa, suor Pierina, suor Silvia, suor Agnese, suor Gemma, suor Rita, suor Paola, suor Rita, suor Irene, suor Monica, suor Ivana) e tredici Postulanti (Elisa, Aurora, Luisa, Nicoletta, Susanna, Diana, Jolanta, Ermelinda, Anna, Patrizia, Malvina, Jolanda, Francesca).
 
SUOR MARY: Bene, noi avremmo delle domande…
 
POSTULANTE: Nella biografia di Madre Morano, si legge che quando lei incontrò don Bosco, gli chiese: “Padre, mi dica quello che devo fare per farmi santa”.
Lui le rispose che avrebbe dovuto corrispondere a tutte le grazie che il Signore le avrebbe donato. Infatti adesso è beata!
Quando ho letto questa pagina di biografia, mi sono detta che anche io avrei fatto la stessa domanda al Rettor Maggiore se ne avessi avuto la possibilità.
E oggi…io non sono Madre Morano…(E io non sono don Bosco!, dice don Pascual) siccome noi ci incamminiamo verso una bella scelta di vita, le vorrei chiedere appunto questo: ci indichi come dobbiamo camminare per farci sante, e intendo con “sante” la piena realizzazione del progetto di Dio su di noi, in tempi molto diversi da quelli in cui vissero don Bosco e Madre Morano.
 
RETTOR MAGGIORE: “Io dico che l’elemento fondante della santità è sempre e unicamente l’amore.
Senza amore non c’è santità anche se a volte c’è un autoperfezionamento narcisistico, come quando san Paolo dice che rispetto alla legge lui era “immacolato”, irreprensibile…ma questo è narcisismo perché non ha capito che la legge ha senso nella misura che è a servizio dell’amore, che esprime l’amore, non per affermare la autoperfezione, la tua autogiustificazione.
Se fosse così, la morte di Cristo sarebbe soltanto per i cattivi e non avremmo bisogno di Cristo né della sua redenzione. Dice Paolo che la sua conversione consiste proprio in questo: lui non era un peccatore come sant’Agostino; Agostino aveva peccato fortemente e lo dice nelle Confessioni.
Paolo non era un persona lontana dalla legge, ma capisce quello che non aveva capito prima, che Dio lo ama e che allora, proprio perché lo ama, libera le migliori energie che sono nel cuore e può andare contro la legge e poi dire, nella lettera ai Romani, che in questo consiste la legge e i profeti: nell’amore.
Allora si può essere un narcisista che cerca l’autoperfezione, ma questa non è santità. Dal punto di vista psicologico si parla molto di autorealizzazione, cercare la propria realizzazione.. E questa è una forma molto egoista di parlare in cui me ne frego degli altri.
C’è un libro in inglese che si intitola I am ok, you are ok : io sto bene, tu stai bene, ma io non ho niente a che vedere con te, né tu con me.
C’è stato un momento in cui questa tendenza ha prevalso persino nella vita religiosa: tanti parlano della autorealizzazione. In quel momento la totale disponibilità per la missione, il totale  distacco da tutto ciò che può allontanarmi da Dio sembra che non importi.
Importa solo se porta alla tua realizzazione. E questo è espressione di un esacerbato individualismo. Io non penso che sulla croce Gesù dica: “Ecco, mi sto realizzando”.
Sarebbe un masochista, cioè una persona che nel dolore trova soddisfazione. Non è il dolore che salva, è l’amore. Per questo dice: “Non c’è amore più grande che dare la propria vita”.
L’autorealizzazione cerca la propria persona, invece la santità cerca il decentramento,  non essere centrati su noi stessi, per centrarci su Dio e sugli altri.
La totale donazione a Dio vuol dire disponibilità per gli altri, per cui la prima cosa da imparare è veramente fare dell’amore la scelta della nostra vita.
La cosa più importante non è amare Dio, è sentire che Dio ci ama. E’ come il Sistema Preventivo: far sentire l’altro amato perché allora possa liberare, sprigionare tutta l’energia che ha nel cuore. Sono cose che se voi andate alla Lettera ai corinzi, al dodicesimo capitolo, o meglio, all’ultimo versetto: “Io vi mostrerò un cammino eccellente”, e Paolo comincia  a parlare di cosa? Dell’amore! Perché Dio è amore e la santità consiste in questo.
Questa santità che è il centro della vita cristiana, della vita consacrata, della Spiritualità ha per noi Salesiani e membri della Famiglia Salesiana un risvolto molto particolare: un amore pastorale educativo.
Pastorale vuol dire che cerca la salvezza dei giovani. Allora si capisce che cosa vuol dire DA MIHI ANIMAS: dobbiamo essere veramente affamati della salvezza dei giovani e non pensare ad altro che a loro, specialmente quelli più bisognosi di sperimentare nella loro vita che Dio è buono, che Dio esiste, che Dio li ama e ha cura di loro e perciò io sono un’espressione della Sua presenza.
E’ un amore pastorale, che cerca la salvezza, non cerca il proprio interesse, non cerca la propria soddisfazione.
E’ un amore educativo: vuol dire che, se la meta è la salvezza, la forma di raggiungerla è accompagnare i ragazzi attraverso i processi evolutivi perché a poco a poco vadano maturando atteggiamenti, valori che li possano sempre più rendere simili al progetto di Dio e a quanto Lui vuole da loro.
In questo mondo, in questo momento, penso che stiamo vivendo la cosa più profetica: testimoniare l’amore in un  momento in cui prevale l’individualismo. Pensate a quanti ragazzi dedicano ore ed ore alla cura del corpo, perché è bello essere magri, è bello avere muscoli.
Prima si andava a fare body-building. Adesso non si dice più così perché è brutto pensare che una persona si dedichi solo alla cura del corpo. Hanno cominciato a chiamarlo fitness, che vuol dire essere in forma. Adesso si chiama wellness, ovvero stare bene. Ma tra le tre cose non c’è tanta differenza: è un gioco di parole ma non è cambiata la sostanza.
In questo modo la mia realizzazione prevale sugli altri. Dobbiamo cominciare a decentrarci, a non avere il centro su noi stessi, ma su Dio e sugli altri. Questo può rendere più umano il mondo in cui viviamo.
Per questo è così bello essere consacrati: è la completa donazione a Dio e agli altri. Io per esempio non mi vedrei sposato: non perché non mi piacciano le ragazze o non mi siano piaciute, ma perché sento che non sarei felice e che forse non avrei fatto felice una donna. Io mi sento davvero portato a servire, a dare agli altri. E’ quasi per me una forma esistenziale d’essere. Non poter non essere quello che sono. Questo è tutto.
 
POSTULANTE: Vorrei fare un’altra domanda: come si è sentito quando è stato eletto Rettor Maggiore e come si sente quando si trova davanti al corpo di don Bosco?
 
RETTOR MAGGIORE: (Ride). Quando sono stato eletto Rettor Maggiore, devo dire che il 24 maggio di quell’anno qui a Torino ho fatto una confessione e ho detto che io non avrei mai pensato di diventare Rettor Maggiore.
Pensavo e sentivo che forse sarei stato eletto come Consigliere per la Formazione perché avevo lavorato sempre in quel campo e sembrava che fossi sensibile per questo settore. Qualcuno si azzardava a dire che forse sarei stato eletto Vicario.
Io mi sono fatto salesiano per stare con i ragazzi e non ho mai cercato niente altro. Io mi ricordo quando nel Capitolo Generale 23,un membro del Consiglio che scadeva e non poteva essere più rieletto, mi disse: “Non so che cosa avverrà di me adesso”. Io gli dissi: “Tornare con i ragazzi,. Per questo ci siamo fatti salesiani”.
Questi compiti sono un servizio. L’ho fatto adesso. Lo farà un altro dopo di me.
Io non cercavo assolutamente nulla. Però due anni prima avevo cominciato a soffrire una sorta di conversione, ho cominciato a sentire che ero molto mediocre nella mia vita spirituale. Io ero Consigliere, Regionale…ma comunque ho provato questa insoddisfazione spirituale
E da quel momento… non so, adesso dico che il Signore forse mi stava preparando e stava operando questa conversione nella mia vita, a prendere molto più sul serio la mia vita spirituale, riprendere la confessione ogni quindici giorni, trovarmi un confessore fisso, avere un piano di vita spirituale, dedicare molto più tempo alla preghiera, specialmente all’esame di coscienza, questa specie di verifica giornaliera per vedere se prendevo davvero sul serio il progetto di Dio. Allora anche io sono arrivato al Capitolo tranquillo. Quando al momento del discernimento hanno chiesto un possibile nome per il nuovo Rettor Maggiore hanno consegnato alla fine della giornata una lista e il mio nome era tra altri.
E io sono andato a dormire con la coscienza tranquilla!!!(ride) Ho detto :”Non sono io. Gli altri che non dormano, io sto tranquillo!”.
Il giorno seguente invece ci dicono: “La lista del giorno prima era solo la lista in ordine alfabetico, di quali erano i nomi senza l’indicazione di quante preferenze aveva ricevuto ciascuno. Adesso scegliete quello che, davanti a Dio, ritenete che può essere  il vostro Rettor Maggiore.”
Prima di andare a pranzo ci hanno convocato e quando ho visto il mio nome come numero uno, allora ho cominciato ad avere paura e volevo sparire.
Non volevo andare a pranzo, ma poi per non fare come si dice in spagnolo no far el precioso ci sono andato, ma poi mi sono subito ritirato in camera a pregare.
Avevo appena finito di leggere un libro che si intitolava Occasione o tentazione . E’ un libro di un Gesuita che mi aveva aiutato molto nella mia vita spirituale.
Allora mi sono messo davanti a Dio e gli ho chiesto:
“Questa è un’occasione per essere più tuo, più al servizio tuo o è una tentazione, un’ansia di voler essere il successore di don Bosco. E’ un’occasione o una tentazione?”.
Perché tante cose che sembrano venire da Dio, non vengono da Dio. E come facciamo a capire che le cose vengono da Dio? Se ci portano più a Dio, se ci fanno crescere. Altrimenti no.
Allora ho pensato: “No, questa cosa non la sto cercando io. Non c’è dubbio”.
Infatti poi siamo andati all’elezione e al primo giro sono stato eletto e ho accettato. Avevo detto SI a Dio alla mia prima professione, non potevo ora dire di NO.
Allora, che cosa ho sentito?
Devo dire che più passa il tempo sento che è una dignità, un onore molto grande essere il successore di don Bosco.
Però dall’altra parte mi rendo conto della distanza abissale che c’è tra don Bosco e me. E prego sempre e vengo sovente alla sua tomba e sempre appoggio la testa su quel vetro. Ricordo quando ho tenuto il suo teschio tra le mani e veramente la mia preghiera è stata questa: “Vorrei avere la sua mente, la sua forma di guardare il pianeta giovani. Di aver il suo cuore, di amare i ragazzi come lui li amava; di farli sentire come lui li faceva sentire come se veramente ciascuno fosse l’unico, di avere la sua grande disponibilità verso i bisogni dei giovani”.
Allora è stato così.Adesso concludo il mio sessennio…basta!
 
POSTULANTE: Intanto grazie perché è un dono grandissimo che tu sia qui.. durante la novena di don Bosco abbiamo meditato il Sogno Dei Dieci Diamanti. Allora ti volevo chiedere: OGGI quale dev’essere l’ossatura di un buon salesiano, di una buona salesiana, di chi decide di dare la vita a Dio e ai giovani, sia dal punto di vista pastorale, di missione, ma anche dal punto di vista spirituale, perché poi è questo che guida la missione.
 
RETTOR MAGGIORE: Penso che l’interprete migliore del sogno dei dieci diamanti sia stato don Rinaldi. E’ il primo che ha capito che non si trattava di una lista di virtù, un catalogo ma che rappresentano l’identità salesiana, il profilo spirituale, il ritratto spirituale di chi voglia essere considerato figlio di don Bosco.
E’ il primo che ha capito che i cinque diamanti che si trovavano sul fronte del mantello devono essere il nostro volto civile, quello che tutti vedono. Tutti quanti dovrebbero conoscere questo nostro identikit, la nostra carta d’identità. Si deve continuare a spiccare per il lavoro e la temperanza: un lavoro inteso veramente al servizio della salvezza che però si può tradurre nel servizio più umile.
A volte ci chiediamo che cosa significa: significa l’esatto compimento dei propri doveri, ma che deve sempre avere una finalità salvifica. Un lavoro che sia collaborazione al progetto di salvezza.
E la temperanza?
Vuol dire innanzitutto avere un grande dominio di noi stessi, per non cedere alle sollecitazioni che ci vengono da fuori o alle passioni e alle seduzioni che vengono da dentro, a essere persone che hanno veramente un grande controllo di se stesse, che non cedono, che non sono altalenanti anche a livello di umore. Deve spiccare soprattutto una vita completamente teologale, in cui la fede, la speranza e la carità segnano la nostra identità cristiana.
Non siamo lavoratori sociali, siamo cristiani che con il nostro grande lavoro e la nostra grande temperanza e grande dominio di noi stessi facciamo professione di fede perché crediamo che Dio è amore. Allora le tre virtù teologali fede, speranza e carità dovrebbero aiutarci a diventare sempre più figli di Dio, a riprodurre il più fedelmente possibile l’immagine del Figlio in noi, perché questa è la nostra vocazione. Ecco, questa è la nostra carta d’identità.
Don Rinaldi allora dice che nel retro del mantello ci sono quelle virtù che non c’è bisogno che la gente veda ma sono l’ossatura interna, come una colonna vertebrale senza cui l’uomo crollerebbe.
Che cosa sostiene allora questa…facciata? No, non è una facciata, è un identikit che ha bisogno di un’ossatura, di una nervatura che veramente lo sorregga.
Allora vengono queste due virtù fondamentali che sono il digiuno e il premio. E’ quello che don Bosco diceva: “Un pezzo di paradiso aggiusta tutto”, che è come una speranza…ma non è la stessa cosa.
La speranza è una virtù teologale che consiste nel credere nella forza del bene, nella forza diffusiva dell’amore. Questo penso che non sia un atteggiamento psicologizzante che dice: “Ecco, ho ancora mezzo bicchiere d’acqua”, una visione positiva della vita…no! E’ una virtù teologale, un dono di Dio per cui possiamo affrontare la realtà con gli occhi della fede e non cedere alla tentazione che ci dice che non vale la pena essere buoni perché il male prevale.
E’ vincere il male a forza di bene. Questa è la speranza. Allora, dunque, i voti di povertà, castità e obbedienza, che non è indifferente la collocazione perché proprio al centro si trova l’amore e l’obbedienza si trova proprio corrispondente per dire che per noi, l’amore all’interno del vostro Istituto e della nostra Congregazione, deve soprattutto riprodursi attraverso l’obbedienza, che è la totale accoglienza di quanto Dio vuole da noi, che si esprime a volte nel programma di vita spirituale che prendi, nelle Costituzioni che professi, nelle obbedienze che ti arrivano dai Superiori.
Allora, don  Rinaldi fu il primo che si rese conto che non era un catalogo di virtù scambievoli con altre virtù: per cui, dal punto di vista esterno, noi siamo uomini e donne come tutti gli uomini e donne di questo mondo però con una identità cristiana.
Non c’è bisogno che gli altri vedano che noi siamo consacrati che dunque l’ispirazione, l’energia, la motivazione più trainante è nel cuore e che viene vista negli altri cinque diamanti.
 
SUOR CELESTINA: La vigilia di don Bosco ero qui a cena e la comunità si è regalata uno di questi diamanti per ciascuno. Ad un certo punto io sono dovuta andar via e non ho preso il mio diamante. Il giorno dopo viene di corsa questa Postulante e me lo porta…cos’era? Proprio l’obbedienza!!!
 
RETTOR MAGGIORE: Si vede che mancava, eh!
L’obbedienza per un superiore significa ascoltare Dio. Per  un Superiore l’obbedienza significa non dare come una parola di Dio quella che prima tu non hai ascoltato nella preghiera. Perché altrimenti puoi dare come voce di Dio quella che non è voce di Dio: perciò è importante davvero sostare davanti alla Parola, avere pazienza per fermarsi, per discernere come Mosè che prima di parlare al popolo di che cosa comandava Dio si fermava molti giorni sul monte per poter dire: “Dio vuole questo”.
 
DOMANDA: Don Bosco ha scritto le Memorie dell’ Oratorio e in esse ha scritto tanti episodi, ha parlato di mamma Margherita, dei suoi fratelli,  della sua infanzia. Puoi raccontarci qualcosa tu, della tua vita?
 
RETTOR MAGGIORE: Io non scrivo né diari né Memorie…io sono un grande estimatore delle Memorie di don Bosco! (ride)
La mia vita è stata sempre marcata...Io mi sono sentito sempre molto bene a casa, sempre. Vengo da una famiglia numerosa, dodici fratelli. In questi ultimi tempi ne sono morti due…adesso ho mia sorella che sta molto male. Una famiglia in cui ho imparatola fede, e prima di tutto l’amore, l’accoglienza. Mi ricordo che quando eravamo bambini, qualcuno dei miei fratelli suonava la chitarra, mia mamma aveva una bella voce insieme a una sorella e alla sera ci trovavamo a cantare…e a me, vedere la famiglia riunita, ha sempre fatto molto bene.
Dopo, papà aveva un negozio, con tante cose, aveva anche le biciclette…io andavo a caccia, a cacciare soprattutto conigli…non mi piace nemmeno la carne di coniglio, ma ero un buon cacciatore!!!
Io le cose che ho imparato li non le dimenticherò mai…non ho mai visto piangere mamma e papà. Li ho sempre visti molto sereni, non li ho visti mai bisticciare…assolutamente, assolutamente…non ho mai sentito mio papà dire una parolaccia. Era una persona molto fine, di una grande sensibilità umana, molto attenta ai bisogni degli altri…quando ricevevamo dei regali, andavamo dai bambini poveri a darglieli…
Per cui tante cose che faccio oggi per me sono imparate a casa.. un po’ strano quando io sono uscito da casa a undici anni e mi dicevano: “Quanto assomigli a tuo papà, hai gli stessi atteggiamenti!”.
Io sono uscito molto piccolo da casa: vuol dire che queste cose si imparano li.
E una delle cose che ho imparato sempre da papà è a non drammatizzare. Nessun problema deve essere drammatizzato. I problemi sono quelli e niente di più, né più né meno importanti di altre cose.
Mi ricordo, per esempio, quando mia mamma si ammalò e morì nel giro di quindici giorni. Era andata a città del Messico per il matrimonio di uno dei miei cugini. Si è sentita male durante il viaggio, l’ hanno portata in ospedale.
Un giorno torno dalla scuola dei Salesiani e la vedo sdraiata sul letto e le dico: “Cosa accade? Sei ammalata?” “No, sono stanca”. Invece era ammalata, infatti è morta in quindici giorni. E allora mi ricordo un episodio che racconto sempre che tre giorni prima che morisse avevo bisogno dei soldi per comprare le scarpe. Allora sono andato a chiederglieli.
E lei all’improvviso mi disse: “Sai che sempre ho chiesto a Dio un figlio prete”. Mi è capitato come a Isaia. Dice che Isaia si trovava solo nel tempio e Jawhè dice:”Chi manderò?”… E Isaia si guarda intorno…anche io ho guardato nella camera, ma non c’era nessun altro!Mi è capitata la stessa cosa…non c’erano gli altri fratelli, allora ho detto: “Forse sono io!”. Però io volevo i soldi. E lei mi ha dato i soldi e mi ha dato anche la vocazione.
Due giorni dopo io con due fratelli avevamo fatto colazione in fretta perché dovevamo andare a scuola dai Salesiani e questa sorella che adesso sta male mi dice: “Oggi non andare perché forse stamattina se ne va”.
Mi ricordo che tutti  e tre ci siamo messi nella camera seguente e ci siamo messi a pregare l’Esercizio della buona morte per aiutare la mamma a morire. Questo l’avevamo imparato a scuola.
Perciò ho visto che anche una realtà dura come la morte di una mamma che è sempre un grande dolore non va drammatizzata.  Questo l’ ho visto in mio padre.
Un giorno stavo tornando da una visita in Amazzonia. Ero nell’aeroporto di Santa Cruz che aspettavo l’aereo. Era la mattina di Pasqua e ho detto: “Adesso chiamo papà per dirgli Buona Pasqua”. 
Appena lo chiamo, mi dice: “Guarda che il Signore ci vuole bene, è venuto a prendersi tuo nipote”, figlio unico di una mia sorella che era ammalato. “ Forse tua sorella non poteva curarlo bene, Dio adesso lo curerà molto  meglio”.
Allora, mi sono sentito dire tante cose così che mi ha aiutato ad avere sempre un atteggiamento di fede, credente per guardare la realtà.
Non sono pessimista ma chiamo i problemi per nome.
Se avete letto, per esempio, l’ Osservatore Romano di tre quattro giorni fa c’era un mio articolo con delle statistiche sui giovani. Qualcuno potrebbe dire: “Ma sono una visione pessimistica”. No, sono i dati. E la realtà è peggiore ancora. Questo non vuol dire che sono pessimista. Sono un uomo di speranza.
Quando ero novizio. In quel tempo, la prima volta che andavi dal maestro dei novizi per prendere le osservazioni dopo gli scrutini, le lettere con cui tu venivi marcato erano A, B, C, D. Admittendum, Bonus, Corriggendum, Dimittendum. Allora la prima volta arrivo e mi trovo con una B. Ero felicissimo!
Venne una seconda volta  e non mi lasciò entrare. Mi vide che mi affacciavo alla porta e mi disse: “Sei come i gamberi, cammini al rovescio!”. E mamma mia! Sono rimasto così…e niente. Allora, cosa dovevo fare!Mi ricordo che allora quando arrivava il mese di maggio bisognava presentare la domanda per la Professione e ho voluto fare l’umile. Allora vado dal Maestro e gli dico: “Senti, guarda, non  mi sento preparato per la Professione”. E lui:”Ah, ecco, bene. Allora farai altri nove mesi di Noviziato”.
E io: “Io non mi sento preparato…MA CON LA GRAZIA DI DIO POSSO TUTTO!”. Allora mi è andata molto bene!!!
 
Io non ho quasi mai avuto scatti di tristezza…ripensamenti.
Mi ricordo solo uno quando stavo per essere ordinato diacono. A quel tempo una grande tristezza avvolse tutta la mia vita, tutta la mia persona. Ricordo che mi sono seduto vicino a un apparecchio per la musica, ho messo un po’ di musica…gli altri studiavano, e io ero veramente assorto.
E alla sera ho detto al Direttore: “Senti, ho bisogno di andare a parlare con papà”. Non era una cosa normale, perché casa mia si trovava a 700 km,…non è mica il Veneto! Allora sono andato a casa e papà  mi chiede: “Che cosa capita?”.
“Non so papà, devo prendere il diaconato e all’improvviso mi sono sentito così rattristato, ma non ne ho ragione, non so…tutto procede bene, mi sento ben voluto…non so che cosa capita…”
E lui mi disse questo: “Non andare mai contro te stesso. Se tu non credi questo, lascia stare. Da parte nostra non c’è nessuna pressione…noi vogliamo che tu sia felice. Sei felice lì…conta su di noi. Non sei felice li, la casa è aperta” .
Non disse di più. Queste due cose, era come se mi avessero ridato tutta la convinzione. Sono ritornato il giorno seguente ed è stato bene aver sentito quelle cose. Non è che fosse una crisi di vocazione, ma mi ricordo quella tristezza…non so come mai…forse è stato anche provvidenziale per poter sentire mio  papà che mi diceva quelle cose. Non andare mai contro te stesso. Non prendere decisioni che vadano contro te stesso.
Bene. Queste erano pi√π che una memoria!
 
POSTULANTE: E’ da  un mese che mi chiedo una cosa. Per ben due volte nelle memorie, don Bosco usa la stessa parola per dire “chiesa” e “oratorio”. E diceva che nell’oratorio l’attività ricreativa viene dopo che si è stati in chiesa. Allora mi chiedo: in oratorio, con questa realtà multiculturale , di altre fedi, di altre religioni…chiedo a don Bosco:che cosa dobbiamo fare con questi ragazzi?Qual è il mio ruolo? Cosa devo fare? Adesso sembra tutto così difficile.
 
RETTOR MAGGIORE: Innanzitutto, non ci sono opere salesiane. Ci sono salesiani che hanno oratori. Ma ci sono anche oratori diocesani. Non ci sono parrocchie salesiane. Ci sono salesiani che danno identità alla parrocchia.Ci sono molte scuole. E Salesiani che hanno delle scuole. Salesiani che hanno colto un carisma, che hanno un’identità ben precisa. Don Bosco poteva dire indifferentemente “chiesa” o “oratorio” perché aveva un’identità sacerdotale tanto chiara che questo gli permetteva di essere prete ovunque.
Allora, poter chiamare “chiesa” “oratorio” insieme, alla fine era creare un ambiente, un’atmosfera in cui i ragazzi potevano prima di tutto sentirsi accolti, sentirsi amati, sentire che erano il centro delle sue preoccupazioni e anche delle strutture che si sentiva chiamato ad aprire per rispondere ai loro bisogni.
In questo contesto, il problema non è la multiculturalità, la pluriconfessionalità,  il problema è la tua identità, del non nascondere la tua appartenenza cristiana e a don Bosco, fare una proposta chiaramente spirituale anche se dopo non puoi fare pressione per cercare di convertire quelli di un’altra religione come si faceva una volta.
Ma tu non puoi nascondere la tua fede, non puoi non condividere quella che è la tua ragione d’essere.
Parlando con il Primo Ministro in India dove ero andato per l’inaugurazione di un grande centro li,  io l’ho ringraziato dell’appoggio che il governo ci ha dato. Gli dicevo che noi non siamo li per fare proselitismo. Non è per convertire gli induisti, i musulmani, …soltanto i tribali, perché non appartengono a nessuna confessione religiosa, per cui stiamo lavorando molto con loro. Noi siamo li per contribuire alla formazione dei ragazzi. Non nascondiamo però né la nostra identità né la nostra proposta che ha alla base una antropologia, una visione dell’uomo. Ed è questo che deve interessarvi quando siete tra i ragazzi. Allora gli apri le porte, così che possano trovare altre possibilità.
Bene…queste non erano due domande!Era un bombardamento!
Grazie.
Postulanti
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