Averti conosciuto mi mette la santità a portata di mano e memoria. Eri lì nei corridoi della mia scuola e facevi lezione, e bene. Eri un santo, e nessuno lo sapeva, perché eri troppo ordinario. Credo neanche tu lo sapessi...
Caro 3P,
ti hanno fatto beato, anzi no, ti hanno proclamato beato, perché beato già lo sei. ‘Santo’: ti rendi conto?
Quando qualcuno ti diceva provocatoriamente «monsignore» tu rispondevi con una colorita espressione palermitana: «A tto’ patri», «A tuo padre». Così, dalle nostre parti, si rimanda al mittente un’offesa. Non ti piaceva quell’epiteto, perché non facevi il sacerdote per acquisire cariche, ma per portare carichi, servire, sapevi che la parola sacerdote non ha gradazioni. È assoluta.
E se ti avessero detto «santo», chissà come avresti reagito… Eppure ora te lo posso dire. Sei santo e la tua risposta scanzonata coglierebbe pure nel segno, perché il Padre nostro è veramente l’unico a essere santo e noi siamo solo dei poveracci vestiti da re dal più grande stilista, che se veste così l’erba del campo figuriamoci l’uomo.
Camminiamo per strada, con i nostri vuoti fisici e morali, con le nostre debolezze, stanchezze, paure e dubbi, eppure siamo santi. Siamo santi tutti e non lo vogliamo capire, santi per immagine e somiglianza, santi per grazia e vocazione. Siamo tutti santi. I primi cristiani si chiamavano così fra loro: santi. Noi a queste cose non ci crediamo più, noi cristiani adulti di oggi. Pensiamo che i santi siano solo quelli dei santini. Cose da bigotti. Invece i santi sono carne, ossa e fuoco.
Io ho avuto la fortuna di conoscerne di persona due, fatti di questi materiali. Il primo è stato Giovanni Paolo II. Il secondo sei tu. Lui era un gigante e del gigante aveva la voce cavernosa. Tu eri piccolo e avevi la voce tenue. Lui veniva dal nord Europa, con i suoi occhi azzurri come ghiacciai, tu venivi dal sud dell’Europa, con i tuoi occhi marroni come le scarpe che tuo padre riparava. Non vi assomigliavate affatto, eppure siete beati entrambi. Come tutti, per vocazione, ma voi più di tutti, per risposta piena a quella chiamata, a quella grazia che è Fuoco. Averti conosciuto mi mette la santità a portata di mano e memoria. Eri lì nei corridoi della mia scuola e facevi lezione, e bene. Eri un santo, e nessuno lo sapeva, perché eri troppo ordinario. Credo neanche tu lo sapessi. Eppure avevi gli effetti sismici del santo: eri l’epicentro silenzioso di terremoti. Non si poteva rimanere indifferenti, davi fuoco alle braci. I santi sono questo: fuoco che fa ardere le braci che abbiamo nell’anima, spesso sopite sotto la cenere della comodità, della noia, dell’incredulità. Causavi terremoti di libertà: fino a che non la tocchi e non te la mettono in mano, la libertà, te ne stai comodo e annoiato con la tua vita piccola e riempita di cose che si rompono. Da salotto. Il salotto è il contrario del santo. E infatti tu il salotto neanche ce l’avevi. Avevi un letto, una cucina e poi libri, dappertutto. Ma ci tornavi solo la sera a casa, come quella sera del tuo compleanno in cui ti hanno sparato: dies natalis doppio il tuo, o unico, in your end is your beginning direbbe il poeta.
Il tuo salotto era la strada. La strada dove i ragazzi disfacevano le loro vite, a Brancaccio, tra violenza, droga, ignoranza, prostituzione, spaccio, pizzo… E tu li prendevi uno a uno e tra un calcio al pallone e uno nel sedere gli raccontavi che erano santi pure loro, perché figli e figlie del Padre e non del padrino. E loro, dall’inferno uscivano, almeno alcuni, perché credevano a te e a come li guardavi, perché eri santo e li guardavi con le pupille di Dio. Ti credevano perché un santo è uno che ama e perdona come ama e perdona Cristo, e non ha tempo per sé come Cristo, come quel poster che avevi in casa, un orologio senza lancette con su scritto: tutto il tempo è per Cristo.
Il tuo salotto erano le classi delle scuole in cui hai insegnato fino alla fine. Non hai mai voluto smettere. Perché sapevi che quella era la cosa da fare per cambiare Palermo: cambiare i ragazzi.
E loro cambiavano perché eri santo e martire: vedevano come parlavi, come sorridevi, come raccontavi la Bibbia, come celebravi la Messa e la Confessione. Tu eri santo perché maneggiavi con cura le cose sante di Dio: uomini, donne e sacramenti. E uno non aveva più scuse, perché Dio c’era. Eri ordinario, come Cristo tra i suoi, lui un figlio di falegname, tu di calzolaio. Eppure chi ti passava accanto si sentiva più libero, mai giudicato, atteso sempre, mai incalzato, ma spinto a dare il meglio. La santità era a portata di mano, la potevi toccare: aveva la consistenza del tuo volto, delle tue mani, dei tuoi piedi. Del tuo fuoco.
Ora sei beato, caro 3P, e la santità è qualcosa di più abbordabile, tascabile quasi. Qualcosa che solo Dio può dare a chi non si chiude nel salotto, ma fa della strada il suo salotto. E la strada è lì dove Dio lo chiama: in ufficio, a scuola, al supermercato, tra i fornelli, allo sportello della banca, dietro un computer, al mare, in montagna, in centro e in periferia. Questo ti chiedo di ricordarci: che tutti siamo santi lì dove siamo, se solo non ci chiudiamo all’unica Beatitudine, l’unica possibile in queste vie del mondo così trafficate di uomini e donne che cercano la beatitudine con la minuscola, quella che una volta che l’hai afferrata è già perduta. La Beatitudine continua e infrangibile invece è lì a portata di mano. Così eri tu, per me. Così sei tu, adesso, per tutti. Grazie, caro amico e padre, martire dell’ordinario amore straordinario di Dio.
Alessandro D'Avenia
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