Il racconto dei salesiani dal Sudan in guerra
Chi ha potuto è fuggito dal Sudan, nel pieno di una guerra “incivile” scoppiata il 15 aprile come ultimo braccio di ferro fra Abdel Fattah al-Burhan presidente in carica e Mohamed Hamdan Dagalo, suo vice. In una ennesima concentrazione in Africa della competizione mondiale per l’acquisizione di risorse naturali e per il dominio dei traffici (anche di essere umani), i due hanno rotto il precario equilibrio che si era via via stabilito fra di loro dopo la caduta del dittatore ʿOmar Hasan Ahmad al-Bashīr nel 2019 e il successivo colpo di Stato guidato dallo stesso al-Burhan e supportato da Dagalo.
Non è una guerra civile poiché non nasce da contrapposizioni ideologiche o da contrasti etnici nel popolo sudanese, ma è una violenza che si è scatenata quando il capo delle forze speciali si è reso conto di poter aumentare il suo potere a Karthoum anche a prezzo di sangue. “Tra lo stupore di tutti, sabato 15 aprile si sono sentiti spari e pesanti colpi di arma da fuoco”, riferisce padre Jacob Thelekkadan, direttore dell’istituto salesiano che dista solo cinque chilometri dall’aeroporto internazionale della capitale sudanese. È stato questo il primo obiettivo delle RSF (Forze di Supporto Rapido) contro l’esercito regolare. La scuola professionale Don Bosco, unita alla parrocchia cattolica di San Giuseppe, si è trovata al centro del conflitto fin dalle prime ore: a quattro chilometri si trova il palazzo presidenziale, a tre una delle basi della RSF.
I combattimenti sono iniziati intorno alle 9:45. L’aeroporto internazionale di Khartum, la capitale, è stato conquistato usando cannoni e carri armati. “Ci sono pesanti colpi di arma da fuoco in tutto il nostro istituto!”, ha comunicato in tempo reale padre Jacob, e le foto che ha inviate testimoniano le cadute di proiettili sulla scuola. “Una bomba è caduta nel nostro laboratorio. Per fortuna non c’era nessuno, pur essendo il sabato un giorno di lezione”.
Ad oggi si contano circa 500 persone uccise e quasi cinque mila feriti, sostiene il Ministero della Sanità del paese. Non ci sono tregue, se non di poche ore: i combattimenti proseguono mentre è iniziata anche la guerra della propaganda che dà per vittorioso l‘uno o l’altro dei contendenti. Mentre la comunità internazionale al momento non riesce a far altro che ad annunciare la tragedia dei profughi e una crisi umanitaria gravissima in una regione vittima di carestie ricorrenti. I governi dei singoli paesi provvedono a far evacuare i connazionali con convogli protetti per uscire dalle zone di combattimento e imbarcarsi sul primo areo che decolli da Gibuti.
I salesiani restano al loro posto assieme a rari altri responsabili di ong. È una decisione sofferta ma coerente con quanto accaduto in casi analoghi in passato: Congo, Venezuela, Ucraina… Fino a che non sarà impossibile sopravvivere alla scarsità di acqua, cibo, energia, resteranno nella capitale, poi si sposteranno in altre località ma sempre del paese. I Figli di Don Bosco sono radicati in Sudan e, sebbene non svolgano attività di proselitismo per rispetto non solo delle norme locali ma anche della volontà di dialogo con l’islam, sono amati dalle migliaia di famiglie che hanno beneficiato e beneficiano della formazione scolastica e professionale che da oltre trent’anni realizzano con le loro opere. Oltre a Karthoum, con nove confratelli, sono a El Obeid, comunità di Santa Bhakita, con altri quattro, anch’essi dediti a un centro professionale. Insieme ad altri uomini e donne di buona volontà si fanno carico di tenere ferma l’attenzione alla popolazione. “Preghiamo affinché il buon senso possa prevalere da entrambe le parti. Preghiamo affinché le aspirazioni tanto attese del popolo sudanese per la pace e la sicurezza possano spingere i leader di questi gruppi a sedersi insieme e negoziare per la fine delle loro ostilità e lavorare ardentemente per spianare la strada alla pace e alla sicurezza in Sudan”, scrive l’arcivescovo di Khartum, mons. Michael Didi Agdum Mangoria.
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