«In questi giorni quanti Stefani ci sono nel mondo!». Quante volte il Papa ha ripetuto che il nostro tempo è un tempo di martirio...
‚Äã«In questi giorni quanti Stefani ci sono nel mondo!». La rassegna dei nuovi martiri non ha fine per Papa Francesco. Anche ieri, ricordando a Santa Marta la lapidazione di Stefano, ha nuovamente messo all’ordine del giorno le schiere di quanti oggi vengono uccisi, calunniati, perseguitati dai moderni sinedri. I fatti, del resto, sono sotto gli occhi di tutti e tutti interpellano. «Pensiamo ai nostri fratelli sgozzati sulla spiaggia della Libia; pensiamo a quel ragazzino bruciato vivo dai compagni perché cristiano; pensiamo a quei migranti che in alto mare sono buttati in mare dagli altri perché cristiani; pensiamo a quegli etiopi, assassinati perché cristiani... e tanti altri. Tanti altri che noi non sappiamo, che soffrono nelle carceri... nascosti». Al punto che forse ci sono più martiri adesso che nei primi tempi. Quante volte il Papa ha ripetuto che il nostro tempo è un tempo di martirio?
I riferimenti del Vescovo di Roma alla persecuzione e al martirio continuano a punteggiare la sua predicazione perché la persecuzione non si è chiusa con le Passio dei martiri dei primi secoli e nemmeno con le schiere dei martirizzati nei mattatoi totalitari del Novecento. «Oggi la Chiesa è Chiesa di martiri: loro soffrono, loro danno la vita e noi riceviamo la benedizione di Dio per la loro testimonianza». Ed è perciò in questi continui riferimenti che si ritrova il criterio di fede con cui Papa Francesco guarda a questo tratto proprio della vicenda cristiana nel mondo. Il Successore di Pietro, con tutta la tradizione della Chiesa, anzitutto ci dice che la connotazione martiriale ha accompagnato e accompagnerà sempre la testimonianza cristiana e la missione della Chiesa «perché questo è il cammino del Signore, il cammino di quelli che seguono il Signore, perché Gesù stesso è il martire che con il suo martirio e la sua risurrezione ci ha salvati».
E la storia delle missioni è perciò la storia del martirio di Cristo che sempre si rinnova secondo la «beatitudine delle persecuzioni», previste e garantite da Gesù ai suoi discepoli. Il martirio è vocazione, dono che rende conformi a Cristo. La testimonianza feconda dei martiri ha perciò la particolarità di rendere manifesto un messaggio: la salvezza di Cristo.
Nella nostra cultura odierna questa natura propria del martirio cristiano viene però spesso persa di vista, e prevale una convinzione che rischia di fare del martirio soltanto una questione di diritti umani da rivendicare.
Ma se per i cristiani il fatto della persecuzione «non fa meraviglia perché Gesù lo ha preannunciato», e se il dono della fede dà la grazia di rendere testimonianza alla gloria di Dio fino al dono della vita, sul piano civile – ha chiarito, con una eloquente distinzione, Papa Bergoglio proprio nell’Angelus per la festa di santo Stefano lo scorso 26 dicembre – «l’ingiustizia va denunciata ed eliminata». Parlando di martirio infatti non bisogna mettere in secondo piano il valore della giustizia e l’assoluta deplorevolezza di situazioni di oppressione.
Se il martirio nasce come frutto santo di situazioni di iniquità, di violenze e violazioni della dignità umana, ciò non significa tacere e non combattere la radicale ingiustizia dei contesti storici che generano martiri. Nella Chiesa inoltre – come ha ribadito ieri il Papa – non ci sono solo «perseguitati da fuori, ma anche da dentro per la loro fedeltà alla Parola di Dio». Nelle riflessioni di papa Francesco dunque la persecuzione e il martirio – come insegna da sempre la Chiesa – attingono e rimandano al mistero stesso della salvezza promessa da Cristo. Il suo sguardo sui fatti di persecuzione pertanto non si confonde con i cultori degli scontri di civiltà e con le interpretazioni in chiave politico-mediatica dei patimenti sofferti dai cristiani.
Se denuncia con forza ogni violazione della libertà religiosa e della dignità umana, al tempo stesso annuncia che Cristo ha fatto della persecuzione e della morte uno strumento di salvezza. Francesco richiama tutti a non dimenticare o occultare mai per nessun motivo le loro sofferenze e a pregare per questi fratelli che soffrono. Ma ripete che la condizione propria dei cristiani nelle vicende del mondo rimane sempre l’inermità di coloro che Cristo, vivendo in essi, ha reso «agnelli in mezzo ai lupi», agnelli che vincono il peccato, il male del mondo. Non sconfitti, ma vincitori.
«Santo Stefano facendosi simile a Gesù muore con quella magnanimità cristiana del perdono, della preghiera per i nemici», e molti, grazie a lui, ricevono la vita. Non sono forse proprio i martiri a venire celebrati come gli intercessori più efficaci per essere fautori di riconciliazione e di unità nella Chiesa e, con la loro testimonianza di sangue, strumenti di pace? La Chiesa non piange, non strumentalizza, ma celebra nell’Eucaristia i suoi martiri. Essi gettano ponti.
Non innalzano muri. «Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano affinché siate figli del Padre nostro che è nei cieli»: questo è il cuore e il paradosso del martirio cristiano e della missione della Chiesa. Il resto sono chiacchiere.
Stefania Falasca
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